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MUTA-MORFOSI di e con Sara Lisanti al Teatro T

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Alle spalle di Porta Portese, in una piccola traversa a due passi dal Tevere, si trova il piccolo Teatro T. Open space, ma anche teatro e laboratorio artistico, recentemente questo spazio ha presentato al pubblico romano la singolarissima e suggestiva body performance di Sara Lisanti: MUTA-MORFOSI.
Pochi elementi scenografici: un bozzolo, due terrari in legno, una bambola rivestita di pelle di rettile, scaturiti dalla creatività dell’artista stessa, ad accompagnare la performance incentrata sul tema della metamorfosi individuale.
Ad introdurre l’azione performativa vera e propria, in apertura, le letture poetiche di Giangiacomo della Porta, il quale, attraverso il trittico di componimenti intitolato La nave dei folli (parte 1, 2 e 3), introduce lo spettatore ai temi del cambiamento e della mutazione, utilizzando la metafora di una nave in viaggio verso l’ignoto, in fuga dal presente, e alla ricerca di un futuro diverso.

MUTA-MORFOSI, body performance di 55 minuti circa, racconta dunque il tema della metamorfosi individuale, assimilandolo al processo di muta del mondo rettile e rappresentandolo in scena attraverso le sue varie fasi.
Lo spettacolo, può essere descrittivamente suddiviso in tre momenti: HI, AHI, I. Di saluto, di dolore, di conquista. Parole graficamente inserite all’interno della performance per fornire una sorta di mappa interpretativa agli spettatori.


Nella prima fase (fase HI) l’ artista è racchiusa all’interno di un bozzolo di tessuto, che ricorda quello di una crisalide. Man mano che il processo di mutazione e crescita inizia a compiersi, il bozzolo si schiude e la performer, in quella che è la seconda fase (fase HI), riallacciandosi metaforicamente al mondo rettile, si rinchiude nel terrario della propria sofferenza.
All’interno del terrario, come i rettili, la protagonista cresce, muta, si spoglia di strati di pelle, abitandone ogni volta di nuovi, per poi abbandonarli ed assumerne altri ripartendo infine da un ideale punto zero: punti di partenza e di arrivo continui, accompagnati ogni volta da sofferenza e travaglio.
Dopo questa seconda fase della mutazione, in uno stadio ormai a metà tra rettile e umano, la Lisanti esce dal terrario, strisciando per raggiungere uno specchio dal quale si alzerà infine in piedi, come assumendo una nuova forma, per poi farsi dipingere interamente da una truccatrice, in un bodypainting totale che si conclude con una colata color oro sulla fronte. Rituale dai toni battesimali, che ancora una volta riporta al tema di una nuova vita, di una rinascita in forma “altra”, questa volta gioiosamente colorata e brillante.
Nella fase conclusiva infine (fase I), l’artista si avvicina al proprio alter ego scenico, una bambola adulta, ricoperta di una vera e propria muta di un rettile. Anche la bambola esce dal suo proprio terrario, come fosse la proiezione dell’artista, e la voce off dell’autrice, accompagna gli spettatori con un monologo conclusivo, spiegando la cura di cui necessita ogni fase di muta, ogni nuova pelle, ogni transeunte dimora delle varie mutazioni individuali.


La performance di Sara Lisanti coinvolge lo spettatore in un viaggio altamente simbolico ed emozionante. I movimenti fluidi dell’artista danno vita alle varie fasi della rappresentazione in maniera estremamente convincente, trasmettendo emozioni, travaglio, ma anche gioia nella rinascita e amore soffuso. Uno spettacolo veramente particolare, che ben si sposa con le parole introduttive del poeta Giangiacomo Della Porta, e si conclude, nel suo essere una rappresentazione di MUTA-MORFOSI, con un unico, ben preciso manifesto vocale dell’artista stessa. La Lisanti comunica con naturalezza estrema attraverso il movimento, l’espressività, la creazione artistica, e forse per questo, in chiusura, sceglie di affidare la sua voce ad un registratore, invece di recitare in scena, trasformando anche la sua voce in simbolo ed in un certo senso in un artificio scenico.
Performance bellissima, coraggiosa e densa di significati. Assolutamente da non perdere.

A tu per tu con Alessandro Bergonzoni

in CULTURA/INTERVISTA/PHOTOGALLERY/TEATRO by

Alessandro Bergonzoni, di recente a Roma all’Auditorium con suo spettacolo di successo “Trascendi e sali”, e la performance artistica “Tutela dei beni: corpi del (c)reato ad arte – Il valore di un’opera, in persona”, ci parla di sè stesso e del suo lavoro artistico in questa intervista per European Affairs.

CL: Sono ormai alcuni anni che porti in giro il tuo spettacolo “Trascendi e Sali” in giro per l’Italia, ed è uno spettacolo che cambia in continuazione. Puoi dirci come è nato?

 AB: Duecento repliche in quattro anni, Covid compreso, per la precisione.  Tendenzialmente io non ho mai un tema o un argomento. Molti dicono: “Mi dedico a questo… Il tema sono le donne, la politica, la denuncia…”, io ho cercato sempre di lavorare, anche dagli inizi, su una massa, su una quantità, su una mole di lavoro in cui io compongo lo spettacolo precedente al nuovo quindi questo spettacolo, Trascendi e Sali è nato proprio dall’idea del comporre vari pensieri, varie idee che io avevo già elaborato. Poi, al momento di fare le prove, le idee le ho portate in teatro ed abbiamo cominciato a sviscerare e lavorarci su con il regista Riccardo Rodolfi per arrivare ad una stesura. Un testo di partenza che nasce stando magari un mese in un luogo per prepararlo non c’è, non esiste mai, si tratta sempre di incastri che vanno a montare e si sviluppano come una valanga nata da una piccola pallata di neve. Questo spettacolo era nato da un’idea di partenza che comunque c’era, e che era quella di trascendere. Trascendere, nel senso di non accettare più di trasecolare o trasalire davanti alle notizie del mondo, o davanti alla vita, ma di trascendere, di fare un salto in altro, di fare un salto quantico, per poter cambiare dimensione. Stanco, molto, stanco vivo non stanco morto, di una condizione di accettazione di media e di accettazione di stampa, di accettazione di social, avevo la necessità di invadere anche un altro continente interiore dell’agente, dello spettatore. L’ossessione, perché proprio di questo tratta, è proprio quella del lancio continuo, del non lasciare stare mai chi ascolta, non lasciare stare mai le orecchie, non lasciare stare mai la pelle, non lasciare stare mai lo sguardo, gli occhi, proprio perché deve essere una maratona, molti dicono sulla parola, ma non mi piace, è una maratona sul pensiero, una maratona sull’immaginato, una maratona sulle visioni.

CL: Allora proprio su questo tema, possiamo dire che lo spettacolo si sia adattato ai tempi e alle situazioni oppure i suoi mutamenti sono una sorta di crescita naturale?

Brava è importantissimo fare questa distinzione e la voglio fare. Stranamente, ad esempio, io parlai di vaccini di medicina e di cura, quando, in tempi non sospetti cominciai a fare lo spettacolo. Quattro, cinque anni fa il Covid non c’era, e io, quando ho cominciato a studiare il testo, a pensarlo, avevo comunque dentro una frase del genere: “Hanno scoperto il vaccino che fa per me quello che devo fare io”, inteso però nel senso che anch’io devo fare la mia parte, quindi la scienza non può prevaricare il mio mestiere, il mio lavoro, il lavoro di fare gli altri lavori, gli altri mestieri, di essere non soltanto io ma di entrare nelle altre biografie, e questo ha cominciato ad essere visto subito con gli occhiali del Covid, con gli occhiali della pandemia. Io parlavo già di differenze nei diritti, di mancanza di diritti, e la gente ci ha visto immediatamente e dichiaratamente il tema delle prigioni, il tema soprattutto dei migranti, che era già nato in nuce, proprio perché c’erano già le mie prime partecipazioni ad incontri, a manifestazioni, a cortei anche di denuncia su questo.  Io avevo già questi argomenti che per me erano forti e dominanti, ma non sono il tema degli spettacoli perché nessuno può uscire da un mio spettacolo dicendo: “ah è uno spettacolo sull’uguaglianza, è uno spettacolo sulla difesa delle donne”, perché non è così. E poi c’è il tema comicità, quando si trascende per me la comicità è fondamentale per salire, per andare in alto, per innalzarsi.

CL: Che ruolo riveste la comicità quindi all’interno dei tuoi lavori?

AB: Io quando parlo di risata non parlo di umorismo, di spirito – al massimo di spiritualità – o di teatro brillante, perchè quello non mi è mai interessato. A me interessa la risata grossa, non crassa ma grossa, è una risata anche molto contagiosa, ossessiva, continua, quasi da togliere il respiro, che lo spettatore non possa dirsi: “adesso mi rilasso un attimo” ecco, perché altrimenti quello sarebbe intrattenimento, a me in teatro l’intrattenimento non è mai interessato. Se fai arte, se scrivi, se fai lo scrittore, si arriva tutti ad un punto in cui la realtà accetta e deve sopportare e supportare altre dimensioni, perché altrimenti fai informazione, fai giornalismo, ripeto, fai intrattenimento, che è tutto un lavoro che a me interessa molto meno. A me più che la comunicazione interessa la conoscenza oppure l’andare al di là perché altrimenti, farei un altro mestiere, farei l’enigmista se volessi giocare con le parole e basta, farei quello che lavora sulla semantica. Certamente, io sono composto da queste molecole, ma sono molecole che fanno muovere un corpo, non sono le molecole in quanto tali che mi interessano. E quindi: frequenza, luce, onda, vibrazione… sono temi quasi musicali – come mi ha detto qualcuno dopo aver visto lo spettacolo e io l’ho apprezzato molto – un jazz continuo, e una sinfonia proprio orchestrale che raggiunge se uno si lascia andare la seconda o la terza volta che lo vede. È capitato a persone che l’hanno visto anche tre volte di poter dire: “Io alla fine sono entrato dentro un movimento acustico, a un movimento di sonata, senza dover per forza ridere sempre o capire tutto quello che dicevi, e mi sono lasciato trasportare in questa specie di opera”.

CL: Sei sempre stato un artista ed un autore molto libero e indipendente, che sperimenta varie modalità e varie forme espressive e che non scende a compromessi. Quanto è importante per te tutto questo?

AB: Questo mio saltellare mi ha sempre dato proprio un’idea di autonomia e di libertà che mi aiuta: il non lavorare con gli abbonati in teatro, il non prendere sovvenzioni dallo Stato, queste sono sempre scelte di libertà che noi abbiamo fatto per poter dire: “Guadagniamo molto meno, facciamo forse meno date, però non ci troviamo un pubblico che viene a vedere chissà chi perché ha preso l’abbonamento dalla A alla Zeta e non sa neanche chi sono”. Mi piace che la gente scelga, che la gente in teatro venga per un determinato spettacolo. Adesso il teatro mi sta un po’ stretto, non te lo nego, nel senso che l’arte spinge, il sociale spinge ed è una forma che io cerco di rendere con un connubio abbastanza ravvicinata e abbastanza contemporanea. È un po’ il cruccio di Riccardo, che seguendo il tutto, vede che la mole di lavoro oltre quella teatrale è aumentata in maniera smisurata, fino quasi al non controllo.

CL: In che modo hanno un’influenza i social adesso ad esempio?

Sono tantissime le cose che circolano ora, e pur non avendo Instagram o Facebook, io appaio però molto su YouTube. Le persone filmano, condividono filmati, video delle lezioni, degli incontri, e allora si è mosso e si sta muovendo uno stranissimo pubblico di tredicenni e quindicenni che vedono dei miei pezzi su YouTube ma non hanno mai visto uno spettacolo in teatro, non sanno neanche che io faccio teatro, vedono queste cose e le acquisiscono con i video, con i social, mentre io invece no non le vivo e non le abito, e quello è un pubblico di ritorno stranissimo. Non essendo sui social, non ho i follower o quelle robe lì, ma la gente si rimanda queste cose, le moltiplica, le quintuplica, le decuplica, e poi trovo della roba con quattrocento, cinquecentomila contatti, di persone che hanno preso frasi, pezzi di spettacolo, incontri nelle piazze, e si forma un pubblico che non è il mio pubblico teatrale, ma un pubblico assolutamente bilaterale. Si tratta un pubblico completamente nuovo, che vede nel mio linguaggio un linguaggio che non riconosce, perché oggi un dodicenne, un quindicenne che viene a teatro a vedermi – perché alcuni osano, e con i licei abbiamo tante volte delle professoresse che portano le classi a teatro –  entra in un mondo in cui quando le prof gli dicono: “Questo è un attore, uno scrittore nato nel cinquantotto” loro rispondono: “Ma questa è roba futuribile, cioè non mi sembra… mi sembra più proiettata in avanti che in indietro perché non è il teatro classico”. Loro vedono questo slancio in avanti perché gli manca una fetta di vocaboli, pensieri e correlazioni, che nella comicità televisiva non trovano.  

CL: Ti è mai capitato di lavorare anche nel cinema?

Finora ho fatto pochissime incursioni cinematografiche: due, una in un cameo nel Pinocchio di Benigni, uno dei suoi film meno fortunati, e poi un’altra nel Don Chisciotte di Mimmo Paladino, insieme a Servillo e Dalla, esperienza stupenda,veramente di grande piacevolezza con cui siamo andati al festival Nuovi Orizzonti a Venezia, ma le cose che mi sono state chieste per il cinema erano sempre parti un po’ o di caratterista o caricaturali, di un logorroico, di un personaggio che avesse queste caratteristiche mie così da sfruttare il mio taglio.

Non è assolutamente facile in questo momento poter parlare di cinema col mio linguaggio, perché il cinema ha bisogno di tempi diversi, ha bisogno anche di una riconoscibilità dell’attore. Mi dicevano: “Se tu fai della televisione, delle serie o della fiction, noi possiamo permetterci di investire sulla tua figura, ma così tu sei conosciuto da una fetta di persone che non è interessata”. Poi sai io non faccio neanche le pubblicità intese nel senso del volto che vedi per la tal telefonia, il volto per il tal prodotto, e spesso il cinema, soprattutto quello italiano, invece ti chiede proprio una riconoscibilità. Poche sono state le proposte cinematografiche di partecipazione puramente attoriale che ho ricevuto e non ho accettato, per via di copioni che non mi soddisfacevano. Non avevo voglia di fare l’attore puro, l’interprete di un personaggio, che è anche un mio limite, grosso limite, perché l’attore, come mi hanno  spiegato alla scuola che non mi diplomò, l’attore deve fare tutto, sennò fai il Gaber fai il Fo, che hanno fatto per tutta la vita sé stessi. Infatti io non mi sento un attore, e anche per questo motivo quando parlo di teatro ci sto stretto, perché il mio ambito d’opera come artista è diciamo quadridimensionale, e se io dovessi fare teatro e basta forse smetterei di fare questo lavoro.

CL: Quindi come artista quale potrebbe essere la tua modalità di espressione ideale in questo momento?

La mia modalità ideale è: attraverso l’arte, poter portare l’arte in teatro, e far sì che una performance, un’installazione, un modo di essere sul palco, sia anche un modo di essere artistico, che non ci sia solo la lingua, ma ci sia anche la figura, il segno, il tratto, la demarcazione proprio di un qualche cosa che ricordi anche un’opera, e che sia, non ti dico musicale, ma mi piacerebbe fare un qualche cosa che stesse stretto stretto nel teatro e largo largo nell’arte. Attenzione, mi piacerebbe andare in questa direzione, perché anche le mostre che ho fatto, non tantissime ma ne ho fatte, mi hanno sempre un po’ limitato. Appoggi il quadro, appoggi l’opera, la gente viene, la guarda, la osserva e se ne va. Mi prendi in un momento di grande trapasso un momento di progress proprio, in cui ho bisogno di trovare uno status che ancora non mi delimiti per l’ennesima volta nella maniera più assoluta. Certo la scrittura, anche la scrittura vista, non solo la scrittura del libro, di un giornale, o del teatro ma la scrittura vista, la scrittura appesa, la scrittura segnata, la scrittura per strada, il site specific, l’opera urbana, mi stanno dando un grosso impulso. Vediamo, aspettiamo.

CL: Allora grazie infinite per questa bellissima chiacchierata e in bocca al lupo per il tuo lavoro artistico presente e futuro!

 

Chiara Lucarelli
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