Danilo Kis: lo scrittore-narratore che affronta conflitti interiori.

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Pochi autori si immergono nella letteratura come Kis, le sue pagine sono dense di questioni teoriche e pratiche sollevate dai formalisti russi primo Novecento: questioni di stile sollevate da Flaubert e Joyce; quelli delle strutture narrative che hanno coinvolto Borges, Nabokov e i fautori della Nouveau Roman e, infine, il conflitto interiore più complesso: la tensione tra studi letterari e documentaristici e le responsabilità degli autori nei confronti della Storia. Basato sull’omonima versione serba, a cura di Gojko Božović, “L’ultimo bastione del buon senso” contiene varie riflessioni di Kiš: dalla prosa, all’apprendistato letterario degli anni ’50. Dopo iniziali tentativi poetici, si dedicò interamente alla prosa, affermandosi come uno degli autori più significativi della letteratura serba contemporanea. Nella sua produzione, non vasta ma di alto livello qualitativo, spicca la trilogia di romanzi incentrati sul personaggio di Eduard Sam, che riflette la figura reale del padre dello scrittore, un ebreo scomparso ad Auschwitz.

Non sorprende che la poesia sia una parte riemergente nella prosa di Danilo Kiš, una mitragliata dell’istinto: all’inizio mi preparavo a diventare poeta, dice in un’altra intervista, poi dopo aver letto i poeti e in particolare l’ungherese Endre Ady, pregusta la sconfitta e si arrende alla prosa. È un processo di conversione (o di riversione) evidente anche in Bolaño, pure lui si diceva prima di tutto un poeta. Per qualcuno come Danilo Kiš, abituato alle sparizioni (a cominciare da quella parabolica del padre) e al peso della Storia sulla vita, la scelta tra poesia e politica è facile. Ogni ideologia si porta dietro la sua ombra scura, ogni ideologia può essere una gabbia, un cranio solitario e rotto: la poesia di contro è libertà estrema. Da un lato c’è la sparizione, la morte, l’assassinio, dall’altro la memoria, le immagini, le vocali colorate, il canto. Non c’è scelta più facile.

Da qui viene l’urlo da animale metafisico gettato alla storia, alla politica e alla scienza di Danilo Kiš. Mentre la Storia si perde dentro i suoi numeri indefiniti, la letteratura incarna quei numeri: “che cosa significano sei milioni di morti se non vediamo un solo, unico individuo, il suo volto, il suo corpo, i suoi anni e la sua storia personale?”.

“La mia patria è dove c’è la letteratura”

Kiš è un coltivatore di dubbi, ci ripete che là dove i poeti continuano a dubitare tornando alle domande di sempre, quella senza risposta (da dove veniamo?, e via così verso il silenzio), l’ideologia ammazza ogni dubbio e ci dà una calda coperta sotto cui fermarci a dormire dimenticando le domande.

Ma forse Danilo Kiš non esiste e leggerlo è solamente perdersi nella faglia, una difficoltà a fissarsi su una pagina sola, qualcosa per disturbati dell’attenzione e astigmatici della pagina bianca, per quelli che sono già spacciati davanti agli enigmi irrisolvibili. Semmai il problema, una volta cominciato a leggerlo, è fermarsi.

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