A spasso per la Tuscia: il borgo di Blera

in BORGHI/TURISMO by

Siamo in Tuscia, nel territorio che anticamente era la casa degli Etruschi. Qui, su uno sperone di roccia tufacea, stretta tra il Torrente Biedano e il Rio Canale, sorge il borgo di Blera.

Il comune in provincia di Viterbo, perlomeno nella parte del centro storico, oggi si presenta come un caratteristico borgo medievale. Articolato intorno all’asse costituito dalla via principale (oggi via Roma), il centro storico è popolato di case costruite in pietra tufacea, tipica della zona, e conserva ancora almeno una delle due porte che un tempo consentivano l’accesso alla città, ovvero Porta Marina (di Porta Romana non è rimasto quasi nulla).

Medievale era anche il nome con il quale la città era conosciuta fino al 1952, quando riassunse l’originale “Blera”, che compariva già nelle epigrafi latine e nei documenti anteriori al X secolo. Dopo, il tempo lo avrebbe trasformato in “Bleda”, e poi ancora in “Bieda”.

Nonostante tutto questo, però, della “Bieda” medievale abbiamo pochissime notizie. Sicuramente il Medioevo non fu il suo periodo più florido. Per quello, dobbiamo tornare all’epoca degli Etruschi prima, e dei Romani (dai quali fu conquistata), poi, quando, in realtà, l’insediamento non si trovava dove sorgeva in epoca medievale (e ancora oggi), ma più in là, nella zona di Petrolo, che attualmente è una terrazza da cui si può godere di una meravigliosa vista panoramica sulla vallata sottostante.

Blera, ai tempi degli Etruschi, rientrava nell’area di influenza di Tarquinia e Cerveteri, ed era un’importante centro, in quanto al crocevia delle strade che collegavano queste grandi città con quelle più interne, quali Norchia, Tuscania e Veio. Tracce importanti del passaggio degli Etruschi sono ancora ben visibili nelle numerose necropoli disseminate nell’area, fra le quali spiccano quella di Pian del Vescovo (che non ospita tombe monumentali, ma solamente a dado e a camera con dromos), quella della Casetta e quella del Terrone. Nell’area di San Giovenale, invece, sono presenti i resti di un antico abitato etrusco – uno dei pochi di cui siano rimaste tracce ancora visibili in tutta l’Etruria meridionale – circondato a sua volta da una serie di piccole necropoli. La scoperta di questo sito si deve agli scavi organizzati intorno alla metà del secolo scorso dall’Istituto Svedese di Studi Classici, fondato nel 1925, tra gli altri, dal re di Svezia Gustavo VI Adolfo, che, in veste di archeologo, partecipò in prima persona alla campagna. Il nome “San Giovenale”, chiaramente, non è di origine etrusca, ma è stato esteso all’intera area a partire dalla chiesetta alto-medievale che qui sorgeva (di cui sono rimasti solo alcuni resti) intitolata per l’appunto al santo di Narni, vescovo e martire. Sui resti dell’abitato di San Giovenale, nel Medioevo, fu costruito anche un castello, risalente al XIII secolo, appartenente alla famiglia dei prefetti Di Vico, che ebbe in feudo la città fino al XV secolo. Anche di questo edificio rimangono solo dei resti. L’intera zona infatti si spopolò quasi completamente nel 1476, in seguito ad un’epidemia di peste, e da allora fu totalmente abbandonata.

Tornando agli Etruschi, come accadde a tutti i loro centri, anche Blera cadde nelle mani dei Romani. Ma la sua importanza non si spense. Non solo in età repubblicana divenne municipio, ma il suo territorio venne anche attraversato dalla via Clodia. Questa strada romana, sorta sui più antichi tracciati etruschi, ebbe prevalentemente un ruolo commerciale. Coincidente con la via Cassia dal punto di partenza di Ponte Milvio fino più o meno all’attuale La Storta, la Clodia si diramava poi verso l’interno, fino a raggiungere Tuscania (probabilmente il suo percorso continuava fino alla zona di “Cosa” – oggi Ansedonia – per ricongiungersi qui con l’Aurelia, ma non ci sono notizie certe a riguardo). Nei pressi di Blera, la strada doveva attraversare il Torrente Biedano e il Rio Canale, pertanto vennero costruiti due ponti, il Ponte del Diavolo e quello della Rocca, ancora oggi visibili.

Eppure, già a partire dall’epoca romana, le notizie sul centro (tra cui le tracce archeologiche di cui disponiamo) cominciano a farsi sempre più rade.

Alcuni studiosi ipotizzano che tutta la zona dell’Etruria meridionale interna sia stata oggetto dell’invasione dei Visigoti nel V secolo, e luogo di combattimento nell’ambito della guerra greco-gotica, nel VI, ma non ci sono certezze né documentarie né archeologiche a riguardo.

Quello che sappiamo con certezza è che Blera fu la prima (o una delle prime) diocesi della Tuscia Romana, con 16 vescovi, dalla fine del V secolo fino al 1093, quando confluì nella diocesi di Toscanella (ovvero l’odierna Tuscania). Secondo la tradizione, il primo vescovo di Blera fu San Vivenzio, oggi patrono della città, le cui spoglie sono conservate nella Chiesa di Santa Maria Assunta e San Vivenzio.

Più o meno nello stesso periodo dovette esser vissuto un altro santo la cui venerazione è stata piuttosto importante nella storia del paese: San Senzia (o Senzio). La sua storia è avvolta nel mistero. Di lui ci parla nel dettaglio una fonte anonima che lo storico Francesco Lanzoni riconduce a metà VII- inizio VIII secolo, la “Vita S. Sentii”. Ma sebbene la descrizione sia molto dettagliata, gran parte delle notizie riportate sono probabilmente frutto della tradizione e delle leggende che circolavano ancora in quel periodo su un personaggio vissuto circa 200 anni prima. Si dice infatti che il santo fosse stato fatto schiavo, insieme a dei compagni – tra cui anche il futuro San Mamiliano – dal re dei Vandali Genserico. Grazie all’intervento di Dio, il gruppo sarebbe riuscito a scappare. Dopo aver evangelizzato varie isole, fra cui Montecristo (che, sempre secondo la tradizione, proprio per via di un prodigio operato da San Mamiliano avrebbe mutato in questo senso il suo nome, originariamente Monte Giove), il viaggio del gruppo si sarebbe interrotto all’Isola del Giglio, dove tutti morirono eccetto Senzia. Questi si sarebbe imbarcato per Centumcellae (Civitavecchia), e, da qui, il monaco, guidato da Dio, sarebbe giunto a Blera, dove la popolazione era ancora pagana. Pertanto, dopo aver preso dimora nei pressi di una fonte (ancora oggi chiamata “Fonte di San Senzia”) sarebbe rimasto a lungo isolato dalla popolazione ostile. Le cose cambiarono quando un drago avrebbe preso a minacciare la città: gli abitanti di Blera chiesero aiuto al monaco, che, miracolosamente, ammansì il drago e lo indusse a gettarsi nel fiume Mignone. Alla vista di ciò, i Blerani si sarebbero convertiti, e, una volta morto, avrebbero conservato le reliquie del santo all’interno di una chiesa costruita appositamente per lui e a lui intitolata, e che, almeno fino all’800 ne portò il nome. Infatti, come tale è citata nel Liber Ponticalis, che riporta che, appunto quell’anno, il papa Leone IV avrebbe elargito dei doni alla chiesa di San Singizio (altra variante in cui è attestato il nome del santo), tra cui una veste “trapunta e ricamata d’oro”, con le effigi di Cristo e dello stesso San Senzia. Oggi, gli studiosi tendono ad identificare questa antica basilica con la chiesa, ormai sconsacrata, di San Nicola di Bari.

La storia narrata nella fonte anonima è, quasi certamente, nient’altro che una leggenda, nata nel periodo in cui il cristianesimo stava prendendo piede nella zona, e le varie comunità, per legittimare la loro conversione, inventavano delle storie dai tratti soprannaturali su vari santi, in una sorta di “gara” per acquistare al patronato della propria città il “migliore” in circolazione.

Che però San Senzia sia una figura storicamente esistita, di questo gli studiosi sono abbastanza sicuri. Infatti, anche nel Martirologio Geronimiano (redatto in Italia settentrionale nel secondo quarto del V secolo da un anonimo, nonostante inizialmente fosse attribuito erroneamente a San Girolamo, da cui il nome), è riportato un “San Senzia”, vissuto a Blera e la cui morte, come indicato anche nella “Vita S.Sentii”, sarebbe avvenuta il 25 Maggio.

Su tutto il resto c’è disaccordo. Se Francesco Lanzoni, all’inizio del secolo scorso, concordava con il Menologio sul fatto che Senzia fosse un martire (ma non un prigioniero dei Vandali di Genserico), il professor Carmelo Curti, alla fine degli anni ’70, dissentiva su questo punto. Se davvero fosse stato un martire, perché non farne menzione nell’anonima, dettagliatissima, vita di VII-VIII secolo? Piuttosto fu un semplice monaco che ebbe un qualche ruolo nell’evangelizzazione della Tuscia. Nel 1990, gli studi di Vittorio Burattini lo vedrebbero invece di nuovo come martire, ma vissuto prima dell’editto di Milano (con cui, nel 313, l’imperatore Costantino rese il cristianesimo “religio licita”), e poi sepolto a Blera.

Parte delle reliquie di San Senzia oggi si trovano nella chiesa del San Salvatore di Spoleto. Secondo una tradizione, sarebbero state trafugate da Blera e lì portate dai Longobardi, in occasione di uno dei due attacchi che portarono alla città nel 739 e nel 772.

Ma facciamo un passo indietro. Perché mai i Longobardi avrebbero attaccato Blera? È presto detto. Nel 595, un accordo fra il re longobardo Agilulfo e papa Gregorio I stabiliva una linea di confine fra la “Tuscia Langobardorum”, sotto il controllo dei Longobardi, per l’appunto, e il Ducato Romano, sotto il controllo bizantino. Blera, insieme ad altre città come Bomarzo e Sutri, apparteneva al Ducato Romano. Ma il confine, in realtà, non fu mai così ben definito, e non era infrequente che, in seguito a scontri e occupazioni, le città passassero da un territorio all’altro. Nel 739, il re longobardo Liutprando occupò Blera e la pose sotto il suo controllo. La restituzione avvenne solamente nel 742, grazie all’intervento di papa Zaccaria (i papi, ormai, a quest’altezza cronologica, di fatto, esercitavano anche un potere politico sui territori ufficialmente dei Bizantini – con cui peraltro si stava consumando uno scontro relativamente alla questione dell’iconoclastia). Quest’ultimo infatti, promise a Liutprando aiuto contro il ribelle duca di Spoleto, Trasmondo, mettendo a disposizione le truppe dell’esercito romano. Il duca fu effettivamente deposto, ma il re longobardo sembrava tardare a rispettare la sua parte dell’accordo. Pertanto, il pontefice si diresse da lui personalmente: l’incontro avvenne, sembrerebbe a Terni, nel 742: Liutprando restituì ufficialmente ai Bizantini (ma di fatto al papa) i 4 castelli promessi nell’accordo, e direttamente a “San Pietro” (e dunque alla Chiesa) un’altra serie di territori che recentemente i Longobardi avevano sottratto ai domini bizantini.

La pace fra le due potenze non durò molto. Dopo circa 20 anni i Longobardi, con il re Astolfo, ripresero la loro “politica di potenza”, arrivando anche a minacciare Roma, che risparmiarono solo in cambio del pagamento di un tributo. Il papa non poteva accettare questo atto di sottomissione. La minaccia longobarda andava eliminata. La Chiesa iniziò a tessere dei rapporti di alleanza con i Franchi: Pipino il Breve, in cambio della legittimazione del suo potere quale nuovo re dei Franchi da parte di papa Stefano II, prometteva di sconfiggere in armi i Longobardi, recuperare i territori bizantini che avevano sottratto e donarli direttamente alla Chiesa. L’impegno fu mantenuto.

Nel 772, l’ultimo re longobardo, Desiderio, tentò un’ultima offensiva, arrivando a distruggere Blera e a decimarne la popolazione: si è stimato che le dimensioni dell’abitato si dimezzarono, arrivando più o meno a quelle odierne.

Fu tutto invano: nel 774, Carlo Magno, che aveva messo fine al regno longobardo (che però, nonostante l’annessione al regno franco, continuò comunque a mantenere una certa autonomia), confermò al pontefice il possesso dei territori che gli aveva già assicurato suo padre, e lo stesso fece successivamente suo figlio Ludovico il Pio, nell’817. Blera rientrava nei territori del Patrimonium Sancti Petri, lo confermava ancora, in un suo documento, nel 1020, Enrico I di Francia.  Eppure, l’attacco di Desiderio aveva dato il via ad un periodo di decadenza della città, che, nel 1093, arrivò a perdere anche il titolo di diocesi.

Ricadde all’interno della diocesi di Tuscania fino al 1192, quando entrambe le città entrarono a far parte della diocesi di Viterbo.

Dal XIII al XV secolo, Blera fu possesso feudale dei prefetti Di Vico. In questo periodo, nel 1247, precisamente, la città fu nuovamente distrutta, questa volta ad opera di un esercito comandato dal ghibellino Alessandro Calvelli, inviato dall’imperatore Federico II, che, nell’ambito dello scontro fra Guelfi e Ghibellini, era entrato in contrasto con i Di Vico.

Nel 1262, per un brevissimo periodo, sembra che la città sia ritornata sotto il controllo diretto della Chiesa, in seguito alla morte senza figli del signore Pietro III. Dopo averli rivendicati alla Chiesa, prese possesso dei territori Pietro IV, che, secondo alcuni studiosi, sarebbe stato nipote di Pietro III (ovvero figlio di suo fratello, Bonifacio).

Nel 1400, papa Bonifacio IX affidò il feudo ai conti gemelli Francesco e Nicola Anguillara. Nel 1465, i loro successori, ebbero dei dissidi con papa Paolo II, per questo furono deposti. Fino al 1516 la città tornò in mano alla Chiesa, che, nella persona di papa Leone X, la restituì a un membro della famiglia Anguillara, Lorenzo di Ceri, nel 1516. Alla sua morte, ne prese possesso suo figlio, Lelio, che nel 1550 fece redigere in volgare una versione dello Statuto Cittadino promulgato in latino nel 1515, e nel 1564 promosse un trattato di pace con la città di Barbarano, con la quale si erano consumati vari scontri relativi ai confini. Avendo intrapreso la carriera ecclesiastica, Lelio morì, nel 1572, senza figli. Alla figlia di suo fratello non fu riconosciuto alcun diritto di successione, pertanto la Camera Apostolica rivendicò il territorio, che governò direttamente fino al 1870.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

*