GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Ankara e la ricerca dell’equilibrio geopolitico

Turkish President Tayyip Erdogan makes a speech during his meeting with mukhtars at the Presidential Palace in Ankara, Turkey, March 16, 2016. REUTERS/Umit Bektas – RTSAPB4

In occasione della imminente visita di Putin in Turchia il Presidente Erdoǧan ha dichiarato l’intenzione di svolgere il ruolo di mediatore nell’ambito del conflitto ucraino facendosi promotore di una possibile situazione negoziale tra le due parti.

L’iniziativa sembra voler sottolineare la volontà della Turchia di riprendere a svolgere quel ruolo di grande potenza regionale che rappresenta il disegno geopolitico di Erdoǧan, conferendo alla diplomazia del Paese il ruolo di garante degli equilibri regionali.

Il tentativo di rientrare a pieno titolo nelle dinamiche geopolitiche dell’area euroasiatica, quale protagonista, è stato determinato dalla necessità di ribilanciare la posizione di flessibilità pragmatica caratteristica della Turchia di Erdoǧan compromessa dall’atteggiamento unilaterale fortemente critico espresso nei confronti di Israele nell’ambito del conflitto in atto a Gaza.

Il criterio che ha guidato la politica estera turca sotto la presidenza di Erdoǧan è stato quello di una diplomazia pragmatica volta ad accrescere l’importanza e il prestigio della Turchia al fine di svolgere un ruolo centrale, non solo nel bacino mediterraneo orientale, ma estendendo tale ruolo a tutta l’area euroasiatica.

Il concetto di proiezione geostrategica della Turchia, che ha visto il Paese intervenire in tutti gli scenari di crisi dall’area, Libia, Siria, Ucraina, Caucaso, è stato permeato dal criterio dell’adozione di una visione  realista e sempre attenta a essere percepita, quando possibile, nel ruolo di mediatore o garante di un equilibrio volto ad evitare profondi sconvolgimenti.

Il caso più emblematico di questa linea diplomatico strategica è l’atteggiamento che Erdoǧan ha assunto nei confronti della crisi ucraina.

La Turchia ha sostenuto la sovranità ucraina, non ha riconosciuto l’annessione della Crimea, ha aspramente criticato le azioni russe ed è stato il primo Paese a supportare con aiuti militari l’Ucraina.

Tuttavia, ha controbilanciato queste sue attività ponendo la massima attenzione a mantenere stabili i legami di natura economica con la Russia, ha appoggiato in maniera tiepida le risoluzioni internazionali di condanna contro Mosca, si è opposto alle sanzioni e agli sforzi per isolare diplomaticamente Putin, incrementando gli scambi e le relazioni economiche con la Russia.

Inoltre, a più riprese, ha svolto il ruolo di mediatore sfruttando la posizione di grande potenza (regionale) in grado di riscuotere la fiducia di ambedue i contendenti, portando a termine accordi importanti come le condizioni di esportazione del grano e lo scambio di prigionieri.

Anche la posizione assunta nei confronti della annessione della Svezia alla NATO deve essere interpretata alla luce della volontà di ricercare un equilibrio dell’intero sistema favorevole agli interessi della Turchia e propedeutico al suo ruolo di Paese leader. Il veto è caduto quando sono stati conseguiti i due obiettivi di Erdoǧan: assunzione di una linea di condanna della Svezia dell’organizzazione del PKK e avvio del processo di acquisizione di un lotto di F16 da parte USA.

Il tutto ribilanciato dall’apertura diplomatica nei confronti della Russia concretizzata nel summit di questi giorni, che rappresenta l’occasione per riprendere il ruolo di mediatore, oltre a far coincidere l’evento con la prima visita di Putin in un Paese dell’Alleanza Atlantica dopo l’inizio della crisi e nonostante la richiesta di provvedimenti coercitivi emessa da organismi internazionali nei confronti di Putin stesso.

Ma è nell’area mediorientale dove questa posizione di equilibrio è stata completamente offuscata e messa in discussione a seguito della dura presa di posizione di Erdoǧan nei confronti di Israele e del suo leader Netanyahu.

Gli interessi turchi nell’area sono estesi e abbastanza articolati.

In primo luogo, vi è il rapporto stretto con il Qatar, che rappresenta il partner economico più importante per finanziare i progetti di crescita della Turchia.

In secondo luogo, ci sono le attività condotte nello scenario siriano volte sia a contrastare l’ISIS, sia a circoscrivere il fenomeno dell’autonomia curda. Qui l’intesa con la Russia e la possibilità di una sovrapposizione di interessi con l’Iran fanno da bilanciere alla posizione di membro della NATO che, se pur in alcuni casi tiepida e sfumata, rimane, comunque, un punto non in discussione.

In terzo luogo, deve essere considerato il rapporto con i restanti Paesi del Golfo che è contraddistinto da una alternanza di aperture e di parziali chiusure diplomatiche, ma che persegue l’obiettivo di affermare la Turchia come un Paese capace di assicurare la stabilità dell’area in alternativa a un predominio iraniano.

Da ultimo, ma sicuramente non meno importante, vi è la questione religiosa, dove l’avvicinamento di Erdoǧan verso una visione meno laica del Paese e più orientata ad una maggiore ortodossia, conseguenza delle alleanze politiche interne che hanno reso possibile le ultime due elezioni del presidente, consente alla Turchia di aspirare al ruolo di guida del mondo islamico.

Tuttavia, nonostante le critiche dirette di Erdoǧan nei confronti di Israele e le dichiarazioni di supporto alla comunità palestinese, la Turchia è fuori dal contesto diplomatico che lavora per giungere a una soluzione mediata della crisi.

Malgrado, infatti, le buone relazioni con il Qatar la diplomazia turca è stata esclusa dal processo dove, invece, sia Egitto che Arabia Saudita svolgono un ruolo principale. Questo fattore ha sbilanciato la posizione di Ankara privandola della possibilità di influenzare gli eventi e relegandola ad un ruolo sussidiario che mette a serio rischio le sue aspirazioni di leadership.

Per poter comprendere tale situazione di impasse è utile fare le seguenti considerazioni.

Dopo una età dell’oro nelle relazioni turco – israeliane contraddistinte da iniziative diplomatiche quali il riconoscimento quasi immediato di Israele e la non partecipazione al ciclo delle guerre arabo – israeliane e proseguite anche da Erdoǧan nei suoi mandati iniziali, sia con un intenso scambio commerciale e con intese di carattere economico, sia con una proattiva azione diplomatica mirata a raggiungere una soluzione al problema palestinese sostenuta da una collaborazione attiva con le fazioni moderate di Hamas e dell’Autorità Palestinese, i rapporti hanno iniziato a intiepidirsi per sfociare in una serie di azioni politiche decise nei confronti di Israele che hanno creato profonde divergenze tra i due Paesi.

L’acuirsi delle relazioni diplomatiche è stato sottolineato da una serie di prese di posizioni intransigenti e dirette da parte di Erdoǧan che hanno interessato gli ultimi dieci anni e che sono determinate del crescente supporto alla causa palestinese espresso dal Presidente turco.

La decifrazione di questa linea politica del Presidente è particolarmente complessa se consideriamo i seguenti fattori critici.

Nonostante la maggioranza della popolazione sia a favore di una posizione di mediazione o di neutralità nei confronti della crisi tra Hamas e Israele, le azioni di Erdoǧan hanno indirizzato la sua politica in senso opposto, privando Ankara della libertà d’azione e della flessibilità necessarie a prendere parte al processo di mediazione in atto.

I rapporti tra Autorità Palestinese e Turchia, sebbene, non critici non hanno mai rappresentato il cardine della politica di Ankara e il sostegno dato alla causa palestinese non è mai stato determinante e incisivo, inoltre, anche i rapporti tra Hamas e la Turchia non sono stati caratterizzati da una visione coincidente, infatti, pur essendo di credo sunnita, Hamas ha legami molto più stretti con l’Iran che rappresenta l’antagonista principale della Turchia nell’area specifica.

Inoltre, all’inizio della crisi di Gaza Erdoǧan ha mantenuto una posizione di neutralità offrendosi come mediatore per raggiungere una possibile soluzione negoziale, per poi abbandonare repentinamente questa linea di condotta equilibrata e prediligere atteggiamenti di critica feroce nei confronti di Israele.

Alla luce di tali fattori la linea politica di Erdoǧan può essere perciò, motivata dalle seguenti considerazioni.

In primo luogo, il supporto alla questione palestinese è dettato da considerazioni esclusivamente personali che ne influenzano la visione politico-diplomatica.

In secondo luogo, il supporto alla causa palestinese deriva anche dalla necessita di gestire la componente islamica della sua compagine di governo al fine di non essere schiacciato da pressioni interne che potrebbero compromettere la sua posizione di forza e la stabilità del governo stesso.

In terzo luogo, l’ostilità e il risentimento per essere stato messo ai margini del processo di distensione tra i Paesi del Golfo e Israele, avviato e sostenuto da USA e Arabia Saudita prima della crisi.

Da un ultimo, ma non meno importante, un errore di valutazione nell’aver voluto assumere un ruolo intransigente e decisamente ostile verso Tel Aviv nell’ottica di cogliere l’opportunità di rilanciarsi come leader della comunità islamica regionale che appoggia e sostiene Hamas.

Le conseguenze diplomatico-politiche di queste linee di azioni hanno posto la Turchia, e a maggior ragione il suo leader, in una situazione precaria rischiando di vanificare le aspirazioni di Ankara a poter ricoprire il ruolo dichiarato di potenza regionale

Indubbiamente la sensibilità politica di Erdoǧan gli ha consentito di comprendere che questa situazione ha compromesso l’equilibrio del suo baricentro politico e che il persistere in una tale direzione avrebbe comportato una serie di conseguenze negative e quindi ha immediatamente invertito la tendenza.

Se le dimostrazioni di supporto per la causa palestinese fanno riferimento a una retorica altisonante, l’approccio diplomatico sta mutando, nell’ottica di proporre una Turchia interessata alla collaborazione e alla ricerca di soluzioni negoziali.

In attesa di poter svolgere un ruolo più attivo nella crisi di Gaza, Erdoǧan ha puntato su un altro teatro, quello ucraino, dove proponendo una sua ipotesi di soluzione alla crisi ha rilanciato immediatamente l’immagine di una Turchia disponibile al dialogo e alla mediazione in grado di poter svolgere quella funzione di garante dell’equilibrio geopolitico adeguata a interpretare il ruolo di grande potenza regionale che rappresenta il disegno geostrategico di Erdoǧan.

L’impasse

Mentre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite si consumava la rappresentazione tragicomica della inanità di questo consesso mondiale, retaggio di un mondo che non esiste più, roboante nei suoi propositi, elefantiaco nella miriade delle sue diramazioni, economicamente fallimentare, ma, soprattutto, impotente nella risoluzione dei conflitti che coinvolgono gli stessi Paesi che ne fanno parte e che era stato deputato a evitare, il Presidente Putin in un discorso alla Nazione ha dato inizio a un nuovo capitolo del conflitto che oppone la Russia all’Occidente (rappresentato sul campo dal suo campione del momento, l’Ucraina). Leggi Tutto

Un nuovo ordine internazionale

 

Russian President Vladimir Putin, right, and Chinese President Xi Jinping (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Il 4 febbraio scorso, in occasione della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici a Pechino, nella sede del China Aerospace Studies Institute, Cina e Russia hanno firmato una dichiarazione congiunta, denominata “Joint Statement of the Russian Federation and the People’s Republic of China on the International Relations Entering a New Era and the Global Sustainable Development”.

Il documento rappresenta un atto di profondo valore geopolitico, i cui elementi fondamentali sono stati recepiti in modo generico dall’opinione pubblica occidentale che ne ha superficialmente interpretato i contenuti riducendoli a un accordo, più o meno formale, tra Pechino e Mosca volto, principalmente, a esprimere il sostegno e il supporto reciproco tra i due Paesi in vista delle possibili azioni russe verso l’Ucraina.

Ma il fine del documento non è affatto questo! Se si scorre il testo ci si accorge subito che si tratta di un programma volto a porre le basi per l’affermazione di un nuovo ordine mondiale che soppianterebbe quello emerso al termine del Secondo Conflitto Mondiale e, soprattutto, quello che è stato sviluppato al termine della Guerra Fredda.

E l’intenzione programmatica non è affatto celata, ma, addirittura, apertamente esplicitata già nel titolo stesso, dove viene sottolineata l’inizio di un Nuova Era delle Relazioni Internazionali.

Il punto cardinale dell’intero documento è centrato sulla convinzione che la leadership mondiale dell’Occidente sia al tramonto e che quindi il sistema delle relazioni internazionali debba essere gestito impostando una nuova serie di regole.

Il contenuto del documento, lungo e articolato nel suo svolgimento, sottolinea la volontà dei due firmatari di partecipare in modo attivo e responsabile alla risoluzione delle molteplici problematiche di interesse globale (sviluppo economico, clima, sicurezza nucleare, cyber domain, controllo dello spazio), sottolineando l’importanza degli organismi internazionali (ONU in primis) e l’adesione ai valori universalmente riconosciuti (democrazia e diritti umani).

Da un punto di vista formale il documento è un capolavoro di diplomazia, in quanto esplicita le stesse idee e gli stessi propositi formali che contraddistinguono il concetto di relazioni internazionali dell’Occidente (convivenza pacifica, reciproco rispetto, collaborazione internazionale); li propone in termini assolutamente condivisibili e, soprattutto, tocca e ribadisce l’assoluto rispetto e la convinta adesione agli stessi ideali – la democrazia e i diritti umani – che hanno rappresentato i criteri fondamentali del sistema di valori sviluppato nel secondo dopoguerra.

Anzi, nel sostenere la loro tesi Russia e Cina si identificano come i veri rappresentati della democrazia e dei diritti umani.

In generale, quindi, il documento espone dei concetti pienamente condivisibili e assolutamente non nuovi, ribadendo la centralità delle Organizzazioni Internazionali quali elementi di sviluppo e di stabilità.

Se però si legge con attenzione il testo ci sono una serie di indizi che preludono all’atto finale di accusa rivolto contro gli Stati Uniti e contro tutto l’Occidente. Già nelle prime righe si afferma che la democrazia è un valore universale dell’umanità e non un privilegio di un limitato numero di Stati (Cap I “…the democracy is a universal human value, raher than a privilege of a limited number of State…”).

Immediatamente dopo viene esplicitato il concetto su cosa sia la democrazia definendola come il mezzo attraverso il quale i cittadini partecipano al bene comune e all’implementazione del concetto di governo popolare. La democrazia è quindi esercitata in tutte le sfere della vita pubblica e ha come scopo il soddisfacimento delle necessità del popolo, garantendone i diritti e salvaguardandone gli interessi. A questo concetto, condivisibile nella sua generalità, ne fa seguito un altro che, invece, rappresenta il vero paradigma ideologico che il documento sostiene.

Non esiste un tipo di formato la cui validità sia generale per indirizzare i Paesi verso la democrazia (Cap. I “There is no-size-fits-all template to guide countries in establishing democracy”) e dipende solamente dalla popolazione decidere se il proprio Paese è uno Stato democratico (Cap I “It is only up to the people of the country to decide wheter their State is a democratic one.”).

A questa serie di affermazioni fa da corollario il concetto che il tentativo di certi Stati di imporre il loro standard di democrazia, monopolizzando, a loro favore, un concetto universale e stabilendo alleanze esclusive finalizzate al conseguimento di una egemonia ideologica, costituisca una minaccia totale e pericolosa per la stabilità dell’ordine mondiale stesso (Cap. I “Certain States’ attempts to impose their own democratic standards…….undermine the stability of the world order.”).

L’atto introduttivo completa il presupposto ideologico con l’affermazione che il sostegno della democrazia e dei diritti umani non devono essere usati come strumento di pressione nei rapporti internazionali.

A tale proposito Russia e Cina si oppongono all’abuso dei valori democratici e al sostegno della democrazia e dei diritti umani come pretesto per l’ingerenza negli affari interni di uno Stato, chiedendo invece, il rispetto delle differenze culturali e delle differenze degli Stati, concludendo che è interesse dei firmatari promuovere una reale democrazia (Cap. I “They oppose the abuse of democratic values ……interference in internal affairs of sovereign states…..to promote genuine democracy.”).

Fatta questa premessa di carattere ideologico è nel terzo punto del documento che Cina e Russia sviluppano il loro concetto di ordine caratterizzato dai seguenti principi:

  • dichiarazione di mutuo supporto per la protezione dei loro interessi fondamentali, integrità della loro sovranità e opposizione a ogni forma di interferenza nei loro affari interni;
  • completo supporto di Mosca al principio di una sola Cina e opposizione a ogni forma di indipendenza di Taiwan;
  • contrasto di ogni tentativo da parte di Stati esterni di alterare la stabilità delle regioni di interesse e di interferire negli affari interni delle nazioni sovrane e opposizione a ogni forma di rivoluzione di qualsiasi colore.

Il testo prosegue con l’affermazione che certi Stati, certe alleanze politico militari e certe coalizioni sono ritenute responsabili di ricercare vantaggi a detrimento della sicurezza generale, stimolando rivalità e instabilità a detrimento dell’ordine pacifico. Vengono citate sia la NATO sia la AKUS quali elementi di instabilità regionale. i cui fini sono in netto contrasto, invece, con le organizzazioni promosse dalla Cina e dalla Russia.

L’affondo conclusivo evidenzia la visione degli interessi specifici di Pechino e di Mosca in merito agli scacchieri geopolitici di riferimento:

  • condanna della politica degli Stati Uniti nello scacchiere indo-pacifico, in quanto ritenuta responsabile di produrre effetti negativi sulla pace e sulla stabilità della regione;
  • supporto e condivisione da parte della Cina alle proposte avanzate dalla Russia, per dare vita ad accordi legalmente astringenti che consentano di creare delle condizioni di sicurezza durevoli in Europa.

Il documento, quindi, presenta una nuova interpretazione dei valori su cui l’Occidente basa la sua concezione filosofico-morale: la democrazia e i diritti umani non rappresentano più due concetti oggettivi ma devono essere intesi soggettivamente, a seconda delle situazioni, delle popolazioni che li devono applicare e degli Stati che ne devono salvaguardare l’applicazione. In sintesi, i valori non sono assoluti ma variano a seconda della percezione dei singoli Stati!

Con questo documento la Cina, soprattutto, ha deciso di proporsi, formalmente, come l’alternativa a un Occidente ormai ritenuto in declino, sostituendosi agli Stati Uniti come campione di valori e modelli universali. Per questo motivo ha cooptato la Russia, offrendo i termini di un accordo politico di mutuo sostegno e di cooperazione ad ampio spettro, facendo leva sulla ambizione di Mosca di riprendere il ruolo di grande potenza del quale si ritiene, ingiustamente, spodestata dall’Occidente.

Le implicazioni che derivano da questo documento sono praticamente dirompenti e volte a stravolgere il complesso delle relazioni internazionali così come concepito.

Il documento, infatti, sostiene la creazione di un sistema dove alla popolazione viene riconosciuto primariamente il diritto a poter beneficiare di un livello di sviluppo economico e sociale, ma dove libertà e interessi individuali si sfumano sino a scomparire quando sono considerati un ostacolo per la solidità e la sicurezza del sistema di governo. E perché questo modello funzioni non c’è spazio per la visione di democrazia che l’Occidente si ostina a voler imporre.

Se un tale sistema può, difficilmente, suscitare un proselitismo in Occidente, dove democrazia e rispetto dei diritti umani sono valori radicati e pienamente condivisi, vi sono tuttavia alcune tipologie di regimi che possono aderire e supportare una tale impostazione dell’ordine mondiale.

Il primo e, forse, più importante scacchiere a cui è indirizzata una tale interpretazione di un nuovo corso delle relazioni internazionali è senz’altro l’area mediorientale e nordafricana (MENA), dove la Cina è attiva da parecchio tempo. I contenuti del documento, infatti, possono costituire un’alternativa ideologica valida per gli Stati dell’area che indipendentemente dalla loro forma di governo (repubbliche nazionaliste, monarchie e regimi religiosi) potrebbero sicuramente trovare nella formula proposta del conseguimento di un benessere sociale e di uno sviluppo economico elevato, conseguenza di uno Stato autoritario, la risposta ideale alla pretesa occidentale di imporre valori che, considerati in senso assoluto universali, non tengono conto della necessità di un’applicazione soggettiva e in linea con il mantenimento primario di una formula autoritaria di Governo.

A questo punto, non è solo un sistema di valori che viene messo in discussione dal documento, ma l’intero impianto geopolitico che è stato creato dalle due guerre mondiali.

L’Occidente ha il dovere di rispondere e di sostenere i valori universali che sono i pilastri della nostra civiltà accettando la sfida e sostenendo la sua posizione, iniziando proprio da quello scacchiere del quale l’Europa è parte integrante: il Mediterraneo, l’Africa del Nord e il Medioriente.

 

L’evoluzione di Idlib, la guerra silenziosa che inizia a far rumore in Europa

MEDIO ORIENTE/REGIONI di

Ad Idlib lo stallo apparente si è infuocato fino alla tregua di oggi, ma è sempre più alta la posta in gioco. Dal rischio di una strage fino alla crisi umanitaria che bussa all’Europa, tutto ciò è nelle mani di Erdogan.

 

Il precario equilibrio di Idlib ha subito nella scorsa settimana una svolta disastrosa.

Qui, nella provincia più a nord-ovest della Siria, ultima zona di conflitto tra le forze lealiste di Assad e i ribelli filo-turchi, la notte del 27 febbraio i caccia siriani Sukhoi Su-24 assieme ai loro omologhi russi Su-34 hanno portato a termine una serie di raid aerei su degli avamposti turchi, uccidendo nel complesso 33 soldati; si tratta della perdita più ingente che la Turchia abbia mai subito dall’inizio del conflitto. Ad oggi lo scontro tra le due parti si riduce in un fazzoletto di terra; le forze governative di Assad il 19 dicembre hanno lanciato un’offensiva che ha costretto nei mesi i ribelli a ritirarsi dietro al confine che era stato garantito loro, durante l’accordo di Sochi nel settembre 2018. Dall’inizio dell’assalto l’esercito siriano, grazie al supporto russo, ha riconquistato un’area di 4.000 km² lasciando la restante, di pari dimensioni, alle file dei ribelli, area in cui peraltro vi è il concreto rischio di un massacro dato che in questo territorio grande appena quanto il Molise sono concentrate circa 3 milioni di persone, di cui profughe un milione.

Ciononostante pochi giorni prima dell’attacco siriano e russo i ribelli erano riusciti, grazie anche al supporto dell’esercito turco, a prendere il controllo della città di Saraqib, snodo fondamentale da cui passano le autostrade M4 ed M5, che congiungono Aleppo a Laodicea e a Damasco; inoltre poche ore prima del raid siriano alcuni media russi avevano riportato degli attacchi ai loro caccia, resi bersaglio di alcune postazioni antiaeree turche.

La risposta di Erdogan e la sua solitudine
La reazione del presidente turco non si è fatta attendere e nella stessa notte ha chiamato d’urgenza una riunione con i vertici della difesa, a cui sono seguite dichiarazioni molto forti: “Le nostre operazioni in Siria continueranno fino a quando le mani sporche di sangue che hanno di mira la nostra bandiera saranno infrante. E’ stata presa la decisione di ritorcersi con maggior forza contro il regime illegittimo che ha puntato le armi contro i nostri soldati”. Poche ore dopo la stessa conferenza il ministro della difesa turco Hulusi Akar ha annunciato l’avvio della quarta operazione in territorio siriano tramite cui la Turchia da qui in poi applicherà il diritto di autodifesa sui suoi territori in Siria. Denominata ‘Spring Shield’, la manovra secondo i vertici militari turchi ha già neutralizzato (ovvero ucciso, ferito o imprigionato) circa 2.800 soldati siriani; dopo gli eventi di questa settimana appare quindi chiara ormai la frontalità dello scontro tra Ankara e Damasco, Erdogan non vuole che Assad esca da questo conflitto vincitore ed è pronto a non cedere il passo su Idlib, del resto ha fornito fin qui un ingente aiuto ai 30.000 ribelli tramite la dotazione di blindati, missili anti-tank e missili anti-aerei, nonché il supporto dell’esercito turco nei 12 avamposti.

Diversamente dall’approccio che Ankara ha con Damasco il presidente turco si guarda bene dall’inasprire il conflitto con la Russia di Putin, il vero leader della guerra, che ha saputo risollevare Assad quando tutta la comunità internazionale lo dava ormai per finito. Erdogan sa bene che deteriorare i rapporti con Putin potrebbe essere fatale, proprio per questo motivo nelle dichiarazioni congiunte al vertice della difesa il presidente turco evita di menzionare la Russia come nemico, ma tutt’al più come un nazione di rispetto con cui Ankara ha rapporti di parità e a cui ha chiesto “di togliersi di mezzo da Idlib e fare i suoi interessi”. Il rapporto fra i due paesi è incerto; nei mesi passati Ankara ha acquistato da Mosca quattro sistemi missilistici antiaerei S-400 per un totale di 2,5 miliardi di dollari contro il parere dei vertici NATO, i quali non hanno gradito l’affare e fin’ora hanno negato alla Turchia l’acquisto degli F-35, tuttavia su altre questioni di primaria importanza come la Libia i due paesi siedono sui fronti opposti: Erdogan appoggia il governo di Tripoli di Serraj, al quale ha inviato anche delle truppe di supporto, mentre Putin supporta il generale Haftar.

Se Erdogan si trovasse a fronteggiare le forze di Assad da sole avrebbe certo più possibilità di muoversi, ma la forte presenza russa gli impone un’estrema cautela; la Russia è padrona dello spazio aereo di Idlib e nelle scorse settimane ha ripetutamente negato alla Turchia la possibilità di sorvolare i cieli siriani. Fin’ora l’unica mossa di Ankara oltre all’esercizio dell’autodifesa è stata chiedere il ripristino dei confini come erano stati garantiti a Sochi nel 2018, ma è quasi impossibile che vengano concessi da Assad a meno che Erdogan non riesca a persuadere il suo “amico” Putin. Una sorta di immobilismo quello turco, molti analisti paragonano la situazione della Turchia a quella di un vicolo cieco da cui Erdogan sta cercando di uscire in tutti modi.
Effettivamente l’ex Impero Ottomano soffre di una certa solitudine a livello internazionale, complice anche il fatto di aver agito in solitaria nella questione siriana e spesso non rendendo chiari i propri intenti, basti pensare che dopo l’attacco subito Erdogan ha fatto appello “alla voce di aiuto del popolo siriano, il quale chiede di essere protetto dal regime e dal terrore” quando però nel territorio di cui ha il controllo, appena a 5 km dai confini turchi, è stato trovato lo scorso novembre dall’intelligence americana Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’ISIS. Il presidente allora ha necessariamente bisogno di supporto dalla comunità internazionale per aver più peso al tavolo con il Cremlino, e vorrebbe che i suoi partner, che sono tali perlomeno sulla carta come la NATO e l’Unione Europea, lo appoggiassero nelle sue azioni.
La questione profughi, un’arma nei confronti dell’Europa

A questo scopo Ankara dispone di un asso nella manica pesantissimo che è riuscito a gestire nel tempo ed è pronto a utilizzare contro l’Europa se questa non dovesse mostrare il suo appoggio. Nel marzo 2016, a 5 anni di distanza dallo scoppio della guerra e in piena crisi umanitaria, l’Unione per evitare l’acuirsi del fenomeno migratorio dei siriani e combattere l’insurrezione delle destre nei rispettivi paesi membri, aveva deciso di concordare con la Turchia il blocco della rotta balcanica prevedendo il ritorno in territorio turco di tutti quei migranti trovati in viaggio verso la Grecia; l’accordo prevedeva il pagamento di 7 miliardi complessivi fino al 2020.

Lo scenario di collaborazione in questi 4 anni è totalmente cambiato; dai tempi dell’accordo la Turchia è diventata protagonista attiva nella guerra siriana, prima nella provincie di Afrin e di Rojava per fermare l’espansionismo delle forze curde delle SDF, e poi ad Idlib tramite il rifornimento e la partecipazione diretta contro il regime. Inoltre ad Erdogan la questione migranti (si stima un bacino di circa 3,6 milioni di profughi siriani in territorio turco) ha causato un “crollo” di popolarità a favore del partito rivale CHP, il partito popolare-repubblicano, il quale ha conseguito la maggioranza nelle principali città. Quindi, ora che è da poco terminato l’accordo di trattenimento dei profughi, la Turchia sta facendo pressione all’Europa, specie dopo che la morte dei 35 militari turchi il 27 febbraio non ha trovato eco di sostegno da parte di Bruxelles.
Il presidente turco all’indomani dei raid ha denunciato la situazione in Turchia, ormai incapace di trattenere i civili siriani, e avvisato l’UE di aver già aperto i propri confini con la Grecia e la Bulgaria: “Gli ufficiali turchi hanno già caricato più di 600 migranti su dei pullman diretti in Europa, in questi giorni se ne riverseranno a milioni”. Non è nemmeno valsa l’offerta da parte dell’Europa di un miliardo di euro per trattenerli in attesa di una soluzione definitiva, che in questi giorni si sono già riversati migliaia di profughi sia nelle città di confine lungo il fiume Evros che sull’isola di Lesbo, dove d’altronde l’UNHCR già attesta la presenza di 16 mila profughi. L’Unione Europea ha offerto il pieno sostegno alla Grecia, in questi giorni il commissario europeo Ursula von der Leyen e il presidente del parlamento David Sassoli saranno nelle zone di confine per valutare la possibilità, ormai quasi certa, di un intervento di Frontex, l’agenzia di difesa di confini europei.
Arriva intanto, oggi 6 marzo, l’ennesima tregua, concordata dopo numerose ore di negoziati; Putin ha ricevuto al Cremlino Erdogan e i due hanno stabilito il cessate il fuoco, dei pattugliamenti congiunti al confine e un corridoio di sicurezza lungo sei chilometri in prossimità di Saraqib e dell’autostrada M4. Nonostante i leader al termine dei colloqui si congratulino reciprocamente per la vittoria diplomatica emerge sempre più un fatto, ovvero la precarietà delle tregue in Siria; difatti Erdogan ribadisce che qualsiasi violazione da parte delle autorità siriane verrà vendicata mentre gli interessi di Putin sono sempre più contrastanti con quelli turchi, la base russa di Khmeimim ad esempio è stata ripetutamente resa bersaglio di attacchi da parte delle milizie jihadiste dei ribelli. Si tratta pur sempre di una guerra che dura da 9 anni, eppure nemmeno gli ultimi episodi riescono a cedere il passo al futuro della Siria in silenzio.

Gli Stati Uniti cambiano direzione sotto la Presidenza Trump

AMERICHE di

L’8 di novembre il popolo statunitense ha eletto il repubblicano Donald Trump come prossimo Presidente degli Stati Uniti. Tuttavia, i risultati elettorali hanno preso alla sprovvista quasi tutti. La vittoria di Donald Trump è stata assolutamente inaspettata, soprattutto perché i sondaggi avevano previsto il successo di Hillary Clinton. In ogni caso, i risultati elettorali mostrano un Paese profondamente diviso tra due opposte visioni dell’America e opposte idee sul ruolo che gli Stati Uniti dovrebbero svolgere sul piano delle relazioni internazionali. Per comprendere perché gli statunitensi hanno eletto Donald Trump a dispetto delle previsioni, sarà utile esaminare le sue proposte di politica interna oltre a quelle di politica estera.

La politica interna di Donald Trump può essere sintetizzata nello slogan “Make America great again”. Trump ha svolto la sua campagna elettorale concentrandosi sulla classe lavoratrice ed enfatizzando l’idea che l’America abbia un grande potenziale che non è stato a pieno utilizzato fin’ora. Secondo Trump, le ragioni di tale situazione sono da riscontrarsi nell’eccessivo sviluppo dell’economia finanziaria a scapito di quella reale. L’economia reale sostiene la crescita economica e rende possibile un miglioramento del benessere, mentre l’economia finanziaria è considerata responsabile della bolla immobiliare, che è esplosa nel 2007. Trump si è riferito ai suoi sostenitori definendoli un grande movimento, volenteroso di cambiare l’America. La sua retorica è stata considerata come populismo da gran parte del Paese, tuttavia la maggioranza ha visto in essa un modo per sentirsi in potere di cambiare le sorti dell’America. Secondo alcuni esperti, i votanti hanno preso posizione contro l’establishment. Il rifiuto della classe politica tradizionale non è un fenomeno isolato nello scenario internazionale come abbiamo potuto osservare in occasione del referendum sulla Brexit, oltre che nei recenti risultati elettorali in diversi Paesi europei. I principali strumenti per ridare grandezza all’America, secondo Trump, sono i tagli alle tasse per le imprese, misure più restrittive sull’immigrazione e leggi inflessibili contro criminali e terroristi. Il taglio delle tasse è pensato per sostenere la crescita economica aiutando le imprese a restare negli Stati Uniti invece di delocalizzare la produzione all’estero. La posizione di Trump sull’immigrazione è stata largamente criticata, poiché ha proposto di costruire un muro al confine con il Messico e di espellere tutti gli stranieri irregolari che risiedono negli Stati Uniti. Infine, la sua posizione sui criminali ed i terroristi è stata considerata razzista da gran parte dei cittadini americani. In particolare, Trump ha proposto di introdurre leggi stringenti e rafforzare i poteri della polizia per risolvere il problema della conflittualità razziale negli USA. Tuttavia, questo tipo di misure preoccupa la popolazione afroamericana che è stata protagonista di numerose proteste durante l’ultimo anno poiché si sente discriminata dalla polizia. La durezza della posizione di Donald Trump in merito alla questione razziale potrebbe portare ad incrementare la conflittualità già esistente tra il governo e le comunità afroamericane.

Passiamo ora ad analizzare la politica estera di Donald Trump. Il suo progetto può essere identificato nell’espressione “isolazionismo”. Per quanto riguarda le relazioni economiche con altri Paesi, Trump vorrebbe introdurre misure protezionistiche, poiché ritiene che i problemi economici degli USA siano principalmente dovuti al processo di globalizzazione. Non si tratta di una posizione isolata se pensiamo al Regno Unito che probabilmente negozierà l’uscita dal Mercato Unico Europeo. L’idea di focalizzarsi sui problemi interni degli USA, piuttosto che realizzare interventi militari in tutto il mondo, è l’argomento di politica estera che ha convinto maggiormente gli elettori. Gli statunitensi non comprendono le ragioni del consistente coinvolgimento degli USA in Medio Oriente come in altre parti del mondo, anche perché non percepiscono alcun vantaggio diretto da tali operazioni. Trump ha sostenuto, durante la sua campagna, che gli USA dovrebbero spendere meno soldi nel finanziare la NATO e gli interventi all’estero, concedendo maggiore indipendenza militare ai loro alleati ed usando il denaro per migliorare lo standard di vita americano. Tale isolazionismo in politica estera porta ad alcune importanti conseguenze. In primo luogo, le relazioni con l’UE cambieranno, in campo militare ma anche nel settore economico. Infatti, Trump ha espresso la sua opposizione al Trattato di Partenariato Transatlantico sul commercio e gli investimenti, che dovrebbe essere firmato tra l’UE e gli USA. Ciò nonostante, il più importante cambio nelle relazioni internazionali sarebbe dato da un mutamento di attitudine verso la Russia. Dal canto suo, il Presidente Putin ha subito espresso la sua volontà di ripristinare relazioni amichevoli con gli Stati Uniti. La principale conseguenza di una riconciliazione tra gli USA e la Russia sarebbe un possibile accordo sulle crisi in Siria ed in Ucraina. La stabilizzazione del Medio Oriente, oltre alla soluzione della crisi in Ucraina, allontanerebbe la minaccia di uno scontro diretto tra Russia e Stati Uniti. D’altro canto, le future relazioni con la Cina sono incerte. Trump ha fatto alcune dichiarazioni contro la strategia economica cinese ed ha espresso la volontà di essere più economicamente indipendente dalla Cina. Tuttavia, dobbiamo tenere a mente che la Cina possiede la maggior parte del debito statunitense. Un altro aspetto della politica estera di Trump, in grado di influenzare tutto il mondo, è la scelta di rispettare o meno l’accordo sul cambio climatico negoziato a Parigi lo scorso anno ed entrato in vigore pochi giorni fa. Infine, non è chiaro se Trump proseguirà nella riconciliazione con l’Iran e se rispetterà l’accordo sul nucleare concluso lo scorso anno con tale Paese.

In conclusione, è ancora troppo presto per fare previsioni su come gli Stati Uniti e le loro relazioni con il resto del mondo cambieranno. La questione dipende fondamentalmente dal fatto che Trump  rispetti o meno il programma elettorale. Secondo le sue prime dichiarazioni, tuttavia, sembra che l’intenzione sia quella di moderare alcuni punti controversi del programma elettorale (si veda la posizione sulla questione razziale, sugli omosessuali e sui musulmani). Trump ha annunciato la volontà di collaborare con l’amministrazione Obama per preservare le maggiori conquiste ottenute negli ultimi 8 anni. Obama, da parte sua, ha manifestato il proprio sostegno al nuovo Presidente ed ha dichiarato che farà tutto il necessario per aiutarlo a svolgere in modo soddisfacente il proprio mandato.

Il caso Hamedan e il decision-making iraniano: una possibilità di cambiamento?

Difesa/Medio oriente – Africa di
I processi decisionali del sistema democratico-teocratico iraniano sono al centro dell’ultima analisi pubblicata dall’editore americano Strategic Forecast (Stratfor), nonché di un dibattito mai completamente sopito e, anzi, riacceso negli ultimi giorni dal caso della base aerea di Hamedan.
Dal 15 agosto, infatti, i caccia bombardieri Tu-22M3 dell’esercito russo hanno iniziato ad operare dal complesso militare dell’Iran centro-orientale – con scopi e obiettivi al momento non definiti pubblicamente dall’amministrazione Putin. Una prova di forza non indifferente da parte del Cremlino riguardo all’influenza in Medio Oriente in questo momento così delicato, da una parte; dall’altra, la scintilla che potrebbe innescare un dibattito quanto mai delicato nella scena politico-istituzionale della Repubblica Islamica.
4_142015_mideast-iran-nuclear-118201In questo come nella grande maggioranza dei casi, la chiamata a Mosca è stata effettuata direttamente dal Leader Supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, previa consultazione dei più stretti consiglieri militari, scelti e nominati in prima persona. L’intricato e sentito dibattito sulla questione della base di Hamedan segue, dunque, paradossalmente una decisione già presa e difficilmente revocabile, a meno di dietrofront della Guida Suprema iraniana. Proprio per questo, venti membri dell’attuale legislatura – tra cui un conservatore, ben più moderato di Khamenei, di indiscutibile caratura politica come il presidente Hassan Rouhani – hanno chiesto quanto prima una sessione di aggiornamento a porte chiuse per porre all’ayatollah numerose domande su questa situazione.
Come evidente da questa vicenda, che già ha destato clamore e sollevato malumori nel paese, il dibattito politico-parlamentare e in particolare la forza dell’organo legislativo iraniano sono facilmente scavalcabili da parte dell’Ayatollah. Il parlamento dell’Iran (Majils), nonostante una storia ultra-centenaria e ricca di successi (come l’Oil Nationalization Bill del 1951 nel settore petrolifero e il ben più recente JCPOA, l’accordo sul nucleare del luglio 2015 con l’Occidente), è in declino dalla Rivoluzione Islamica del 1979, così come lo sono i suoi poteri decisionali e di influenza.
Con il contraddittorio nelle aule di rappresentanza del Majils – arena politica molto importante per il popolo iraniano – ridotto a mera formalità, dilaga il potere del Leader Supremo e degli organi da esso direttamente composti, come il Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, lo Staff Generale dell’esercito e, soprattutto, il discusso Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Proprio con quest’ultima istituzione, composta da dodici membri di fatto nominati – direttamente i sei religiosi, indirettamente i sei giuristi – dalla Guida, il parlamento iraniano ha avuto di recente rilevanti frizioni.
Il pomo della discordia tra Majils e Consiglio è la proposta, approvata la scorsa settimana dalla camera legislativa, di limitare il potere di veto dei “dodici” nei confronti dei vincitori delle elezioni, i futuri parlamentari eletti dal voto popolare – tema assai spinoso soprattutto durante la tornata elettorale del febbraio scorso per il parziale rinnovamento del parlamento. Ironicamente, e in maniera emblematica sui rapporti di potere in Iran, per entrare in vigore la coraggiosa proposta legislativa del Majils deve essere approvata dallo stesso Consiglio dei Guardiani.
La Repubblica Islamica dell’Iran è, formalmente, una repubblica presidenziale islamica: più calzante sembra, però, essere la definizione di teocrazia. Il suo, paradossale, sistema politico-istituzionale ha tuttavia finora trovato regolarmente, pur nello sbilanciamento dei poteri, situazioni di equilibrio – talvolta solide, talvolta meno. L’ultima parola è sempre del Leader Supremo, in questo momento un integralista sciita dalle posizioni spesso estreme come Khamenei – dichiaratosi nemico dell’Occidente, degli USA e di Israele e fautore della propria forma di “jihad”; a poco valgono in interni, esteri e difesa gli sforzi profusi dal presidente Rouhani e da un altro leader prominente come il portavoce del Majils Ali Larijani – il quale, come volevasi dimostrare, ha glissato con un “no comment” sul caso-Hamedan.
Tuttavia, proprio la portata della questione e la determinazione della fascia più moderata della politica iraniana potrebbero rivelarsi foriere di una possibilità di cambiamento. Khamenei, scrive Stratfor, potrebbe ritrovarsi, dopo il confronto lontano dai riflettori con Rouhani e gli altri esponenti politici, nella posizione di non poter più ignorare la pressante opinione popolare, rappresentata e mediata dal Majils, sulla presenza dei caccia russi a Hamedan. Si tratta, indubbiamente, di un banco di prova importante per i paradossali processi di decision-making dell’Iran, nonchè per gli equilibri interni e della regione mediorientale. Sarà dunque, fondamentale, capire i prossimi sviluppi della vicenda.
Di Federico Trastulli
Centro Studi Roma 3000

La partita russa tra Ucraina e Turchia

Varie di

Il fronte ucraino torna ad essere caldo. Mercoledì 16 dicembre, il presidente russo Vladimir Putin ha firmato il decreto (già annunciato in precedenza) che sospende l’accordo di libero scambio tra Kiev e la CSI. La sospensione arriva a seguito dell’accordo di libero scambio tra Ucraina e Unione Europea, in vigore dal 1° gennaio. Il capo del Cremlino ha motivato la decisione spiegando che tale patto lede gli interessi economici russi.

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Di fatto, come citato da molte fonti internazionali, la guerra nell’Est europeo non è ancora finita. In primis, per la conferma, arrivata da Putin nel corso della conferenza stampa di fine anno, della presenza di truppe russe all’interno del territorio ucraino. Poi, a causa del’ostacolo continuo da parte dei separatisti al lavoro dell’OSCE nel Donbass, dove il blocco degli aiuti umanitari, denunciato da Unicef e Medici Senza Frontiere, e la violazione del cessate il fuoco stanno mettendo in pericolo la sopravvivenza degli accordi di Minsk/2.

Un pericolo denunciato dallo stesso segretario generale NATO Jens Stoltenberg nel corso della conferenza stampa di giovedì 17 dicembre con il presidente ucraino Petro Poroshenko: “Ci sono stati progressi negli ultimi mesi. Tuttavia, recentemente, abbiamo registrato l’aumento delle violazione degli accordi di pace. Esiste un reale rischio di un ritorno alla violenza”.

La conferenza stampa congiunta si è tenuta il giorno dopo la firma del piano di cooperazione tra NATO e Ucraina, altro fattore che potrebbe rendere vani i progressi fatti a Minsk lo scorso febbraio e portare ad un ennesimo raffreddamento dei rapporti tra Occidente e Mosca. Il piano prevede la riconfigurazione del settore Difesa ucraino e il miglioramento del potenziale delle sue forze armate, e la partecipazione di Kiev ai progetti atlantici sulla “Difesa Intelligente”.

Con il continuare delle sanzioni europee ai danni della Russia fino a quando la situazione non andrà stabilizzandosi, come annunciato dal presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, e con la possibilità dell’ingresso della Turchia in Europa, il Sud-Est europeo si è fatto rovente in questo finale di autunno.

Sempre nel corso della conferenza stampa di fine anno, oltre a definire “atto ostile” l’abbattimento del caccia russo lo scorso 24 novembre, il capo del Cremlino ha parlato di una evidente volontà dei turchi “di mostrarsi compiacenti con gli americani”.

Pur essendo conciliante con gli Stati Uniti sul fronte siriano (“faremo il possibile per trovare il modo di superare questa crisi”) e appoggiando la linea italo-americana in Libia (appoggio del governo di unità nazionale e dell’intervento militare ONU), i rapporti tra Russia e Occidente destano ancora motivi di preoccupazione.

Soprattutto perché, oltre al tema dell’allargamento NATO e alla crisi di rapporti con Ankara, dobbiamo aggiungere la crisi economica russa “troppo dipendente – come dichiarato dallo stesso Putin – da fattori economici esterni, come il drastico calo del prezzo del petrolo” e, come denunciato nei mesi scorsi, dalle sanzioni inflitte da Stati Uniti e Unione Europea.
Giacomo Pratali

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Un jet da combattimento russo Su-24 è stato abbattuto vicino al confine turco-siriano

Secondo una dichiarazione rilasciata dallo Stato Maggiore Turco, l’aereo da guerra abbattuto è stato avvertito per 10 volte in cinque minuti da due F16  turchi mentre il Su-24 stava volando sopra la città di Yaylidagi nella  provincia di Hatay della Turchia.

L’Agenzia di Stampa Turca “Anadolu Agency”, citando  dei funzionari vicino all’ufficio del presidente Erdogan, ha  affermato che l’aereo è stato avvertito dopo aver violato lo spazio aereo turco, prima di essere abbattuto in linea con le regole di ingaggio della Turchia. Al contrario, il Ministero della Difesa russo sostiene di avere “prove oggettive” che confermano che  l’aereo era in volo sul territorio siriano solo e  a una altitudine di 6000 metri.

I russi hanno anche detto che  l’incidente sarebbe stato causato da colpi di arma da terra come dimostrerebbero le  informazioni preliminari raccolte. I locali Ribelli turkmene affermano che  hanno catturato i piloti, uno di loro ferito e l’altro in buona salute.

Un video con il logo della Free Siryan Army  mostra un gruppo di uomini che camminano fino a un’area molto boschiva, dove un paracadute giallo era atterrato.

Mentre è chiaro che il  Su-24 Russo è stato abbattuto in un modo o nell’altro, la specificità della descrizione turca dell’incidente deriva dalle sue comunicazioni con gli F-16 che sono stati impegnati con l’aereo prima che fosse abbattuto.

Al contrario, il ministero della difesa russo potrebbe ancora tentare di ricostruire ciò che è accaduto dalle sue ultime  comunicazioni con il pilota. La cosa importante da notare è che la Turchia ha riconosciuto  direttamente la responsabilità sull’abbattimento mentre ancora  le due parti continuano a contestare esattamente dove e quando è accaduto l’ingaggio.

Fin dai primi giorni del l’intervento russo in Siria, Turchia, Stati Uniti e gli altri partner della coalizione hanno espresso serie preoccupazioni circa la possibilità che si potesse verificare questo scenario. I velivoli russi hanno aumentato l’intensità delle loro operazioni in tutta la Siria, con  targeting sia sullo stato islamico che sulle forze ribelli siriane.

In alcuni casi, gli attacchi aerei russi si sono verificati in prossimità di aree in cui Turchia,  Stati Uniti e Francia hanno condotto le proprie operazioni aeree contro lo Stato islamico, aumentando il rischio di urti accidentali.

Ankara e Mosca sono impegnate in discussioni in ambito strategico militare per il diminuire lo sato di conflitto in Siria e hanno mantenuto una stretta relazione diplomatica. L’abbattimento del velivolo russo non fa presagire una immediata escalation militare diretta tra la Turchia e la Russia. Le due parti saranno probabilmente in grado di gestire le ricadute dell’incidente attraverso mezzi diplomatici e attraverso ulteriori contatti militari per definire meglio le loro aree di attività.

La speranza di Turchia sarà che la Russia esercita una maggiore cautela nelle sue operazioni in Siria per evitare tali incidenti in futuro, tanto più che la Turchia si prepara ad approfondire il proprio impegno militare nel nord della Siria a ovest del fiume Eufrate. In effetti, i ribelli prevalentemente turkmeni affiliati.

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Raw Footage: Russian Jet Downed by Turkey – Nov. 24, 2015

Francia attacca IS. USA-Russia cooperano?

Varie di

L’aviazione francese ha intensificato i bombardamenti su Raqqa all’indomani dell’attacco terroristico a Parigi. Nel G20 in Turchia, il bilaterale tra Obama e Putin lascia intravedere degli spiragli su una comune strategia in Siria.

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Lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Francoise Hollande ha già avuto un seguito. Non solo entro i confini nazionali. L’aviazione d’oltralpe, infatti, ha intensificato, nella notte del 15 novembre, i bombardamenti sulle postazioni strategiche in Siria. Il Ministero della Difesa ha dichiarato che sono 12 gli aerei totali impiegati, i quali hanno intensificato i raid presso Raqqa, capitale dello Stato Islamico, e preso di mira un centro di comando e un campo di addestramento.

Gli attacchi di Parigi hanno quindi portato ad una immediata reazione da parte dell’Eliseo. E, soprattutto, il governo non è spaventato dal fatto che, proprio i raid delle settimane scorse in Siria, sono stati una delle cause di quanto successo il 13 novembre. Gli attacchi aerei di queste ore sono, inoltre, il frutto della collaborazione tra Francia e Stati Uniti, già presenti sia sul territorio siriano sia su quello iracheni, che hanno fornito un supporto logistico e di intelligence.

Proprio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha intrattenuto un proficuo colloquio con il suo omologo russo Vladimir Putin nel corso del G20 di Antalya (Turchia). Negli oltre 30 minuti di faccia a faccia, alla luce degli attentati di Parigi, si sono riavvicinati, tanto che la Casa Bianca ha definito la discussione come costruttiva.

Al netto della questione ucraina e dei confini NATO in Europa, quanto avvenuto a Parigi potrebbe aprire lo scenario di una cooperazione militare in Siria, al fine di “risolvere il conflitto nel Paese”, si legge nella nota diffusa dopo il vertice. Pur con la questione del sostegno ad Assad ancora in ballo, la strategia del terrore dello Stato Islamico potrebbe avere un effetto contrario e ricompattare Occidente e Russia in nome della lotta al Califfato.
Giacomo Pratali

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Siria: accordo USA-Russia necessario

Medio oriente – Africa di

Dopo l’inizio dei bombardamenti russi sul territorio siriano, l’appoggio al regime di Assad e la violazione dello spazio aereo turco, i rapporti tra Usa e Russia si sono fatti ancora più freddi. Tuttavia, l’intervento militare dell’Occidente in Siria e Iraq impongono un accordo di cooperazione tra le parti in gioco.

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Il Ministero della Difesa russo potrebbe accogliere la proposta del Pentagono sul coordinamento nella lotta all’Isis in Siria. Questo è quanto il Cremlino ha fatto trapelare mercoledì 7 ottobre, parlando di continui contatti a livello diplomatico con la Casa Bianca dopo il vertice Usa-Russia alle Nazioni Unite lo scorso 29 settembre.

Dal 30 settembre, data dell’inizio dell’intervento aereo russo in Siria, si è verificata una duplice escalation. Sul piano militare, con i caccia russi impegnati presso Palmira, nelle province di Aleppo e Hama, dove sono intervenuti spalleggiando l’offensiva contro i ribelli islamici, non appartenenti al Daesh, delle truppe del presidente Bashar al Assad. Proprio l’appoggio al regime siriano, contestato dagli Stati Uniti e dalla Nato, e la violazione dello spazio aereo turco hanno portato all’altra escalation, quella di tipo diplomatica.

Infatti, sono stati molti i botta e risposta tra l’Occidente, che accusa la Russia di colpire i ribelli siriani non fondamentalisti e di fare il gioco dei jihadisti, e il Cremlino, che ha bollato tali accuse come montature mediatiche.

“Respingiamo l’idea della Russia che tutti coloro che sono contro Assad siano terroristi”, ha tuonato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Mentre il ministro della Difesa britannico Micheal Fallon ha precisato che solo il 5% dei raid russi hanno come obiettivo il Califfato: “Le nostre prove indicano che stanno sganciando munizioni non guidate in aree civili, uccidendo civili, e contro l’ELS”. Percentuale in termini di vittime confermata anche dall’Osservatorio Nazionale per i Diritti Umani siriano (ONDUS).

“L’unico modo per combattere il terrorismo internazionale in Siria e nei Paesi limitrofi, è combattere i ribelli sul loro territorio”, ha invece affermato il presidente russo Vladimir Putin. Mentre il ministro degli Esteri Lavrov, rispondendo all’accusa di volere colpire tutti gli oppositori di Assad, ha ribadito che “noi combattiamo lo Stato Islamico, il Fronte al Nusra e i gruppi ad essi associati. Non consideriamol’Esercito Libero Siriano un gruppo terroristico, anzi pensiamo che dovrebbe essere parte della soluzione politica”. In aggiunta, i dati forniti dal Ministero della Difesa sui raid in territorio siriano sono di segno opposto.

Ma la tensione sul piano diplomatico riguarda anche i rapporti con la Turchia. La violazione dello spazio aereo turco, dovuta alle “pessime condizioni meteorologiche” secondo l’Amministrazione russa, ha aperto un fronte con il presidente turco Recep Erdogan, storicamente nemico di Assad e accusato di avere favorito l’ingresso in Siria dei foreign fighters andati a combattere tra le fila del Califfato.

Le giustificazioni del Cremlino sono state respinte sia da Erdogan sia dal segretario generale della NATO Jens Stoltenberg. Proprio una dichiarazione congiunta tra gli Stati membri dell’Alleanza Atlantica, pubblicata il 5 ottobre, ha chiesto “l’immediata cessazione degli attacchi aerei contro l’opposizione siriana e i civili” e ha condannato “la violazione dello spazio aereo turco”.

Questo scontro sul piano diplomatico, tuttavia, potrebbe essere mitigato da un eventuale accordo di cooperazione tra Washington e Mosca. Se la Russia ha deciso autonomamente di intervenire in Siria, l’Occidente, dal canto suo, non è restato fermo a guardare. Gli Stati Uniti sono impegnati nella riconquista militare delle città irachene cadute nelle mani dell’Isis: missione a cui potrebbe prendere parte anche l’Italia. Francia, Australia e Gran Bretagna (in attesa della ratifica del Parlamento) sono invece impegnate con le loro aviazioni militare sul territorio siriano.

La condotta provocatoria della Russia nei confronti di Stati Uniti e Nato celava probabilmente uno scopo: coinvolgere i partner occidentali nella lotta contro lo Stato Islamico. Pur con i distinguo, soprattutto in merito ad Assad, questo scopo sarà forse raggiunto nei prossimi giorni.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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