Nella provincia di Rieti, sulla sommità del Colle Buzio, sorge l’antico borgo medievale di Fara in Sabina, oggi comune a sé stante, che, nel suo territorio, comprende un altro sito di fondamentale importanza: l’Abbazia di Farfa, con il relativo borgo. La storia di entrambi questi luoghi affonda le sue radici nell’Alto Medioevo, ma non vale lo stesso per i loro destini, che corrono paralleli almeno fino all’XI secolo, quando, finalmente, si incrociano, con l’ingresso dell’antica Fara nel novero dei possedimenti abbaziali.
Ma procediamo con ordine.
Fara, con tutta probabilità, nasce alla fine del VI secolo, quale centro di fondazione longobarda. Tra il 568 e il 570 (o, più precisamente, almeno secondo la più o meno contemporanea cronaca di Mario di Losanna, nel 569) i Longobardi erano entrati in Italia, decisi a farne la loro nuova patria. La loro migrazione, iniziata dal Nord, progressivamente si spinse verso sud (a causa dell’ostacolo costituito dai Bizantini, riuscì ad arrivare solo fino alla Campania), e venne condotta tramite un sistema di insediamento di gruppi familiari, che si ponevano sotto il comando di un “dux”, da cui il nome di “ducato”, ovvero l’unità territoriale tipica dell’organizzazione politica del regno longobardo. Ognuno di questi gruppi familiari, compattamente uniti fra loro, costituiva una sorta di cellula base dell’organizzazione sociale e militare longobarda, che prendeva il nome di “fara”, per l’appunto. Da qui, chiaramente, il toponimo “Fara” (in Sabina), che accomuna la località laziale a tantissime altre, sparse per tutta l’Italia, che ne condividono l’origine.
Lo sapevi che…? Una piccola curiosità sul termine “fara”, e una piccola lezione su come un paio di vocali possono cambiare “tutta la storia”. Certamente i Longobardi, come tutti i popoli invasori, hanno fatto ricorso alla violenza e alla devastazione per insediarsi. Su questo non c’è dubbio. Ma questo popolo in particolare è da sempre perseguitato da un “mito negativo”, che ne farebbe quasi il “distruttore” per eccellenza. Ebbene, in parte è colpa delle fonti. Sembrerebbe infatti che, nella sua cronaca in latino, Mario di Losanna, nel descrivere la discesa dei Longobardi in Italia, avrebbe scritto che questi si insediavano “ut fara”, ovvero “per fara”, in riferimento ovviamente all’installazione nelle diverse località dei vari gruppi familiari. “Fara” è una parola chiaramente non latina, bensì germanica. Ma questo non dovette essere compreso dal primo editore della cronaca di Mario, che pensò ad un errore dell’autore, e quindi corresse il testo secondo quella che, per lui, doveva essere la parola, latina, esatta. E quindi un “ut fara” si trasforma in un “ut ferae”, ovvero “come bestie selvagge”, stravolgendo totalmente il significato originale, e arrivando condizionare per millenni la percezione comune riguardo un intero popolo.
L’abbazia di Farfa, invece, nella sua prima fondazione, sarebbe di poco precedente all’arrivo dei Longobardi nella zona. La si fa risalire al 560-570 d.C., e la si attribuisce all’opera di San Lorenzo Siro, una figura avvolta nella leggenda. San Lorenzo, come sottolinea il suo attributo “Siro”, sarebbe giunto in Sabina dalla Siria, per l’appunto, insieme a sua sorella Susanna e a un gruppo di compagni. Qui, si sarebbe dedicato all’evangelizzazione della zona, e avrebbe fondato l’abbazia, caratterizzata dalla presenza di tre alti cipressi nelle sue vicinanze. Sempre secondo la tradizione, sarebbe stato proprio lui a portare con sé dall’Oriente l’icona, dipinta, secondo la leggenda, da San Luca, della “Madonna di Farfa”, ancora oggi conservata nella chiesa abbaziale, precisamente nella seconda cappella sulla destra, cosiddetta della Passione o del Crocifisso. In realtà sulle origini di questo dipinto ci sono moltissime incertezze e le ipotesi di datazione sono fra le più svariate, spaziando dall’epoca medievale a quella moderna, collocandola addirittura nel XIX secolo.
Con l’arrivo dei Longobardi, però, l’abbazia andò distrutta. Un intervento della Madonna, che desiderava che questo luogo le fosse consacrato, ne avrebbe consentito, circa un secolo dopo, la ricostruzione. Dopo un’apparizione, il savoiardo San Tommaso da Moriana, che si era recato in pellegrinaggio a Gerusalemme con l’intenzione di restarci per sempre, tornò in Italia, alla ricerca del luogo contrassegnato dai “tre cipressi” indicatogli dalla Madonna. Qui ricostruì l’abbazia. Nel 705, papa Giovanni VII conferì l’approvazione al nuovo monastero, che ottenne anche la protezione del ducato longobardo di Spoleto, che, nella persona del duca Faroaldo II, effettuò in suo favore una generosa donazione di terre ed edifici religiosi dell’area circostante. E quella fu solo la prima di una serie di tante altre elargizioni, che, soprattutto nel passaggio tra VIII e IX secolo, provennero da parte di privati e dalla corte, longobarda prima, carolingia poi.
Nel 774 infatti, il rapporto conflittuale tra i Longobardi di Desiderio e i Franchi di Carlo Magno era arrivato a un punto di rottura. Nonostante i tentativi dell’abate farfense, Probato, di porsi come mediatore, la guerra scoppiò comunque, e Farfa si pose dalla parte di Carlo, dal quale ottenne numerosi privilegi, tra cui, nel 775, la cosiddetta “defensio imperialis”, con cui la si esentava da qualsiasi giurisdizione, civile e religiosa.
La posizione di prestigio e i privilegi non finirono qua. Lo stesso Carlo Magno, nell’800, durante il suo viaggio verso Roma, dove sarebbe stato incoronato imperatore dal papa la notte di Natale, tra il 22 e il 23 Novembre avrebbe alloggiato nell’abbazia, lasciando in dono un cofanetto d’oro decorato con pietre preziose, andato perduto. L’abbazia divenne “imperiale”, e, da un documento dell’822, sotto l’abate Ingoaldo, risulta che, a quest’altezza cronologica, che possedesse una nave commerciale esentata dal pagamento dei dazi nei porti dell’impero carolingio. Sempre nel IX secolo, sotto l’abate Sicardo, proveniente da una famiglia imparentata con quella imperiale, venne realizzata la costruzione della Basilica carolingia, incorporata successivamente, alla fine del XV secolo, nella nuova chiesa fatta costruire dall’abate commendatario Cardinal Giovanbattista Orsini. Della vecchia costruzione rimangono la torre campanaria e parte del pavimento.
Lo sapevi che… L’abbazia di Farfa fu sede di un importante “scriptorium”, ovvero un luogo dove i monaci si dedicavano alla copia di libri manoscritti. Era presente anche una notevole biblioteca, oggi di proprietà statale ma comunque affidata alla gestione della comunità monastica.
Il X secolo fu un periodo buio per la storia dell’abbazia. Nell’898, infatti, Farfa cedette sotto i colpi dell’invasione saracena, e i monaci fuggirono. I Saraceni non distrussero il luogo, ma ne fecero il loro quartier generale. A farlo però, purtroppo, pensò il fuoco: quando i Saraceni se ne andarono, dei ladri fecero irruzione, e, dopo aver acceso un fuoco, probabilmente fuggirono spaventati da qualcosa.
Negli anni ’20 del X secolo, i monaci rientrarono in possesso dell’abbazia. L’abate Ratfredo riuscì a ricostruire gli edifici e a recuperare il patrimonio abbaziale, ma fino alla fine del secolo il disordine regnò sovrano. Solo con l’elezione dell’abate Ugo I, nel 997, le cose cambiarono, soprattutto grazie all’adesione alla cosiddetta riforma cluniacense. Farfa rifiorì e divenne una sorta di “piccolo stato”; addirittura l’abbazia arrivò ad ospitare gli imperatori Ottone III ed Enrico II. Anche i suoi possedimenti si ampliarono: nel 1052, sotto l’abate Berardo I, come riportato in un documento, le fu donata anche Fara, dove, nel IX secolo, era stato costruito un castello. Non si sa chi fosse la famiglia aristocratica che lo controllava, ma probabilmente se ne può individuare un membro in un certo “Leo de Fara”, la cui sottoscrizione in qualità di teste compare in un documento del 1007, un contratto d’affitto di alcuni beni dell’abbazia di Farfa.
Circa una ventina di anni dopo l’acquisizione di Fara da parte di Farfa, il castello risulta occupato da Rustico, membro della famiglia dei Crescenzi Ottaviani. L’abate Berardo I, per recuperarlo, fu costretto, in quanto la sua era un’abbazia imperiale, a chiedere aiuto all’imperatore Enrico IV, che era in quel momento protagonista della cosiddetta “lotta per le investiture”, che lo opponeva a papa Gregorio VII. L’abate, personalmente, appoggiava la posizione papale, come volle sottolineare di fronte a tutti i suoi monaci in punto di morte, nel 1089, ma, appunto essendo l’abbazia imperiale, non poté far altro che schierarsi con Enrico, venendo per questo duramente rimproverato da Gregorio.
Nel 1082, Enrico IV riprese il castrum di Fara. Una successiva rioccupazione di Rustico riaprì i contrasti, che si protrassero per due anni. Alla fine si raggiunse un compromesso: Fara tornò nei possedimenti abbaziali, Rustico ottenne delle altre terre.
Un salto nel presente Nel 2017 l’ingresso in città di Enrico IV di Franconia è oggetto di rievocazione storica durante il più ampio festival di rievocazione storica medievale “Castrum Pharae”, che ha coinvolto entrambi i borghi di Fara e Farfa.
Ad ogni modo, dal XII secolo in poi, Farfa si avviò verso un progressivo declino, accentuato da un succedersi di abati poco validi, che spesso addirittura vivevano lontani dal resto della comunità, dall’avidità di vari signorotti locali e dal venir meno dell’osservanza monastica.
Il momento in cui la situazione iniziò a precipitare coincise con la conclusione della lotta per le investiture, suggellata dal Concordato di Worms, del 1122, quando l’abbazia passò sotto la tutela pontificia. Nonostante vari tentativi di risollevare la situazione, non venne sortito nessun effetto, e, alla fine, nel 1400, papa Bonifacio IX istituì la “Commenda”. L’abbazia venne dunque affidata ad una serie di abati commendatari, personaggi esterni alla comunità, anzi, neppure monaci, che perseguivano soprattutto i loro interessi. Al punto tale che la commenda divenne ereditaria all’interno di alcune famiglie aristocratiche, di cui l’abbazia divenne, a tutti gli effetti, possedimento. Il primo abbate commendatario di Farfa fu il Cardinale Francesco Carbone Tomacelli, nipote di Bonifacio IX. La Commenda passò poi nelle mani della famiglia Orsini fino all’inizio del XVI secolo. Dopo una breve parentesi nelle mani dei Della Rovere, la Commenda tornò agli Orsini fino al 1542, e poi passò ai Farnese. Sotto il Cardinale Alessandro Farnese, nel 1567, l’abbazia entrò a far parte della Congregazione Cassinese: ai monaci fu accordata autonomia gestionale, ma la giurisdizione religiosa e civile rimase nelle mani del cardinale.
Nel Rinascimento, anche grazie all’impulso economico generato dalla fiera di Farfa, il borgo di Fara visse un periodo di grande prosperità. Al 1501 risale la costruzione della Collegiata di Sant’Antonino, oggi Duomo del paese, sorto sui resti di una chiesa di XIII secolo, a sua volta realizzata al di fuori di quella che, al tempo, era la cerchia di mura del castrum, in ragione dell’aumento demografico, le cui esigenze la piccola chiesa di Santa Maria di Castello non riusciva più a sostenere.
Tanti palazzetti nobiliari iniziarono a sorgere qua e là e, uno di essi, Palazzo Brancaleoni, risalente al XV secolo, oggi ospita il Museo Civico Archeologico di Fara in Sabina. Al suo interno sono conservati ritrovamenti archeologici di due siti della sabina: l’abitato di Cures Sabini, città di origine di Tito Tazio e del secondo re di Roma, Numa Pompilio, e la necropoli di Eretum, l’ultima città della sabina a cadere sotto il dominio di Roma. Il museo conserva dei resti di primaria importanza provenienti da questi siti: il Cippo di Cures, l’unico reperto conosciuto che presenti un’iscrizione in sabino, e, dalla necropoli di Eretum, il lituo (ovvero il bastone ricurvo utilizzato dagli auguri etruschi) più antico mai rinvenuto, risalente al VII secolo a.C.
La città ospita anche il Museo del Silenzio, allestito all’interno del Monastero delle Clarisse Eremite, di costruzione seicentesca. È ospitato all’interno di una sala che è ciò che rimane dell’antica Santa Maria in Castello, inglobata dalla costruzione del monastero.