Tra finzione e realtà, che Scoop!

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E se all’improvviso ci rendessimo conto di vivere in una grande fake news? Se il mondo fosse come appare perché c’è qualcuno che lo inventa e lo crea come faceva il Demiurgo platonico? Chissà se Evelyn Waugh aveva in mente di instillarci questi dubbi quando, nel 1938, usciva con la sua nuova pubblicazione L’inviato speciale (il titolo inglese originale è Scoop: A Novel About Journalists).

Nella satira giornalistica ambientata in un minuscolo paese del Sud America con il sottofondo storico della guerra italo-etiopica e della appena successiva guerra civile in Spagna, è come trovarsi in un labirinto intrigato di verità: bisogna far attenzione alla strada che si segue perché l’inganno è dietro l’angolo.

In questo gioco di verità d’immaginazione, i fatti e le notizie diventano veri sul serio. In un romanzo che è specchio spietato della nostra contemporaneità nonostante appartenga al passato, Waugh deride la professione giornalistica perché si presenta come una ricerca disinteressata della verità: i giornalisti sono preoccupati di portare al direttore una storia che possa deludere le sue aspettative e sono impegnati in una sfida perenne con l’altro giornalista per battere a tutti i costi la concorrenza. Sono spregiudicati l’uno verso l’altro, un po’ come quando Smith sradicò il telefono dopo aver dato la notizia che il presidente Kennedy era morto, per impedire che Bell riferisse alla sua agenzia lo stesso flash.

Nel racconto, Sir Jocelyn Hitchcock, un famoso giornalista che viaggia per Ismaele, mette in piedi una fake news e fa uscire un pezzo sulla disinformazione scatenando la sfrenata caccia degli altri giornalisti: tutti affermano che partiranno per la città di Laku con calma in mattinata, in realtà sono tutti già prontissimi all’alba. Anche se il giornalismo si trasforma da narratore della realtà a modificatore di essa con fini che potremmo giudicare poco etici, quella di Waugh è una dichiarazione d’amore a quello che per lui è il mestiere più bello del mondo in uno stile leggero e scorrevole d’ironia.

Se dovessi spiegarvi in breve la trama, vi direi che è tutto un errore. Mi spiego meglio. Il protagonista è William Boot, un piccolo e inetto giornalista che redige una rubrica naturalistica e che per un errore di scambio di nomi viene inviato nella Repubblica Africana di Ismaelia come corrispondente di guerra per un quotidiano nazionale, il Daily Beast. Non ha una formazione giornalistica, non ha idea di come fare il lavoro che gli è stato assegnato – non sa nemmeno come si scriva un telegramma! – e quindi, commette un errore dopo l’altro, alla ricerca di uno scoop da riferire. Nel paese immaginario arrivano di continuo celebri giornalisti da tutto il mondo, ma senza che in realtà ci sia qualcosa che freme di essere raccontata…calma piatta. Ecco che parte quella che sembra una gara a chi la spara più grossa: il trofeo va a chi scova lo scoop più scoop che ci sia. Boot è sull’orlo del licenziamento, ma la fortuna è dalla sua parte. Incontra un vecchio compagno di scuola, Jack Bannister, che gli spiega la situazione politica rivelandogli l’imminente colpo di stato in città: scoop! Un misterioso uomo d’affari inglese scrive la notizia finale da inviare al giornale e Boot torna a Londra.

E quindi? – direte voi, è un finale per cui il nostro Boot “visse per sempre felice e contento” godendosi la fama? Da una parte sì, perché riuscirà a tornare nella sua casa in campagna, nell’isolata e fatiscente Boot Magna Hall, ma declinerà tutti gli altri giornali che corteggiano i suoi servizi: alla fama mondiale Boot preferisce di gran lunga i suoi articoli naturalistici!

Debora D’Antonio

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