Chiara Domeniconi e una caparra a fondo garantito al destino: quando i traumi diventano assicurazione di vita.

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Un incontro speciale e intenso quello con la Scrittrice Chiara Domeniconi, un’anima che è spiccata tra tante alla XXXIV edizione del Salone internazionale del libro di Torino, Autrice dei libri <<Whore>>, <<Come un chiodo nella carne>>, <<Diversamente amabili>> e tanti altri.

Con il portamento nobile di una Didone risolta, l’Autrice ha irradiato con la propria sola presenza la forza scaturita dalle esperienze che hanno segnato la sua vita. Vissuti fatalmente incisivi, scomodi, spaventosi, il più delle volte insopportabili.

“Io giro già da molto con le fiere e iniziai, inesperta, a inviare manoscritti contattando qualsiasi casa editrice e facendo anche i miei sbagli- ci racconta Chiara Domeniconi sul suo esordio- ma adesso sono qui al Salone del libro con la soddisfazione di avere i miei scritti nella classifica dei 100 più venduti sulla piattaforma Amazon con il nome di editori importanti quali L’Argento Dorato, Armando Curcio editore e altri. La mia svolta con Sheyla Bobba di SBS Comunicazione, tutta arrosto e niente fumo, capace di farmi una promozione decisa ed energica”.

Potrebbe essere considerata una spregiudicata provocatrice Chiara, con un passato tagliente segnato dalla perdita, dall’anoressia e dalla dipendenza da droghe, sesso e alcol. Si è fatta avanti nel mondo della scrittura presentando secolari tematiche “tabù”, sacrilegamente condannate nei secoli, giudicate, nascoste, negate nella loro esistenza e rimosse dalla biologica naturalezza umana per costruire, di contro, impalcature di moralismi: artefatti castelli d’aria, sospesi non tra cielo e terra ma tra natura e cultura.

“Tra i libri che sto presentando al Salone c’è, ad esempio <<Whore>>, puttana. Un libro provocazione, volutamente volgare in cui si parla di piacere e di sesso, ma fermarsi all’ordine superficiale delle cose sarebbe assurdo: è tutt’altro quello che voglio dire. Abbiamo tutti le nostre perversioni. Si vedono male il piacere e il sesso. Si vede male il suicidio, eterno tabù. Mio padre si è suicidato, ed è insensato vedere facce sgomente quando lo dico; visi che non si rendono conto che il suicidio è una morte normalissima come morire di tumore o di incidente stradale: è semplicemente il risultato finale di una malattia della psiche”.

Una malattia che degenera, degenera. A passo lento forse, inizialmente, per poi subire un inevitabile rush finale, verso la decisione definitiva. Non era pronta Chiara a ricevere la batosta di un padre che se ne va, di un padre –di fatto mai presente- che forse si era ripromessa di conquistare lavorandoci giorno per giorno, credendo di avere tutto il tempo a disposizione. Reo, contro ogni ragionevole dubbio, di uno dei peccati considerati più turpi e offensivi contro chi, si crede, stia lì a donarci la vita. Macchiato dalle credenze, etichettato di assurda e tumultuosa pazzia. Come Chiara:

“Sono stata anche emarginata perché figlia di un suicida, come una presunta portatrice di problematiche psichiatriche con ereditarietà psicotica. Sì io mi sono ammalata ma per il bullismo, per gli abusi, per la dequalificante disattenzione di chi mi stava intorno. Ero fragile e non riuscivo a reagire in nessuna occasione. Per questo motivo sono iniziati i miei lunghi percorsi tra cliniche, farmaci, flebo, anoressia”.

Nel caso di <<Whore>>, cos’è la prostituzione? L’Autrice ci invita a pensarci bene incanalandoci in una serie di domande retoriche che invitano a profonde riflessioni e ad accettare illuminanti prese di coscienza, perché la prostituzione non è solo quella sessuale. Del resto, noi, non abbiamo “sempre prostituito la nostra felicità e le nostre emozioni per vivere a mezzo di quelle di altri? Non prostituiamo i nostri pensieri per non assumerci in prima persona la responsabilità di questi ultimi? Non ci prostituiamo per la politica, per gli altri, per il lavoro, per il cibo?”

Dal phonos di una parola agghiacciante, alla normalizzazione del significato che porta ad approdare poi alla dipendenza della prostituzione, mettendo da parte noi stessi per cercare qualcosa che non c’è a discapito di tutto il resto, anche della nostra salute.

La mancanza di un modello paterno può segnare la vita di una bambina in modo irreversibile, per questo Chiara ha affrontato numerose prove che hanno avuto tutte lo sfondo più asfissiante di una circolarità che torna sempre a sé stessa e non lascia scampo: la dipendenza.

All’età di sette anni, l’Autrice aveva già iniziato ad avere un assurdo tarlo che nessuno dovrebbe avere, un trigger nei confronti di una delle cose più belle al mondo che ci mantengono in vita: il cibo. Per arrivare, con qualche anno in più sulle spalle, alla dipendenza dal sesso. Un darsi per cercare, un darsi sapendo di non trovare; un darsi per reiterare la perdita, quell’unica sensazione che si conosce a riconferma di una credenza che ci si porta dietro come un biglietto da visita. Mi presento: non merito niente.

“Quando non riusciamo a filtrare le nostre sensazioni a livello emotivo si orienta volutamente la responsabilità a qualcos’altro, distanziando tutta quella sofferenza da noi senza, di fatto, concludere nulla. La sofferenza rimane, è solo il focus che cambia. La mia situazione familiare era insostenibile per me e nessuno mi vedeva”.

Dall’overeating al cutting calorico più estremo perché quando ci si sente <<niente>> cercare di far arretrare il nostro corpo alla trasparenza significa rimuoverci da quello spazio che sentiamo di non meritare, per lasciare libero il posto a qualcosa che sicuramente non avrà mai bisogno di noi: la vita stessa. La ricerca studiata del non essere in una sregolatezza distruttiva che Chiara conosce bene: “non avevo limiti, avrei anche desiderato delle percosse o dei rimproveri pur di avere di avere qualcuno che mi rassicurasse e che mi ricordasse che fossi lì anche io”. Perché ingrassare, dimagrire, non significa giocare col proprio posto nel mondo? Con la nostra massa, col nostro volume e con la nostra densità?

Ma non avere limiti significa non disporne né nell’uno né nell’altro senso con numerose possibilità tutte lì sul tavolo che, nell’akron del vivere o morire, può riconsegnare ad una vittima di sé stessa l’inaspettata volontà di un’inversione di tendenza. Al contrario del padre: se in un’infinita mole di possibilità lui ha deciso di morire, la nostra autrice ha deciso di vivere:” I limiti ho iniziato a costruirmeli da sola”.

Ma c’è anche il sesso a metterci in discussione nel mondo, alla ricerca di una composizione piena, esaustiva, completa. Lì il genio di Chiara si esprime in tutta la sua potenza nel libro <<Io e la mia vagina, 50 anni di noi>>, una vita raccontata attraverso la zona più intima del corpo di una donna: centro di piacere ma anche di drammi, di paure, di segnali contrastanti. Parte della donna che le ricorda quotidianamente il suo essere donna.

“L’idea di parlare della mia vita in rapporto con la mia intimità è venuta dal fatto che semplicemente ho avuto una connessione conflittuale con la mia vagina. Avrei tanto voluto essere un maschio. Io non potevo essere e non mi sono mai sentita la piccola donna di casa perché non avevo lui, mio papà a proteggermi. Ad un certo punto ho imparato a fare la pipì in piedi, rifiutavo di mettere le gonne, mi vergognavo a giocare con le bambole e poi sono arrivati gli abusi…”.

Qui, nuovamente, una negazione di sé stessa attraverso il proprio sesso, senza un attimo di pace. Una presenza orticante che sentiva quasi bruciare, che voleva quasi estirpare quando, in fin dei conti, sentiva che era proprio quella a guidarla facendogli provare ancora e ancora attrazione istintuale e irrefrenabile verso gli uomini, verso l’altro genere: quello ostile di cui però non riusciva a fare a meno. Un non femmineo che nell’anoressia trova compimento con la sparizione delle ciclicità mestruale e col compimento ultimo della propria negazione che rimanda ancora e ancora al rifiuto della propria persona, allo schiaffo a sé stessa e alla volontà di cercare oltre al danno, anche la beffa di una punizione autoimposta:” Avevo risolto il mio desiderio di non configurarmi come essere femminile bloccando una delle cose che ci contraddistingue per mezzo dell’anoressia: il mio ciclo mestruale. La mia vagina è stato il veicolo per non darmi valore, per negarmi, simbolo di un campo di battaglia in cui lottavo contro me stessa e contro ciò che non avevo ricevuto”.

Infine la svolta, lo svincolo dell’autostrada: la scrittura. Liberazione dopo un rettilineo costante di morte, ossessione e distruzione. L’atto dello scrivere terapeutico che aggira la difficoltà del non riuscire a farsi presenza e spazio nel pronunciare apertamente le proprie emozioni; quel raccoglimento sicuro, proprio, a prova di terzi, che permette di <<cosificare>> nella scrittura qualsiasi tipo di sentimento staccandolo da sé per studiarlo a fondo e capirlo. Non più un distacco di responsabilità che trova compimento nelle dipendenze, ma un distacco <<a fin di studio>>per un rimando di responsabilità a sé stessi.

“Delle volte è una fortuna che venga tolta qualcosa, è questo che ho imparato: perdere qualcosa mette sotto i riflettori le tue risorse, riporta l’attenzione all’io: non si è maledetti, è un percorso di perfezionamento” ci spiega l’Autrice: “Mi ha salvato la curiosità, svegliarmi la mattina e fare qualcosa sempre di diverso. La mia curiosità è: vediamo, come va a finire? Avevo fatica ad esprimere emozioni a parole, la scrittura è stata un ponte per poi riuscire a vocalizzarle. Ora parlo ai miei sentimenti come se fossero persone, dico alla rabbia di stare calma e cerco di usarla come detonatore per creare, mai più per spaccare tutto o per dilaniarmi”.

E qui la fine dei giochi, o l’inizio: a voi la scelta. O forse l’esatto punto di incontro tra i due in una risoluzione personale che ha portato finalmente all’epilogo non della sofferenza ma del despotismo di un disprezzo ego-orientato. L’eureka è il saper cogliere che, nonostante tutto, tutti i nostri periodi <<maledetti>> sono come una caparra, un’indulgenza depositata a fiducia della vita e per tutte le cose positive a cui ci sta preparando dandoci modo e tempi, strumenti e doti. Questa, inequivocabilmente compensatoria, nel levarci qualcosa, ce ne restituisce un’altra di resto come nuovo fondo da re-investire.

“Non è mai stata una perdita di tempo ora ho una vita intensa che non avrei avuto se tutti i miei drammi non mi avessero dato le giuste risorse. In <<Diversamente amabili>> parlo, ad esempio, della mia relazione d’amore con un uomo paraplegico e in carrozzina che mi ha fatto capire paradossalmente, cosa voglia dire aver voglia di vivere. Era uno scambio intenso e più che equo: io lo aiutavo nella sua disabilità fisica, e lui aiutava me nella mia disabilità mentale”, ci racconta infine, Chiara Domeniconi.

Per poi aggiungere un’ultima grande, rivoluzionaria riflessione di cui invitiamo a tener conto nella speranza che tutti possano avere la forza di trovare limiti e confini, compromessi ed eque negoziazioni con la vita per non perdere mai quel bagliore di speranza e di forza forse a volte troppo lontano, ma che diventa sempre più grande se riusciamo nell’impegno d’ogni giorno ad aumentare la nostra prossimità verso di esso.

“La linea di demarcazione tra dipendenza e voglia di vivere è una sola, e se ci pensiamo bene ci accompagna fin dal primo momento in cui nasciamo: la fame. Ci attacchiamo sempre al seno di qualcosa perché abbiamo fame. Abbiamo fame d’amore quando non ci sentiamo amati, di guerra quando vogliamo imporci, di ricchezza quando abbiamo bisogno di cose effimere; abbiamo fame di viaggio quando abbiamo voglia di qualcosa di nuovo, abbiamo fame della bellezza e dell’arte, di movimento, di conoscenza e di studio, di sentimenti anche negativi, fame di sonno. L’equilibrio arriva nel momento in cui ti sazi, ascolti te stesso e ti fermi per goderti quello che hai, per poi ricominciare>>.

di Ginevra Lupo

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