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La grande bellezza: un’autobiografia contemporanea

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-Chi sei tu?-. È la domanda che, dalla cripta del Tempietto del Bramante, una bambina, di nome Francesca, pone a Jep (Toni Servillo). E tale è, forse, l’interrogativo che muove tutta “La grande bellezza”, film di Paolo Sorrentino del 2013.

Jep Gambardella, infatti, raggiunti i 65 anni, questiona l’esistenza condotta fino a quel momento, rendendosi conto di non aver fatto nulla di rilevante se non un piccolo romanzo giovanile, “L’apparato umano”, prima di gettare la vita tra feste e frivolezze varie.

Il protagonista, ricordando il suo passato, adotta spesso una vena ironica, conscio del suo essere nulla: più volte egli cita Flaubert, e si mette a paragone col francese, affermando: “[Flaubert] voleva scrivere un romanzo sul niente e non ci è riuscito, ci posso riuscire io”.

In questo senso, sebbene il personaggio interpretato da Toni Servillo appaia spesso come un individuo frivolo, quasi anaffettivo, la sua capacità di non prendersi eccessivamente sul serio è la condizione che gli permette di ripensare e ripensarsi, facendo i conti anche con i propri errori.

Erik Erikson, psicologo tedesco, scandisce l’arco temporale dell’esistenza umana mediante 8 coppie di atteggiamenti opposti: l’ultimo conflitto in ordine cronologico è quello tra disperazione ed integrità dell’io, per cui alla fine della vita ognuno fa i conti con le scelte e le decisioni prese nel corso della propria esistenza, e solo nel caso dell’accettazione degli eventi può evitare di incorrere nello sconforto più totale.

È necessario allora considerare quanto la nostra identità risponda ad una logica narrativa, più che “istantanea”: pensiamo a Cartesio, per il quale ognuno può dire “io esisto” solo in quanto si pensa. Non conta cosa si pensi, non conta come lo si faccia, basta che si rifletta e si dubiti. Ma tutta la letteratura novecentesca va nella direzione opposta: la condizione per la quale ci si sente esistenti è raccontare sé stessi, e non pensare in maniera pura a qualunque cosa si voglia, basti considerare “Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello, e tutte le forme di racconto autobiografico dello stesso secolo, come “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese, o addirittura la stessa poesia “I fiumi” di Giuseppe Ungaretti.

Emblematico, nel film di Sorrentino, è lo scontro con Stefania, sua “amica” di salotto: questa, infatti, dopo aver dipinto la sua vita come quella di una donna riuscita e soddisfatta, viene umiliata da Jep, che le ricorda come tutto quello di cui si è vantata sia una mera bugia.

Ma è nel finale che la pellicola assume pienamente i caratteri della narrazione novecentesca: Gambardella, infatti, ritrovata la capacità di commuoversi e soffrire, sembra voler finalmente scrivere la storia della sua vita, che, improvvisamente, non sembra più così priva di senso ed importanza.

Se, da una parte, nel XXI secolo la cinematografia ci ha offerto ben poco di rilevante (il 1999 è stato in questo senso l’anno dei fuochi d’artificio finali: Matrix, American Beauty, Fight Club, American history X sono solo alcuni dei titoli usciti nell’ultimo anno del secolo passato), è vero anche che quel poco che ci viene offerto non siamo in grado, forse, neanche di recepirlo.

L’opera, infatti, non parla mai da sé, e necessita sempre di chi la interpreti, e forse Sorrentino vuole suggerirci anche questo: mai porsi davanti all’opera, come davanti alla vita, al modo in cui si pone Stefania, con atteggiamento acritico, passivo ed altero.

Altrimenti, per assurdo, potremmo anche vivere in un mondo pieno di arte e di bellezza, ma senza la capacità di meravigliarci, ai nostri occhi la realtà sarà sempre piena di barbarie e di oscenità.

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