C’è una musica che non si ascolta: si respira, si attraversa. È una musica che vibra nello spazio intimo della memoria, dove i versi di un poeta antico si depositano come luce su acqua ferma. Con questo nuovo disco dal titolo didascalico (seguito di una collana in stile) “Jencek canta Shakespeare”, Anna Jencek ha aperto un varco. Ventidue sonetti – tradotti da Ungaretti e Sara Virgillito – più un prologo e un epilogo che ne fanno ventiquattro, come ore in un giorno, come lettere di un alfabeto mistico. E come nella lingua segreta dei sogni, ogni nota pronunciata diventa eco di una visione: non si canta Shakespeare, lo si attraversa con la voce.
Questo lavoro, pubblicato in occasione dell’80° compleanno di Herbert Pagani – sodale e compagno d’anima e di vita – e del centenario di Arturo Schwarz (che troviamo in una lettera a presentazione di questo lavoro) è qualcosa di più che un omaggio: è un tempio, un altare sonoro costruito con pietre di musica, parola e affetto. L’impianto musicale, orchestrato con cura sapiente da Dario Toffolon, intreccia strumenti acustici (chitarra, viola, arpa, percussioni) con inserti elettronici che non snaturano mai l’organicità del suono, ma anzi la innervano di luce ulteriore. La chitarra, “protesi del cuore” come la chiamava Herbert, è l’asse portante: da lì si dirama una costellazione sonora che richiama il contrappunto barocco, ma è nutrita di uno spirito del tutto contemporaneo, carnale e mistico insieme. Jencek lavora sul suono come un’alchimista, facendo della voce un prisma: ogni parola è scissa in risonanze multiple, si moltiplica in echi, armonici, riverberi. La sua voce non interpreta, ma convoca – i fantasmi dell’amore e del tempo, del desiderio e della perdita, incarnati in quella mitologia privata che Shakespeare ha seminato nei suoi sonetti: il Giovane biondo, specchio dell’eternità attraverso la giovinezza; la Dama bruna, incarnazione dell’amore oscuro e senza tempo. Ma è proprio nei due inediti che si avverte il battito più profondo e personale di questo disco: “Ninna nanna delle Fate” è un canto sospeso fra le dimensioni, che conserva nella sua struttura leggera tutta la densità di una dedica amorosa. Un sogno d’inverno, come lo definisce Anna stessa, nato da un’antica messinscena e riacceso nel ricordo di Herbert – come se le fate, in quel canto, cullassero anche il tempo perduto.
L’altro inedito, il “Sonetto 18”, non è cantato ma recitato: una scelta che, nella sua semplicità, colpisce come una lama affilata. La voce, qui, si fa rito. Recitazione su Bach, come un’orazione profana dove il tempo barocco si fonde col tempo della nascita – 1944 – che la cabala trasforma in chiave di lettura mistica. Il sonetto è Herbert stesso. È come se Anna, smettendo per un attimo di cantare, ci sussurrasse all’orecchio l’essenza segreta di tutto il disco. C’è poi un’idea di continuità, di circolarità: la presenza di Arturo Schwarz, con la sua introduzione sapiente, ci ricorda che questa non è solo un’opera musicale, ma anche un atto di pensiero. Schwarz ha sempre letto l’arte con occhi iniziatici, come via verso l’altrove: e questo disco lo è, profondamente. Sembra fatto per chi sa ascoltare anche nel silenzio, per chi riconosce nella musica una forma di sapere spirituale, e nel canto un’emanazione della memoria.
I sonetti scelti – e magistralmente tradotti – emergono da un lavoro di scavo, non solo filologico ma anche emozionale: Ungaretti e Virgillito non “trasportano” Shakespeare, lo rifondano. Ungaretti mantiene l’architettura metrica, Virgillito invece ne dilata il respiro; entrambi consegnano a Jencek un corpo vivo, pronto a essere vestito di musica. E Anna lo veste con rispetto e invenzione, come un abito rituale. L’intero lavoro si muove in una zona inclassificabile: tra il teatro musicale e la meditazione sonora, tra la camera oscura della psiche e il rito collettivo del canto. E in fondo non potrebbe essere diversamente: Jencek è artista plurale, nata per attraversare i confini. Attrice, coreografa, musicista, ma soprattutto cantautrice nel senso più originario del termine: colei che canta e scrive, dunque colei che crea mondi. In un’epoca che ha perso il senso del rito, “Jencek canta Shakespeare” è un gesto arcaico e futurista. Un disco che è libro, preghiera, camera di chiaroveggenza. Un disco “underground”, come intendeva Duchamp: non marginale, ma profondo. Capace di scendere negli abissi dell’inconscio per riportare in superficie – attraverso il canto – un barlume di eterno.