La cultura che (non) ti aspetti

Dove finiscono le favole

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Il titolo della canzone di Coez ci è utile per continuare la nostra rubrica cinematografica con due capolavori degli anni ’90: L’odio di Mathieu Kassovitz e American history X di Tony Kaye. Due film crudi, accomunati dalla volontà di rappresentare, senza giudizi, le realtà delle banlieue parigine e del melting pot statunitense.

Il primo è basato sulla storia di tre amici: Hubert, Said e Vinz, e vede protagonista proprio quest’ultimo (interpretato da un magistrale Vincent Cassel), un ragazzo violento che nutre un odio profondo verso la polizia, amplificato dal recente pestaggio da parte degli agenti nei confronti di un ragazzo di periferia, Abdel. American history X è invece il racconto della vita di Derek (anche qui da sottolineare la prova di Edward Norton), un ex neonazista che cambia vita in carcere e diviene esempio per il fratello minore, dopo essere stato sbattuto dentro per l’uccisione di due ragazzi neri, che gli stavano rubando l’auto.

Per spiegare il filo rosso che lega due capolavori come questi dovremmo partire dai rispettivi finali, cosa che però non possiamo fare per non rovinarvi la visione; vogliamo allora riferirci ad una scena del film diretto da Kaye, nella quale si svolge una partita di basket tra una squadra di bianchi (tra cui Derek) e una di ragazzi neri: il dettaglio è carico di significato, poiché vediamo in palio il “dominio” sul campo di pallacanestro (chi perde dovrà infatti andarsene per sempre), e sentiamo insulti razzisti provenire da una parte e dall’altra.

Non ci sono buoni, non ci sono cattivi: c’è solo odio. Come odio c’è ovviamente nel film omonimo di Kassovitz, nel quale un solo personaggio sembra salvarsi da questo sentimento: Hubert. È lui infatti che in un bagno dice a Vinz di smetterla, di abbandonare il suo proposito di uccidere i poliziotti, perché “l’odio chiama l’odio”. Ma lo stesso Hubert, in realtà, entrerà con forza nella catena dell’odio, senza riuscire nel suo proposito di redimersi.

È a questo punto, dopo la frase di Hubert nel bagno, che esce un vecchio, ed inizia a raccontare una storia accaduta ad un amico, tale Grumvalski, durante l’esilio in Siberia: Grumvalski, allontanatosi per bisogni fisiologici dal treno che andava al campo di lavoro, non riesce a risalire sul treno, perché la locomotiva riparte mentre lui ha ancora i pantaloni abbassati, e, occupato a rialzarseli, non riesce a prendere la mano dell’amico che si trovava sul vagone. Alla fine della storia, che ovviamente ha come esito la morte di Grumvalski, Said chiede “che ce l’ha raccontata a fare?”.

La domanda di Said, possiamo dirlo con certezza quasi apodittica, ha un valore metacinematografico: è la questione che pone l’osservatore del film al regista de L’odio, ma è la stessa che possiamo fare anche a chi ha diretto American history X. Tale domanda però presuppone una convinzione: una storia deve avere un senso, una morale.

Ecco: la morale. Oggi, purtroppo, sono in molti a guardare questi capolavori con il filtro di Said, andando a cercare una morale, come la si ricerca nelle favole dei bambini. È la morale manichea: da una parte i buoni, Cappuccetto Rosso; dall’altra, i cattivi, il lupo. È il modo in cui in troppi, a nostro avviso, non solo approcciano la filmografia, ma anche l’attualità e la politica, non capendo che gli eventi accadono, capitano, e non rispondono alle categorie rigide e dualistiche che invece imponiamo noi dall’esterno.

Vorremmo scrivere due righe finali, ma avrebbero il sapore di una morale. Allora, lasciamo aperto il finale all’intepretazione di voi che ci leggete: chi ha orecchi per intendere, intenda.

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