In giorni di confusione ed accecamento mediatico, vi proponiamo il caso di Bing Liu, ingurgitato e presto digerito dai media, senza (a nostro avviso) un accurato approfondimento.
Bing Liu era un assistente ricercatore all’Università di Pittsburgh, dove conduceva studi sulle dinamiche dei processi biologici. Il ricercatore, secondo quanto affermato dall’Università, era “sul punto di fare scoperte molto significative per comprendere i meccanismi cellulari che sono alla base dell’infezione da SARS-CoV-2”. Stava cercando, in linea con la sua specializzazione, di comprendere come il virus agisse nei confronti del nostro organismo, per tentare di trattarne meglio le complicanze e per facilitare una cura.
Bing Liu è morto il 2 maggio, in un silenzio assordante. È stato ucciso da Hao Gu, 46enne morto suicida dopo avergli sparato. Il caso è stato chiuso quattro giorni dopo. Il movente? Una disputa sentimentale. Secondo la BBC, l’investigazione ha chiarito che non c’è alcuna prova che colleghi la morte di Liu alle sue scoperte. La causa sarebbe stata dunque un Otello un po’ troppo infervorato.
Ma facciamo un passo indietro, perché sappiamo che la Cina non è la patria della trasparenza, e lo dimostra il caso di Li Wenliang, oculista che per primo, a dicembre, aveva lanciato, nelle sue conversazioni su Wechat, l’allarme per alcuni polmoniti sospette, comunicando inoltre che erano state registrate negli ultimi giorni 7 morti da coronavirus. Le chat, ovviamente, cominciarono a girare e divennero virali: il 3 gennaio l’Ufficio di Pubblica sicurezza chiama Li, e formula una lettera di rimprovero: non sarebbe stato quello il canale attraverso cui comunicare ciò.
E qui le vicende diventano opache: fu solo un rimprovero quello formulato dall’Ufficio di Pubblica sicurezza? In quei giorni, infatti, in molti si mobilitarono per ottenere la scarcerazione del medico. Fu dunque arrestato? Ciò risulta fondamentale per comprendere le dinamiche dei giorni a venire. Infatti, il 23 gennaio Li viene portato nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale centrale di Wuhan, dove muore il 7 febbraio.
Capire se Li fosse stato arrestato sarebbe fondamentale, per comprendere eventuali ritardi nella cura del medico, che già da inizio gennaio presentava sintomi. Ma la vicenda si fa ancora più oscura il giorno della sua morte: il 7 di febbraio, infatti, l’OMS fa un tweet di cordoglio per la morte del medico, salvo poi ritrattare e dichiarare di non sapere nulla sulle condizioni del paziente.
Dopo la morte, inoltre, lo stesso Ufficio di Pubblica sicurezza ha dichiarato che “ci furono applicazioni errate della legge e procedure irregolari”, e gli esaminatori del caso hanno invitato la polizia a porre sotto accusa il redattore della lettera di rimprovero.
Ci rendiamo conto che non ci sono certezze sul caso, ma questo è proprio ciò che vogliamo dimostrare: in un momento così delicato possiamo fidarci a scatola chiusa delle conclusioni di una nazione come la Cina, governata da una dittatura comunista che controlla notte e giorno notizie, per farne uno strumento di rafforzamento del potere? Se consideriamo che il caso di Liu, tra l’altro, si verifica negli USA, i cui rapporti con la Repubblica di Xi Jinping sono (per usare un eufemismo) conflittuali, ne scaturisce un fuoco incrociato che non fa altro che amplificare il caos.
Ma soprattutto, e ci riferiamo qui alla stampa italiana, perché glissare su un argomento come l’uccisione di Liu, del quale sbrigativamente alcuni telegiornali hanno dato notizia il 6 maggio, salvo poi far cadere la notizia nel dimenticatoio? Perché dare invece in pasto al pubblico storie trite e ritrite che servono solo ad alimentare polemiche tra depensanti fazioni opposte?
Petrarca, nel Secretum, racconta del suo colloquio con Sant’Agostino, ed inserisce la Verità come spettatrice muta dei loro discorsi. Forse è per questo che da tempo non sentiamo verità, perché evidentemente questa non prende parte al chiasso quotidiano dei media, tenendosene distante. E non possiamo biasimarla.