“Le nostre imperfezioni” di Luca Trapanese e un sorgere del sole che è il nome di sua figlia.

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Non inizieremo questo articolo con grandi proclami da capogiro, e non inizieremo col dire cos’è – o cosa non è Luca- perché non importa. Non ci sono etichette, nomi, marchi, targhette, men che meno numeri che possano identificare qualcuno se non quel qualcuno stesso, con tutta la propria unicità.

Al Salone Internazionale del Libro di Torino abbiamo avuto la fortuna di assistere alla presentazione del libro “Le nostre imperfezioni” con relatore Mattia Villardita, scritto da Luca Trapanese – ora possiamo dirlo, in virtù del ruolo che ricopre per la società Napoletana- assessore welfare del comune della sua stessa città, ma svestito, come scrittore, in parte, del ruolo che ricopre: perché c’è tanto di umano in quel romanzo, una trasposizione da Luca a Luca, e da Luca a molti com’è giusto che sia.

“Il mio libro <<Le nostre imperfezioni>>” – racconta l’Autore durante l’incontro, “è la trasposizione di contenuti essenziali che riguardano la vita, quella imperfetta”.

Quella vita, <<ad una prima botta>> difettosa, con lo schianto dell’imprevisto e con la desolazione dell’irreversibile: quella dal fatto compiuto da cui non si può più scappare.

Ho avuto modo di conoscere in prima persona la disabilità già a sedici anni, quando il mio migliore amico Diego si ammalò di melanoma e a poco a poco si è spento, mentre lo accompagnavo con un Padre Nostro che abbiamo recitato insieme, mentre andava via. Diego per me è stato uno spartiacque che mi ha messo davanti due scelte, non uguali anzi, estremamente contrarie. La prima sarebbe stata scappare e vivere felice, dimenticando. La seconda invece, più difficile, mi avrebbe costretto ad accettare la verità di un’esistenza che non ha niente di perfetto”, continua a raccontare.

Voltare le spalle alla verità o affrontarla e operarvi inframezzo? Non è stata la prima scelta la vocazione di Luca Trapanese, quella a cui avrebbe deciso di dare ascolto. In una società in cui è l’idea di perfezione a sorreggere l’impalcatura di un edificio fragile, accettare che la realtà sia proprio quella nascosta dal cantiere, piena di crepe, scoperchiata, stinta e cadente, non è facile. Quella in cui nessuno sembra quasi poter operare, sen non quegli assurdi, perfezionisti, addetti ai lavori: ”Siamo bombardati da messaggi di perfezione in ogni ambito, con obiettivi perfetti che dovrebbero portarci ad una vita perfetta. Fermiamoci: essere i primi o i migliori poco importa. Noi dobbiamo essere felici”.

Un romanzo per la vita imperfetta, quella vera, senza artificio e senza vergogna. Un romanzo per cercare di scardinare convinzioni incise nella coscienza collettiva guidate dall’ignoranza e a volte dall’insensibilità, oppure semplicemente dalla superficialità del farsi trascinare dal sentire comune.

“Da giovane dunque ho imparato la differenza tra disabilità, condizione in cui si nasce e malattia, condizione per cui invece si muore. Mia figlia, Alba, la bambina che ho deciso di adottare, ha la sindrome di Down ma non è malata”.

La sinossi è orientata intorno all’incontro di Livio e Pietro, di due uomini che incrociano i propri itinerari sullo sfondo del Cammino di Santiago, famosa tratta di pellegrinaggio dai tempi del <<secolo oscuro>>. Pietro è malato, costretto in carrozzina e i due uomini si innamorano e decidono di intraprendere una relazione che poi si svolgerà nel paesaggio urbano napoletano. Non c’è spazio per quella fantomatica impeccabilità che dovrebbe essere attribuita a Livio, potenziale <<profilo sano>> della storia. Come tutti, Livio ha le sue titubanze, i suoi momenti no, e la sua stanchezza, anche perché stare vicino a Pietro non è facile.

“Volevo far passare il messaggio che anche chi è in sedia a rotelle vuole essere amato, vuole lavorare, fare sesso, esattamente come tutti noi. Volevo far capire che chi sta accanto ai disabili non è un eroe e non avrei mai voluto rappresentare Livio come l’uomo impeccabile innamorato di un disabile, volevo raccontare la verità. Siamo tutti imperfetti, ma possiamo essere bravissime persone imperfette che fanno enormi scivoloni. Abbiamo tutti le nostre disabilità, che non necessariamente sono solo fisiche”.

Durante il romanzo vengono trattati temi importanti come l’inseminazione artificiale e l’ adozione. Questione in primo piano nella vita di Luca Trapanese, papà <<per scelta>> di Alba, di quel sole da cui è originata la sua paternità senza riserve, quell’amore responsabile, serio, onesto, che non ha mai lasciato spazio a ripensamenti. Ci sono state famiglie coinvolte nella scelta di adozione di Alba che non si sono riconosciute pronte ad affrontare un percorso di tale portata e lei ha dovuto aspettare ben venti speranze da fonti diverse prima che arrivasse Luca:” Per me è stato il giorno più bello della mia vita. Io, come uomo, ho scelto di diventare padre con un istinto consapevole al pari della maternità. Per me adottare un figlio è stato come partorirlo: perché ha avuto origine dalla mia volontà, dalla mia forza”.

Perché tutti, a pensarci bene, siamo disabili, ci ha fatto riflettere Luca Trapanese, che ha sfidato chiunque con l’invito a guardarsi dentro per trovare il coraggio di definirsi <<normali>>, <<risolti>>, o <<perfetti>>. Esiste un’idoneità alla vita? Risulta più idoneo l’essere genitore quando chi genera figli non vive la pesantezza dei servizi sociali, dei test psicologici, dei giudici…? Non ci sono le cosiddette linee guida, e gli aspiranti genitori che hanno deciso di non farsi carico di una bambina con disabilità probabilmente non si sentivano idonei al ruolo che avrebbero ricoperto per Alba, ma allo stesso tempo meriterebbero un grande rispetto per la loro travagliata presa di coscienza.

“Si tratta di coppie che hanno già sperimentato la disabilità di non potere avere figli, e dal punto di vista emotivo non si tratta di una realtà irrilevante. Il percorso di un genitore che ha un bambino disabile è una strada in salita ripidissima fino alla fine, e anche oltre. Dopo l’estenuante iter per far riconoscere la disabilità e l’idoneità alla legge 104, bisogna anche pensare all’adolescenza di questi ragazzi, alla loro sessualità e, non ultimo, all’inserimento nel mondo del lavoro. Bisogna pensare a qualsiasi scenario”.

Per questo motivo abbiamo deciso di non iniziare con sproloqui e magniloquenze finalizzate al nulla. Quando ha iniziato a girare la notizia dell’adozione di Luca Trapanese, come raccolta lui stesso, i giornali non hanno esitato ad attirare l’attenzione mettendo, a cominciare dal solo titolo, tutte le etichette del caso:” gay, single, padre, adotta bambina down”, ci riporta. Quanto scalpore portano le etichette anormali? Quanta bizzarria invece per un’azione che dovrebbe essere presentata come veicolata da un amore naturale e umano?

“Io sono Luca, non c’è bisogno di dire gay. Anche io sono imperfetto? Come no, ma non perché sono gay: sono imperfetto come tutti. Sono partito dalle mie imperfezioni, e anche dalla mia omosessualità con la fortuna di aver incontrato le persone giuste che hanno alleggerito il mio percorso e che mi hanno sostenuto per diventare Luca, per essere Luca”, ci racconta.

Una cosa è certa: Luca il padre vuole saperlo fare. Ha deciso fin da subito di rendere Alba fiera di quel che è e libera nella consapevolezza, per evitare che possa ritrovarsi senza strumenti per reagine al macigno della derisione, dell’ignoranza e ancor peggio; per accettarsi lei, in prima persona. Per renderla orgogliosa e capace di camminare a testa alta, conscia della sua normalissima diversità. 

Per spiegarci questo ultimo concetto si rifà al personaggio del suo romanzo, Pietro, ispirato ad un ragazzo che lo stesso Autore ha incontrato a Lourdes. Certe volte diamo per scontato che disabilità voglia dire essere irrimediabilmente infelici, ma non è così. Chi è costretto a vivere una condizione di vita non diversa, ma particolare, è davvero capace di gioire di quelle piccole cose piccole cose che noi diamo per assunte: dal semplice atto del camminare, del correre, di fare pipì. Sì, di fare pipì.

“Per Pietro mi sono ispirato a Luigi, incontrato a Lourdes. Un uomo davvero attivo, un surfista, uno sportivo che è stato tradito dalla sclerosi multipla. Dal saper fare tutto, al non riuscire più ad allacciarsi le scarpe o a chiudere i bottoni della camicia. Ma era sia sconfortato che aperto alla vita; era affranto ma con un grado di felicità che rispondeva ad aspettative diverse dalle nostre. Se noi ricerchiamo continuamente l’apice di un’utopica perfezione, per lui non era così. Per vederlo gioire mi è bastato portarlo a fargli sentire di nuovo la sensazione dei piedi sulla sabbia, o aiutarlo a fare pipì in piedi: la cosa più stupida, vero? Luigi voleva la cosa più ordinaria del mondo ed era felice”.

Un gioire di poco che poco non è mai stato. Anche un minimo di felicità c’è, ovunque, in uno straordinario ordinario che è la vita, nonostante tutto il “discouragement” che possa esserci come direbbe Dickens, l’autore dei deboli, degli orfani, di chi vive al confine tra normalità ed esclusione sociale. Riconoscere il fatto che tutti, consciamente o inconsciamente abbiamo il nostro grado di disabilità in diversi aspetti della vita – anche emotivi o psicologici- sarebbe un primo passo per comprendere che il concetto di normalità è tanto astratto quanto fuorviante, che siamo tutti senza alcuna esclusione diversi; tutti a portar con sé, affannati, un grande bagaglio di stranezze, ed è proprio questa la ricchezza che la società non coglie. La ricchezza e la pienezza di vedere l’altro come diverso da sé, ma uguale a sé stesso nella diversità.

“Sarà Alba a dire un giorno se sarò stato un buon papà. Spero di vivere con lei una vita piena d’avventure. Mi auguro che nessuno più si volti dall’altra parte o che si lasci andare a giudizi privi di senso e di consapevolezza. Mi auguro che chi ha una disabilità venga visto come una persona da ascoltare e da accogliere: Alba, dev’essere Alba <<e basta>> per tutti. Posso farle fare tutta la riabilitazione del mondo e stare al suo fianco in ogni percorso ma se la società non la vede come parte integrante di essa sarà tutto inutile. Tutti i bambini, disabili o meno, dovrebbero essere accolti e ascoltati, visti come figli e come benedizioni per la comunità. Dovremmo tornare un po’ alle logiche del villaggio, in cui tutti erano figli di tutti, e tutti erano solidali gli uni con gli altri”.

di Ginevra Lupo

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