Taglieggiati per poter fare richiesta d’asilo, costretti a mescolarsi tra i frontalieri o a nascondersi in vani motore delle auto, ricattati e sempre a rischio di espulsione. Anche per molti africani il limbo sul confine Marocco-Algeria è diventato una prigione, cui ormai si preferisce il viaggio mortale attraverso la Libia
di GIULIA BERTOLUZZI
Nel 2015, i primi cento chilometri di muro tra l’Algeria e il Marocco sono stati costruiti e altri 500 sono in cantiere. Una nuova barriera fisica che non sembra però intaccare l’economia di frontiera. Lungo il confine, i commerci di benzina algerina di contrabbando continuano a lucrare, così come il passaggio di persone, dall’Africa Subsahariana e dalla Siria, che transitano in Marocco con il sogno di entrare in Europa.
Tutta la rete è scandita da piccole porticine metalliche che i passeurs conoscono a menadito per connettere la città di Oujda in Marocco con quella di Maghnia in Algeria, i due grandi snodi per i migranti. Come spiega Mohamed Kerzazi dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani) di Oujda “il flusso è per lo più in direzione del Marocco, ma sempre più persone utilizzano il passaggio a ritroso, per tornare in Algeria e da lì dirigersi verso la Libia”.
In senso contrario, sempre più siriani entrano in Marocco illegalmente dall’Algeria. Entrambi i paesi hanno introdotto il visto obbligatorio per i siriani rispettivamente ad agosto e a gennaio di quest’anno, rendendo l’unica rotta possibile quella illegale. Abderazak Ouiam segretario della sezione Oujda di OMDH, ONG partner di UNHCR per la registrazione dei rifugiati, spiega che “la maggioranza arrivano dalla Turchia o dal Libano da dove prendono un volo per il Sudan, uno per la Mauritania e da lì si mettono in marcia per Mali e Algeria via terra e clandestinamente”. Anche le cifre parlano, in Marocco sono solo 834 i richiedenti asilo siriani, nella sola Melilla più di 2000.
“Con la mia famiglia, abbiamo provato in tutti i paesi. Siamo stati in Libano, Turchia, Egitto, Tunisia, Algeria e Marocco. Da nessuna parte abbiamo trovato un rifugio, un posto in cui poter vivere senza minacce o soprusi” racconta Lilia, giovane diciottenne damascena, di cui tutta la famiglia, compresa la figlia di due mesi, è in Europa, mentre lei da sola lotta per la liberazione del marito, in prigione per aver tentato d’immolarsi davanti al confine con Melilla.
La maggioranza dei siriani, stanchi di molte procedure e zero efficacia, si dirigono direttamente alle frontiere, bypassando le istituzioni e tentando l’ultima chance in Europa. Ma nonostante l’apertura di un nuovo ufficio UNHCR per richiedenti asilo sulla frontiera di Beni-Enzar, tutti i richiedenti sono obbligati a pagare il “biglietto” per riuscire ad arrivare fino all’ufficio. I militanti dell’AMDH di Nador da mesi denunciano la corruzione delle guardie di confine (sia marocchine che spagnole) che obbligano i siriani a pagare fino a 1200 euro per poter passare la frontiera e deporre la propria domanda d’asilo. La “difficoltà più grande è far passare i bambini”, spiega Omar Naji, AMDH, “perché se gli adulti riescono a nascondersi tra i lavoratori transfrontalieri marocchini, i bambini devono essere nascosti” e in tanti casi si traduce in una mazzetta più grande sia ai passeurs che alle autorità.
Per un migrante africano, avvicinarsi alla frontiera è diventato impossibile. Stéphane Julinet, giurista di GADEM (groupe anti raciste de défence des étrangers et migrants), spiega che “per 6 mesi, nessun africano è riuscito ad entrare a Ceuta o Melilla”, e dei pochi africani che ci sono riusciti, i rischi e i prezzi sono diventati insostenibili. Pagano fino a 3000 euro per essere nascosti nei posti più impensabili di macchine e camion: incastrati dentro i cruscotti e in anfratti sotto i sedili e comunque venendo intercettati e espulsi.
“Le grandi retate contro i migranti che avvenivano in tutto il paese si sarebbero dovute arrestare con la grande regolarizzazione del 2014 in cui 18.000 persone (tra cui anche europei e americani e i rifugiati siriani) ottennero il permesso di soggiorno” continua Stéphane. Ma lungo tutti i confini settentrionali, la così chiamata “caccia al migrante” resta una prassi. Nei quartieri come Bukhalef a Tangeri, e nei boschi in cui i migranti subsahariani si rifugiano in tende di plastica intorno a Ceuta, a Melilla e nella città di Oujda, la polizia visita regolarmente per bruciare gli accampamenti e deportare in zone più interne del paese tutti gli uomini.
Questa tecnica s’iscrive all’interno della lotta contro la migrazione clandestina, capitolo importante del patto di mobilità firmato da Marocco e 9 stati europeigiugno 2013, “un capitolo molto strumentalizzato” spiega Elsa, volontaria a GADEM, “per cui sotto la bandiera della lotta alla tratta, le autorità marocchine giustificano tutte le azioni di frontiera. Un paragone naturale è quello dei bombardamenti europei ai trafficanti in Libia, in cui la guerra all’immigrazione clandestina viene fatta passare come una lotta contro i trafficanti”.
Con la Spagna da un lato che blocca l’entrata e i flussi di finanziamenti europei per la gestione dei migranti dall’altro, il Marocco ha abilmente giocato le sue carte. Ha accettato di buona lena di diventare un guardiano delle frontiere europee, ma non senza ottenere buoni accordi a livello commerciale, politico e sociale.
Migliaia di africani si sono quindi ritrovati bloccati in Marocco da anni, senza soldi, lavoro, né alloggio, vivendo nei boschi alla mercé del freddo e della polizia. “Alcuni fratelli, non sapendo che altro fare” racconta Theo, giovane camerunense che ha tentato tre volte la traversata senza successo “mi hanno scritto che erano riusciti ad arrivare in Italia, passando dalla Libia”.
“Ormai sono tre mesi che gli africani hanno iniziato a partire verso la Libia” spiega Stéphane Julinet, “da Oujda verso l’Algeria, il Mali, il Niger e riattraversando il deserto verso la Libia”. Questo tragitto è il più pericoloso dell’intero viaggio. Stipati sui pick-up, senza spazio nemmeno per sedersi. “Se cadi sei morto” racconta Theo, “la macchina non si ferma e tu sei destinato a morire nel deserto. Ma qual è l’alternativa?”.
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