Nel cuore pulsante del Festival del Giallo Città di Napoli, prende voce una raccolta che promette di lasciare il segno nel panorama del noir italiano: Nero come il buio, edita da Homo Scrivens, riunisce tre firme d’eccezione — Franco Forte, Diego Lama e Letizia Vicidomini — in un trittico di racconti che affondano lo sguardo nella parte più oscura dell’animo umano.
Ognuno dei tre autori esplora un territorio narrativo diverso, ma accomunato da un senso di inquietudine viscerale e da uno stile personale e incisivo. Si passa dalla discesa nell’inferno domestico raccontato da Franco Forte, con il disturbante Smetti di guardare, all’opprimente desolazione urbana del Lockdown di Diego Lama, fino ad arrivare al raffinato gioco di specchi tra palcoscenico e realtà nel racconto Teatranti di Letizia Vicidomini. Li abbiamo ascoltati, esplorando genesi e visioni dei loro racconti, il ruolo della scrittura sensoriale e le implicazioni sociali e psicologiche che si celano dietro ogni storia.
Smetti di guardare è il racconto con cui Franco Forte apre la raccolta, e lo fa trascinando il lettore in un abisso narrativo senza filtri. Un viaggio disturbante e crudele nei territori della violenza più intima e della perversione psicologica, in cui Morte e Sesso diventano i cardini di una narrazione estrema, capace di sfumare continuamente i confini tra allucinazione e realtà.
Franco, nel tuo racconto esplori dinamiche familiari disturbanti e devianze quasi teatrali. Quanto c’è di metafora sociale e quanto di puro esercizio narrativo nella costruzione di questo “inferno domestico”?
Non credo ci sia teatro, né semplice esercizio narrativo. Penso ci sia soltanto il vortice della discesa nel baratro, il tentativo di raccontare una storia di sentimenti malati, che si appropria di valori che vanno oltre qualsiasi metafora sociale. Questo racconto nasce da una serie di appunti presi durante la mia attività di giornalista di nera e di scrittore di noir, spezzoni di vita criminale che mi sembravano troppo esagerati per poter essere inseriti nei miei romanzi, perché qualcuno li avrebbe interpretati come invenzioni, frutto della fantasia dell’autore, di qualche metafora disturbante, appunto, familiare o sociale; invece sono spezzoni di vita vera, raccolti da testimonianze e atti processuali, che in certi casi ho avuto difficoltà a inserire persino nei miei articoli di cronaca. E dunque sono rimasti nel cassetto, fino a quando Sergio Altieri non mi ha chiesto un racconto forte, duro, nero come l’anima di certe creature infernali che si aggirano fra di noi, travestite da esseri umani. Così ho ripreso quegli appunti, quelle testimonianze, ci ho confezionato un abito su misura. Un abito noir che potrebbe sembrare un “puro esercizio narrativo”, ma rasenta la verità in modo così profondo da risultare spaventoso. Che poi era l’intento che mi prefiggevo.
La narrazione è densa di dettagli visivi, olfattivi e tattili, al punto da evocare una sensazione quasi cinematografica. Scrivi con l’intento di stimolare la regia mentale del lettore? E quanto il noir, per te, deve essere anche sensoriale?
Non solo il noir, tutta la narrativa, oggi, secondo me deve essere un’esperienza sensoriale a 360°. Non si può solo leggere e immaginare, bisogna fare vedere al lettore le scene, fargli sentire la voce dei personaggi, fargli avvertire gli odori che riempiono l’aria, fargli toccare gli oggetti e gli elementi che fanno da contorno alle storie, e se possibile fargli anche provare il sapore delle spezie, dei condimenti e delle portate che ogni buon scrittore, come un cuoco provetto, sa mettere nelle sue storie. Altrimenti tutto resta sospeso nella metanarrazione letteraria, che ormai non riesce più ad avere presa sui lettori.
Lockdown è il contributo di Diego Lama alla raccolta: un noir urbano e straniante, ambientato nel cuore di un mondo chiuso, quando la pandemia ha costretto tutti — fisicamente e psicologicamente — all’emarginazione. Protagonista è l’agente Gaetano Cimmino, figura fragile e disorientata, che attraversa una Napoli deserta e inquietante in un crescendo grottesco e allucinato.
Diego, Cimmino Gaetano è un personaggio fortemente connotato dalla voce narrante e dal linguaggio. Quanto conta, nel tuo noir, il linguaggio come costruzione di identità e di realtà?
Il linguaggio è molto importante perché è la chiave che ti consente di aprire la porta ed entrare nella storia. Il linguaggio non si costruisce a tavolino, ciascuno di noi ne ha dentro uno proprio, autonomo e autodidatta. Però il linguaggio dipende anche da ciò di cui si tratta. Io non riesco a raccontare tutti con la stessa voce: è il personaggio a scegliere una sezione della mia lingua che sono costretto a usare. Il commissario Veneruso, anche se scritto in terza persona, forza la lingua verso l’ironico-apocalittico. Gaetano Cimmino, sempre in terza, porta la lingua sul filo dell’ottusità e dell’incapacità di parlare davvero a sé stessi. Attraverso il personaggio – attraverso la lingua da lui determinata – l’intera realtà della storia prende una sua piega e una sua forma. Dunque sì, conta!
Hai scelto di ambientare il racconto nel pieno della pandemia, facendo risuonare le ansie collettive in chiave grottesca e autoritaria. Il Lockdown per te è stato solo un contesto narrativo o anche una lente critica su certi meccanismi di potere e obbedienza?
Il Lockdown è un pretesto narrativo, però ho cercato di trattarlo da un punto di vista non scontato e non corretto mettendomi nei panni di un giovane poliziotto. Non un eroe – come si tende a trattare oggi in modo generico e retorico-buonista la polizia – ma un mezzo deficiente che fa più danni che cose positive, e ce ne sono. La prima parte della storia è autobiografica dunque sfugge a vere scelte autoriali ma nasce dall’esigenza di fissare un evento reale, dunque significativo, per l’autore.
In Teatranti, Letizia Vicidomini mette in scena il disfacimento silenzioso di una coppia borghese che, sotto la superficie dell’equilibrio, nasconde crepe profonde. Due attori amatoriali, marito e moglie, si trovano a interpretare un ruolo che li costringe a guardarsi dentro, fino a far esplodere segreti, rancori e verità taciute.
Nella nostra conversazione ci racconta la sua passione per il teatro, la centralità del linguaggio e la scelta di uno stile che, come un coltello invisibile, penetra nella trama emotiva dei personaggi fino al tragico epilogo.
Nel tuo racconto la finzione teatrale diventa lo specchio di una realtà coniugale disgregata. Da dove nasce l’idea di fondere teatro e noir, e quanto credi che la messa in scena possa rivelare più della verità?
Ho sempre amato alla follia l’universo teatrale, leggendo De Filippo e Pirandello sin da molto giovane, arrivando poi a frequentare le tavole del palcoscenico come attrice amatoriale. Ne è derivata una riflessione costante, ossia che la vita “rappresentata” possa rivelarsi più vera del vero, come messa sotto una lente d’ingrandimento che rende macroscopica ogni imperfezione o macchia. Inevitabilmente la storia scritta per la raccolta ha assunto contorni noir per la predilezione che ho per questo genere, ma soprattutto per la verità suprema che a teatro tutto può essere finto, ma nulla è falso.
La tensione nel tuo racconto è quasi invisibile, ma cresce come una crepa in una parete elegante. Quali strumenti stilistici hai scelto per far emergere l’inquietudine senza dover ricorrere alla violenza esplicita degli altri due racconti?
Come in tutto quello che scrivo il linguaggio è per me fondamentale che sia curato, stilisticamente aggraziato e fluido. Amo la scrittura cesellata di Fruttero e Lucentini, per intenderci, dove un sorriso può essere “a filo d’erba”, e mi sono abbeverata a quella fonte. So per certo che percorrendo strade ben lastricate e punteggiate di fiori il racconto del male possa arrivare a fondo, in maniera inaspettata. Mi figuro le scene più truci allo stesso modo di un coltello che attraversi con un sospiro un morbido e serico tessuto, prima di uccidere.
Nero come il buio è più di una semplice raccolta di racconti noir: è un’indagine lucida e spietata sulle ombre che abitano dentro di noi. Franco Forte, Diego Lama e Letizia Vicidomini, ciascuno con il proprio stile e la propria sensibilità, ci offrono tre prospettive diverse ma complementari sul male, sull’illusione della normalità, sulla sottile linea che separa il quotidiano dall’orrore.
Attraverso le loro parole, emerge non solo la complessità del processo creativo, ma anche il valore della letteratura di genere come strumento per interrogare la realtà, senza compiacenze e senza filtri. Tre voci potenti che, con Nero come il buio, ci invitano ad aprire gli occhi anche quando tutto intorno — e dentro — sembra chiedere il contrario. Perché, come suggerisce il titolo stesso, è solo guardando nel buio che possiamo davvero iniziare a vedere.