Premesso che nessuno cucina gli spaghetti bene come in Italia e che abbiamo la vera pizza, le migliori mozzarelle e l’unico vero pesto alla genovese, vi sono campi in cui un sano bagno di umiltà e un tocco di esterofilia non farebbero alcun male. Anzi.
Alcuni anni dopo aver terminato il suo terzo mandato come premier del Regno Unito, e mai sconfitta alle elezioni, quando le venne chiesto il suo successo più importante, Margaret Thatcher, che governò tutti gli anni 80 affrontando le pesanti difficoltà economiche e politiche inglesi, la guerra delle Falkland ed eventi che cambiarono la faccia del mondo, rispose “Tony Blair e il nuovo partito laburista.
Tacendo sui suoi risultati in economia e aver contribuito, insieme a Reagan, alla caduta del muro di Berlino e alla fine della Guerra Fredda, la Lady di Ferro pose l’accento sul fatto che i suoi governi, sopravvivendo ad un decennio non semplice a livello internazionale, dopo essersi trasferita al 10 di Downing Street durante una pesantissima crisi economica, oltre a perseguire e raggiungere i loro obiettivi, portarono il principale partito di opposizione ad una profonda riflessione sulla propria linea politica e sulle strategie e i percorsi da seguire, fino a cambiarli radicalmente.
Tony Blair operò infatti una decisa rottura con le linee guida, che avevano governato il partito laburista fin dalla sua origine, ribadite anche nel discorso dopo la sua prima elezione al parlamento, in una direzione non solo europeista ma anche molto vicina a quella dei suoi predecessori al punto di essere definito dal suo stesso partito “figlio della Thatcher.”
Al di là di valutazioni di natura prettamente anglosassone, comunque obiettive e non certo guidate dai pregiudizi e prese di posizione che caratterizzano ogni dibattito politico italiano, è evidente come il messaggio di Margaret Thatcher venne recepito, dopo che lo aveva fatto l’elettorato, dai suoi rivali politici che ben compresero come il mantenimento di posizioni difficilmente difendibili, e in molti aspetti anacronistiche, li avrebbe portati verso ulteriori inevitabili e ancora più gravi sconfitte.
In sintesi comprendere le ragioni delle vittorie altrui, le cause delle sconfitte e considerare una diversa prospettiva della società e delle problematiche da affrontare per fornire proposte concrete e attuabili è ciò che un illuminato leader di partito dovrebbe fare.
Esattamente il contrario di ciò che accade sullo scenario politico italiano.
Gli atteggiamenti dopo una sconfitta elettorale nostrana, sempre che non si invochino brogli o elezioni falsate, spaziano da un’opposizione dura e senza nulla concedere fino alla ricerca di nemici all’interno del proprio partito. Raramente (o forse mai) abbiamo conosciuto leader che, dopo una solenne batosta, si siano ritirati ammettendo i loro errori. Molti preferiscono trincerarsi dietro idee di base forse valide ma ormai anacronistiche, quali la difesa di valori su cui un partito nacque e si sviluppò un secolo prima il voler combattere nemici di fatto ormai inesistenti.
Assistiamo poi a fughe verso la creazione di nuovi soggetti politici che portano inevitabilmente ad un frazionamento, l’ennesimo, di partiti che vedono diminuire le possibilità di sopravvivenza, non solo politica. Il tutto magari in attesa di una nuova tornata elettorale dove accorparsi con altri nella speranza di trovare nuovi spazi al sole partendo dal presunto consenso di quella bassa percentuale di voti ottenuti e di elettori cui deve essere data voce.
Nel frattempo si resta ad attendere che qualche accadimento esterno contribuisca a mettere in dubbio la stabilità o l’efficacia dell’attuale governo per cavalcare l’onda, salvo forse esserne travolto. L’esempio ovviamente più eclatante è quello dell’attuale PD, che dal momento della pseudo trasformazione del PCI ha visto una costante emorragia di sigle, fazioni e soggetti che hanno addirittura privato un intero elettorato di un punto di riferimento cui poter credere.
Ma anche Forza Italia, dallo strappo di Alfano, è stata protagonista dello stesso fenomeno. In ogni caso i protagonisti delle scene sono sempre stati più o meno i soliti con lenti e rari avvicendamenti ai vertici dei maggiori partiti che rendono ancora attuale la frase di Gino Bartali secondo cui gli italiani sono un popolo di sedentari e chi fa carriera ottiene in premio una poltrona; aggiungiamo cui si affeziona e che fa fatica a lasciare.
Per completezza deve aggiungersi che, probabilmente, anche i governi in carica sono in attesa di eventi esterni per poter mascherare le proprie lacune e incapacità ed attaccare governi e politici passati che sono stati sicuramente eliminati (al momento), ma a cui non si è stati in grado di proporre alcuna valida alternativa.
Insomma, se da un lato qualcuno rimpiange le proprie poltrone, dall’altro qualcuno inizia a fare il possibile per restarci attaccato. Responsabile di ciò non è solo il sistema elettorale e politico che permette innumerevoli possibilità di candidature, anche se in ruoli diversi, ma anche una mentalità tipicamente italiana che non vede la sana abitudine dei politici trombati di non ripresentarsi al giudizio delle urne.
Esempi? A fronte di John Major e di Michael Dukakis, che non hanno certo insistito a chiedere nuovi consensi elettorali, e di un Jeb Bush che difficilmente tornerà in pista, in Italia abbiamo almeno un sindaco ottantenne che da oltre sessant’anni ricopre una carica politica, ed un altro di settanta che, oltre a militare in diversi schieramenti politici ne ha fondati almeno altri cinque.
E probabilmente è questo il problema di fondo, difficile da affrontare, che consentendo di restare attaccati alle poltrone, impedisce ai nostri politici di compiere quelle profonde analisi autocritiche da cui un partito potrebbe ripartire.
E in tal senso, oltre a riconsiderare quello che la Thatcher ha definito il suo più grande successo, i politici di casa nostra dovrebbero riflettere sulla circostanza che, in altri contesti democratici, chi è stato sconfitto in sede elettorale, non ha certo avuto successo in altre elezioni e, opportunamente, ha avuto la dignità di non ripresentarsi, salvo il caso di Richard Nixon che, probabilmente, è l’eccezione che conferma la regola. Anche la stessa presidenza Clinton può definirsi figlia dei precedenti mandati repubblicani e di un cambiamento del Partito Democratico, non solo in politica estera, non compiutamente portato a termine da Barack Obama con l’inevitabile vittoria di Donald Trump.
In ogni caso resta per i nostri politici aperta la possibilità di prendere esempio dai successi altrui per rivedere le proprie linee e, per chi propone cambiamenti, valutare limiti temporali alle ricandidature.
Gianni Dell’Aiuto

Il mondo del Pd non ha mai abbandonato la vecchia mentalità del PCI.
Non hanno mai digerito le sconfitte e non hanno mai costruito per l Italia ma, per il loro potere (vedi le regioni rosse).
Come il muro di Berlino anche loro spariranno.
Per quanto riguarda il Cav, scese in politica con bellissime idee….di facciata, accoppiate a quelle per suoi interessi personali.
E, guarda caso le seconde sono più evidenti ora che non può più comandare perché Salvoni non è Bossi!!!!!!!!!