L’Orco di Mussolini e un conto da sanare con la Giustizia. Intervista all’Autore Marco Di Tillo.

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Furono anni controversi quelli del Fascismo, una delle macchie nere della storia d’Italia aggiunta a quell’epidemia di assolutismo che avrebbe inesorabilmente attraversato tutta l’Europa.

Un periodo in cui ogni valore costituito e fino ad allora conosciuto venne sovvertito, rigirato e confuso, con la copertura di una propaganda d’effetto e giustificante che non avrebbe mai potuto lasciare spazio a dubbi: la realtà era quella, e spesso le persone non si rendevano conto della bomba ad orologeria che  erano i totalitarismi col loro inesorabile conto alla rovescia che, di lì a poco, avrebbe scatenato l’irrimediabile.

A volte vorremmo poter affermare con orgoglio che certe cose non siano mai accadute davvero; con la testa alta di fierezza, magari, e il petto gonfio d’onore.

E’ in questi anni difficili che si inserisce il romanzo giallo “L’orco di Mussolini” scritto da Marco di Tillo ed edito da Mursia Editore.

Anni venti che in Italia iniziavano già ad essere torbidi e tormentati, inaspriti ulteriormente dalla sparizione inspiegabile di ben sette bambine nella Capitale. Tutte, una per una, costrette a subire violenza sessuale prima che venisse loro tolta via la vita. Ed è con un colpevole dal sapore d’innocenza e un investigatore dalla tempra di onestà solenne che si riesce a ripristinare la verità, senza che questa abbia portato con sé un’equa giustizia.

“Da ragazzo avevo visto il bellissimo film “Girolimoni” del 1972, con Nino Manfredi, ispirato alla vicenda dell’uomo che fu ingiustamente accusato dell’omicidio delle bambine di Roma, negli anni ’20”- racconta l’Autore Marco di Tillo:”Ma non sapevo niente riguardo all’esistenza del commissario di polizia Giuseppe Dosi, l’uomo che scagionò Girolimoni e trovò il vero colpevole. Ho scoperto per caso questo grandissimo detective che, tra l’altro si prestava proprio bene ad essere un personaggio da romanzo, se non addirittura da film. Alto, grosso, parlava quattro lingue, suonava violino e fisarmonica, da giovane era stato attore al teatro Argentina e, durante le sue numerose indagini, si era travestito interpretando ben 33 personaggi diversi, compresa una donna. Era il poliziotto più in gamba di tutto il Ministero degli Interni di allora ed abitava a Roma, in via Vejo 53, in un palazzo in cui io stesso ho abitato 50 anni dopo di lui. Insomma, era un destino il “nostro” incontro e non ho potuto evitare di mettermi a scrivere questa storia”.

Poliglotta, talentuoso, attento ed esperto Giuseppe Dosi, dedito ad una carriera per la quale era disposto a spendersi con ogni mezzo, seppur entro il doveroso limite della legalità. Poi, l’ulteriore vittima dell’“omicidio” di un errore giudiziario, killer di un’onorabilità personale che in questi casi viene sì persa e spesso mai recuperata: il signor Girolimoni.

E la portata di un crimine devastante come la pedofilia trascina con sé un senso di terrore misto a impotenza, che solo a pensarlo già ci si atterrisce il cuore, e la pelle da liscia si fa ruvida di brividi che serpeggiano insidiosi, un po’ come i pensieri deviati di chi, preso da chissà quale impulso o lucido giudizio, compie atti privi di umanità. Una distorsione brutale che vede come oggetto di desiderio creature bianche di purezza e una turpe smania sessuale che non lascia scampo e che può lasciare dietro di sé morte o vita nella morte, di eventuali superstiti che mai, in nessuna maniera, potrebbero dimenticare il trauma di aver vissuto un’esperienza tanto atroce.

“La pedofilia, tema base del mio L’Orco di Mussolini è in assoluto uno degli argomenti che più mi fanno arrabbiare, anzi, per dirla tutta, disperare letteralmente. Ho cercato di studiarne gli aspetti, cosa che fa anche il commissario Dosi nel romanzo. Ma più studio, più mi rendo conto di quanto vincere contro questo nemico terribile, sia pressoché impossibile. E’una di quelle cose da cui probabilmente non si guarisce mai”.

Mai guariscono, né vittime né carnefici. Sette vittime per sette anime che hanno vissuto un ultimo giorno nel proprio corpo con l’ingenuità forse di non capire cosa stesse succedendo. Un’ingenuità che ha protetto gli ultimi istanti di estremo dolore con l’inconsapevolezza di un evento sconosciuto e innaturale: cosa capiscono i bambini di tutto questo?

“Se ho voluto utilizzare il sette come numero simbolico? No, il sette è un numero simbolico tutto romano, è vero, ma in questo caso è stato solo un numero e basta, anche perché, se il colpevole non fosse stato fermato in tempo, il numero delle vittime sarebbe potuto aumentare a dismisura”.

Era la fretta, la cattiva consigliera? La fretta, dunque, il pretesto per chiudere un’istruttoria abietta e oscena più che mai sanguinolenta tanto da portare Mussolini ad avere il bisogno di andare oltre questa storia e di far dormire sogni sicuri alle famiglie romane? Se non fosse stato trovato un vero colpevole, tale mancanza non solo avrebbe adombrato la credibilità del regime fascista e il ruolo del Duce come garante della giustizia, ma avrebbe anche fatto sì che ogni famiglia avrebbe continuato ad avere paura di quel mostro, quel pedofilo, a piede libero per le strade, dietro l’angolo, dentro un incubo, o nell’attesa angosciante delle madri che aspettano il ritorno dei bambini in casa per poter sospirare un “stanno bene” sommesso e grato.

Ed è qui che viene inventata la colpevolezza di Girolimoni, indubbiamente innocente, ma visto come il miglior capro espiatorio: senza possibilità di scagionarsi, il più utile a impersonare la figura del reietto e dell’assassino. Nessun ingaggio d’attore però, nessun film,  in questo caso era in gioco la vita vera e la dignità di un uomo: calpestate, senza alcun rispetto.

Ma nonostante la sua bravura… “Si tratta proprio di giustizia mancata, nonostante il grandissimo Dosi fosse riuscito, alla fine, a prendere il vero colpevole dopo aver trovato ben 93 prove della sua colpevolezza. Ma Mussolini fu preso dalla paura perché quel colpevole gli avrebbe creato troppi problemi, sia con la Chiesa che con la Gran Bretagna, allora grande amica dell’Italia. Lo lasciò andare e se la prese invece con lo stesso Dosi, perseguitandolo”.

Una storia vera dall’epilogo inventato per insistenza di quell’<<orco>> che fu Mussolini, il che la rende ancor più surreale. Ma rende più nobile la volontà di mettere per iscritto modi e tempi, verità e paure in nome di una giustizia che seppur mancata, seppur tardiva, merita finalmente pace, accoglienza e infine riposo.

 “Quelle bambine non furono mai <<vendicate>> anche e soprattutto a causa di decisioni incredibili. Scrivendo questo romanzo, volevo rendere omaggio al poliziotto Dosi, poco conosciuto ai più, ricordare quelle bambine così piccole, la cui vita fu stroncata praticamente sul nascere e, se possibile, <<sporcare>>  con la mia penna d’autore l’immagine di un cattivo che non pagò mai per i propri crimini e che arrivò a vivere fino a 90 anni da uomo libero. Nel farlo, oltre a leggere decine e decine di libri di storia, mi sono basato anche sul libro di memorie pubblicato da Dosi stesso nel 1973, <<Il mostro e il detective>> edito da Vallecchi”.

Come afferma l’autore, da questo romanzo emerge la rovina che potrebbe disfare la vita di un uomo in un attimo nel caso in cui venga preferita una bugia al posto della verità, un pericolo che conosciamo bene essendo continuamente bersagliati al terrorismo mediatico di internet che viene malamente profuso dalle fonti d’informazione. Ma emerge anche un esempio di virtù, quello del commissario Dosi che crede nel proprio lavoro e nel proprio senso di giustizia, senza mai farsi abbattere mai e senza tentennamenti. Con una sicurezza e un’integrità morale che dovrebbe essere propria di tutti e mai oggetto di compromesso.

Per riscattare una Roma degli anni ’20 profondamente diversa da quella a cui siamo abituati, fascismo a parte: ”Il centro, ad esempio, era vissuto dal popolo. Tutta la storia si svolge praticamente tra la zona di San Pietro e quella di via Giulia, pochi chilometri con il fiume Tevere in mezzo. Lì viveva la povera gente, i bambini giocavano da soli per strada fino a sera. Un mondo che, per i giovani romani di adesso, è molto difficile da capire. Io, in parte, negli anni ’50 e ’60 della mia gioventù, ho conosciuto qualcosa di simile. Anche io giocavo a calcio per strada e mia madre mi doveva venire a riprendere”.

Un lascito di epoche, che adesso confluiscono nel nuovo con la promessa di un futuro che cambia e che cambierà ancora e ancora.

                                                        Di Ginevra Lupo

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