GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Monia Savioli

Il braccio di ferro fra Erdogan e i curdi

Medio oriente – Africa di

La vita strappata il 13 marzo scorso a 37 persone dall’ennesimo attentato che ha colpito la capitale turca sembra pesare sul nome del gruppo TAK, sigla che indica i Falconi o le Aquile della Libertà curda. Sul sito del gruppo, nato nel 2004 e considerato come una sorta di braccio armato del PKK, il Partito dei Lavoratori Curdi guidato da Abdullah Ocalan, è apparsa la rivendicazione dell’attentato nella giornata del 16 marzo, a qualche giorno dallo scoppio provocato dall’attentatrice suicida.

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L’obiettivo dichiarato dai Falconi erano le forze di sicurezza governative, non i civili, considerati alla stregua di danni collaterali che potrebbero verificarsi nuovamente in vista dei nuovi attacchi promessi. Mentre le attenzioni del PKK sono rivolte ad obiettivi militari e di polizia turca nella parte sud-est del paese, TAK concentra il suo interesse al cuore della Turchia, ad Ankara, sede del potere politico.

Dal luglio 2015, da quando la tregua che nei precedenti due anni aveva reso “vivibili” i rapporti fra governo turco e minoranza curda è saltata dopo la perdita della maggioranza dell’Akp di Erdogan nelle penultime elezioni di giugno poi invalidate, continua a susseguirsi uno scambio di attentati e vittime. La situazione resa ancora più tesa dal coinvolgimento della forza armata dei Peshmarga curdi nella lotta contro Isis in Siria, si sta progressivamente aggravando.

L’attentato del 16 marzo scorso ha provocato, come reazione da parte del governo turco definito fascista dai Falconi della Libertà curdi, una serie di bombardamenti che hanno colpito il villaggio curdo, Sharanish, situato al confine con la regione autonoma del Kurdistan iracheno, nel quale vivono anche cristiani di confessione caldea e assira, e l’area dei monti Quandil a nord dell’Iraq, zona in cui già dal 2011 la Turchia interveniva con attacchi sporadici e nella quale si concentrano le principali postazioni del PKK. Inoltre ha dettato l’aggravarsi delle repressioni nella regione turca di Dyarbakir ad alta concentrazione curda. In totale sono state bombardate 18 postazioni curde mentre oltre 20.000 poliziotti turchi sono stati impiegati per portare avanti una operazione d’urto contro i militanti curdi di una città al confine fra Iran e Iraq, Yuksekova.

L’annuncio formalizzato da Ankara come rivalsa sul terrorismo dilagante è di 45 militanti uccisi e di due depositi di armi oltre a due lanciarazzi distrutti. In poco più di una manciata di giorni, sono in totale 37 più 45, quindi 82 le vittime, senza contare i feriti, provocati del braccio di ferro che oppone Erdogan ai curdi. Un tragico bilancio al quale vanno ad aggiungersi le integrazioni al reato di terrorismo che il premier turco ha annunciato per includere fra i destinatari del capo d’accusa non solo i militanti ma anche coloro che possono essere considerati sostenitori o simpatizzanti del PKK o dei gruppi collegati. Erdogan continua a osteggiare la minoranza curda per vanificare il suo grande timore, la nascita di una forte alleanza fra i curdi siriani e turchi che, forti della posizione raggiunta già da anni dalla componente irachena costituita in Regione Autonoma – il KRG, Kurdistan Regional Government- potrebbe esigere la costituzione di uno stato autonomo.

Una eventualità che andrebbe a contrapporsi al sogno, più grande del timore, di concretizzare rinascita di un Califfato sotto la sua guida.

 

Monia Savioli

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Terrore in Turchia: Curdi o Erdogan?

Medio oriente – Africa di

Due donne, verosimilmente appartenenti a gruppi di estrema sinistra, hanno aperto il fuoco ad Ankara uccidendo due vittime. La notizia è delle ultime ore. Qualche giorno prima, il 17 febbraio, un attentato terroristico ha provocato sempre ad Ankara l’uccisione di 28 persone, per lo più militari ed il ferimento di altre 64.

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Nella mattinata a Diyarbakir, principale città curda nel sud-est della Turchia, un’altra esplosione ha freddato 7 soldati turchi. La paternità, come annunciato direttamente attraverso il sito portavoce, è stata rivendicata dal Kurdistan Freedom Hawks (Tak), gruppo militare curdo. L’attentato suicida organizzato dai Falconi della libertà è stato organizzato per osteggiare quella che viene definita “repubblica turca fascista” e per contrastare le politiche anti curde del presidente Recep Tayyip Erdogan. Il Kurdistan Freedom Hawks si è allontanato nel 2005 dal Pkk, il partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan che, dall’estate scorsa, ha rotto la tregua fino a quel momento stabilita con Ankara.

Il gioco delle elezioni, organizzate a giugno e poi ripetute qualche mese dopo per volere Erdogan, orfano della maggioranza persa grazie all’impennata del partito curdo Hdp di Selahattin Demirtas, ha provocato una nuova frattura. Attentati, persecuzioni, tentativi, riusciti, di imbavagliare la stampa nazionale hanno devastato il paese e confuso la comunità internazionale a proposito della paternità degli stessi. I curdi si dichiarano per lo più estranei, pronti a scaricare la responsabilità degli attacchi a Erdogan che a sua volta li rimbalza su di loro.

Il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu ha coinvolto nelle attribuzioni di responsabilità relative all’attentato anche le Unità di Difesa del Popolo curde, le YPG operative in Siria, che prontamente si sono definite estranee. A parere del Comando Generale delle YPG, l’accusa serve ad Ankara per aprire la strada a un’offensiva nel Rojava e in Siria, dove le forze delle Unità di Difesa del Popolo stanno difendendo i curdi da ISIS e Al-Nusra. Sicuramente l’ attentato del 17 febbraio, ha offerto la possibilità a Erdogan di ribadire ancora una volta ad Obama le sue convinzioni, relative al profilo terroristico del Partito siriano dell’Unione democratica curda (Pyd), al quale l’YPG è legato, insinuando che le armi a loro fornite dalla coalizione vengano prontamente consegnate a Isis. Ciò che in pratica il governo di Ankara pare faccia da mesi. Erdogan vorrebbe che il Pyd fosse inserito da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ma Washington tiene duro e non si piega ai desideri di Erdogan. I curdi, vessati dalla Turchia, sono ora al centro della crisi che sta sconvolgendo il Medio Oriente. La regione autonoma del Kurdistan iracheno vive ancora in uno stato di grazia mentre attorno si sta scatenando l’inferno. Le milizie curde sono impegnate in Siria contro Isis e la coalizione internazionale continua a dare loro fiducia anche per ragioni logistico e tattiche.

I gruppi curdi presenti e operativi in Turchia sono diversi. La sigla più nota è quella del PKK, il partito dei lavoratori curdi e simbolo del movimento separatista che Abdullah Ocalan ha fondato in Turchia. Il Pkk è considerato a tutti gli effetti gruppo terroristico per Stati Uniti, Unione Europea e Turchia. La lotta contro il governo di Ankara ha provocato dal 1980 circa 40.000 vittime. Il testimone è passato oggi a due organizzazioni, il Movimento Patriottico Giovanile, organizzazione paramilitare formata da simpatizzanti del PKK e le Unità di Protezione Civile. Al loro fianco si schierano i Falconi della Libertà, i Tak, un tempo ramo del PKK. A livello politico, i curdi sono rappresentati dall’HDP di Demirtas, il Partito Democratico Popolare, coalizione di sinistra nella quale si riconoscono anche altre minoranze turche, le stesse che hanno decretato il suo successo durante le elezioni, poi invalidate, del giugno scorso nel quale l’AKP di Erdogan ha perso la maggioranza. Gli attentati che hanno insanguinato la Turchia nel periodo trascorso fra i due appuntamenti elettorali, e che Erdogan ha prontamente attribuito ai curdi, ha permesso all’AKP di impossessarsi nuovamente della maggioranza.
In Siria i curdi sono rappresentati dall’Unione Democratica curda, il PYD, che ha ritagliato nel nord del paese una porzione di territorio, il Rojava. I turchi considerano il PYD come il ramo siriano del PKK e sono contrari alla creazione di un corridoio curdo in Siria. Usa e Russia, al contrario, hanno fino ad ora sostenuto l’operato del PYD, che si è rivelato uno degli strumenti più efficaci nella lotta contro i crimini compiuti dallo Stato Islamico. Le Unità di Difesa del Popolo curde, le YPG sono le milizie associate al PYD nelle quali è inserito anche una componente femminile, definite YPJ. Le YPG hanno attirato centinaia di giovani curdi dalle città della Turchia pronte a difendere le roccaforti curde in Siria. E’ su di loro che Ankara ha cercato di attirare le accuse dell’attentato del 17 febbraio scorso poi smentite dallo stesso movimento. Ed è su di loro che i militari turchi dirigono gli attacchi che ufficialmente dovrebbero essere rivolti ai terroristi dell’Isis.
In Iraq i Peshmerga, l’esercito ufficioso della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, hanno svolto un ruolo fondamentale nel tentativo di contrastare la penetrazione dello Stato Islamico. In questa porzione eletta di territorio curdo, continuano a rivaleggiare i due partiti di punta, il democratico PDK e il patriottico PUK. Sulla bilancia degli interessi, i piatti – curdi da un lato e turchi dall’altro – continuano a danzare. La speranza curda è di ottenere vantaggi per coronare il sogno, mai svanito, di riconquistare una patria. La speranza turca è di arrivare a resuscitare i fasti dell’antico impero ottomano. Ma se da un lato i curdi stanno guadagnando con il sangue la fiducia della comunità internazionale, i turchi fanno di tutto per demolire agli occhi della stessa la credibilità curda. In questo clima è lecito pensare a reazioni violente da parte dei curdi, da anni oppressi, ma non esclusive. Erdogan è abituato a costringere quando non riesce a ottenere spontaneamente. E la situazione che in Turchia sta diventando sempre più drastica ne è una prova.

 

Monia Savioli

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Colloqui Usa-Turchia: accordo su tutta la linea

Medio oriente – Africa di

La visita del vice presidente statunitense Joe Biden a Ankara, ha offerto, nei giorni scorsi, una ulteriore conferma a quello che la comunità internazionale aveva già intuito da tempo. I rapporti fra Usa e Turchia sono più che mai solidi. Quello che in parte sfugge è l’operatività che i due stati hanno intenzione di intraprendere verso quello che ufficialmente viene considerato una forza nemica.

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Parliamo ovviamente di Isis. Biden, giunto in Turchia per affrontare con Erdogan proprio il tema delle azioni da intraprendere in Siria per osteggiare il Califfato, ha glissato sulla questione curda, dando di fatto ad Ankara la libertà di adottare le misure ritenute più adeguate, denunciate da un appello sottoscritto da accademici turchi.

Nel documento si fa cenno a persecuzioni e violazioni dei diritti umani inferti agli appartenenti all’etnia curda. I firmatari sono ora soggetti a indagini, controlli e persecuzioni condannati da Biden come attività antidemocratiche, ma in realtà ignorate. Come il traffico illegale continuo di petrolio iracheno e siriano fornito da Isis alla Turchia che raggiunge, sulle navi di proprietà del figlio del leader turco i mercati mondiali per sovvenzionare le attività terroristiche del Califfato. Che la Turchia sostenga il potere conquistato da Isis viene confermato dalle parole pronunciate dal capo dei servizi segreti turchi Hakan Fidan che in una intervista rilasciata il 18 ottobre scorso all’agenzia di stampa turca, Anadoly, ha dichiarato: “L’Emirato Islamico è una realtà e dobbiamo accettare. Non possiamo debellare una istituzione popolare e ben organizzata come lo Stato islamico. Pertanto, esorto i miei colleghi in Occidente a rivedere il proprio modo di pensare a proposito delle correnti politiche islamiche, a mettere da parte la loro mentalità cinica e contrastare Putin che prevede di schiacciare i rivoluzionari siriani islamisti”.

Il prossimo aprile Erdogan riceverà la guida dell’Oic, Organizzazione per la Cooperazione Islamica, fondata nel 1969 da 57 Stati membri, considerata “la voce collettiva del mondo musulmano”. Al momento sono 56 gli associati, gli stessi che hanno formato la “coalizione islamica antiterroristica” spinti dal principe saudita Salman. Tutto fa pensare che Erdogan continui, sempre con maggiore caparbietà, a perseguire il sogno di rifondare il vecchio impero ottomano. Sul suo cammino “il musulmano delle Nazioni Unite” sembra non trovare al momento ostacoli particolari. Non certamente dagli Stati Uniti, interessati più a scalzare Bashar Al Assad, premier siriano, che a contrastare efficacemente il califfato.

 

Monia Savioli

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I curdi all’Europa: riabilitate Ocalan e il Pkk

Medio oriente – Africa di

Un duplice richiamo alla Turchia, affinchè modifichi l’atteggiamento assunto sino ad ora e all’Europa, per invitarla a considerare la questione curda come politica e non terroristica. Il rapporto fra Turchia ed etnia curda è tornato alla ribalta nelle due giornate organizzate a Bruxelles nell’ambito della 12a conferenza internazionale dal titolo “Vecchia crisi-nuove soluzioni. L’Europa, la Turchia, il Medio Oriente e i Curdi” organizzata dalla Turkey Civic Commission in collaborazione con il Kurdish Institute of Brussels nella sede del Parlamento Europeo, a Bruxelles, il 26 e 27 gennaio scorso.

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Il documento di sintesi proposto al termine della due giorni in cui si sono confrontati i vari protagonisti, dal Premio Nobel iraniano Shirin Ebadi, al leader dell’Hdp curdo e membro del parlamento turco Selahattin Demirtas, ha posto l’accento su responsabilità vecchie e future. E, soprattutto, sulla questione curda, ancora drammaticamente aperta unitamente a quella degli orrori causati dalle orde del Califfato.

Il dopo elezioni di giugno in Turchia, si legge nel documento, ha riproposto gli stessi abusi inferti ai diritti umani dei curdi negli anni ’90. Un ritorno al passato sottolineato dall’introduzione di coprifuoco illegali, privazione di acqua, cibo, elettricità e medicine e dall’uccisione di civili scomodi. “Queste misure – si sottolinea nel documento – mostrano un completo disprezzo della volontà democratica del popolo”. L’appello lanciato a “movimenti sociali, sindacati, associazioni professionali, organizzazioni non governative, alleate di governo e governative, istituzioni” riguarda la chiusura delle ostilità fra curdi e turchi, riaccesasi nell’estate scorsa, attraverso la fine di assedi e coprifuoco, l’esclusione di civili e aree residenziali dagli scontri fra forze turche e membri del partito dei lavoratori di Ocalan, il PKK, il rientro di quanti sono stati costretti a fuggire e la condanna dei colpevoli delle violazioni perpetrate a danno dei diritti umani.

La fine del conflitto fra turchi e curdi può tradursi, secondo la risoluzione individuata dalla conferenza, in “un impatto positivo sulla lotta nella regione contro i gruppi jihadisti, come ISIS”. “La Turchia – si legge nel documento – deve smettere di appoggiare i gruppi jihadisti in Siria e deve impegnarsi ad essere un efficace membro della coalizione internazionale contro ISIS. Deve abbandonare le politiche anticurde e lavorare al fianco dei curdi e dell’opposizione democratica siriana per arrivare ad una soluzione politica”. L’Europa viene chiamata in causa e spronata a considerare la questione curda da un punto di vista che escluda la matrice terrorista con cui l’opera del PKK e del suo leader Ocalan è stata bollata.

“L’Unione europea – viene sottolineato – non deve limitarsi a semplici richieste di un cessate il fuoco, ma deve anche essere proattiva nel definire il percorso verso una soluzione pacifica. A questo fine, il PKK, quale parte attiva della soluzione, non deve più considerato come organizzazione terroristica”. Fra le altre richieste individuate anche il rinnovo della Costituzione turca votata nel 1980 a seguito del colpo di Stato militare, la garanzia dei diritti legati alla libertà di pensiero e di espressione, la liberazione dei civili imprigionati e la realizzazione di un corridoio umanitario al confine tra Turchia e Siria.

 

Monia Savioli

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Erdogan e il sogno dell’impero

Medio oriente – Africa di

Si è chiuso così, con un richiamo “mondiale” di Erdogan al rispetto dei risultati raggiunti, il secondo capitolo delle elezioni turche consumato il 1° di novembre. Il clima di terrore innescato dal premier a partire dal 7 giugno, data delle precedenti elezioni annullate per l’impossibilità di creare una coalizione di governo, ha premiato l’AKP tornato in possesso della maggioranza.

 

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Il partito di Erdogan ha ottenuto il 49,4% delle preferenze conquistando 315 seggi su 550, quaranta in più rispetto alla soglia richiesta per governare in autonomia. Il principale partito di opposizione, il CHP, ha terminato la corsa con il favore del 25,4% dei votanti pari a 134 seggi, il nazionalista Mhp con il 12%, equivalenti a 41 seggi mentre l’HDP curdo di Salahattin Demirtas, è riuscito, nonostante le violente interferenze inflitte dal governo, a riconfermare la sua presenza in Parlamento superando, anche se di poco, la soglia del 10% imposta.

 

Nei cinque mesi intercorsi fra i due richiami alle urne, il clima interno del paese è stato messo a dura prova dal braccio di ferro fra AKP e il PKK, il partito dei lavoratori curdi guidato da Ocalan, di cui l’HDP rappresenta il braccio politico. A Diyarbakir, capitale della regione turca a maggioranza curda e roccaforte dell’HDP, si sono consumati attentati e scontri che hanno avuto l’effetto di annullare, per scelta da parte dei vertici del partito, ogni tipo di campagna elettorale. Una decisione sofferta, presa per proteggere le minoranze curde, destinatarie delle repressioni.

 

Correlare quindi i risultati delle ultime elezioni ad una libera scelta di unità nazionale, come sostiene Erdogan, rappresenta una forzatura sulla quale gravano altre tensioni, dal flusso di profughi dalla Siria, alla chiusura di canali televisivi e giornali di opposizione decisa dal premier per reprimere evidentemente la diffusione di opinioni contrastanti. L’ultimo “slogan” politico è stato diffuso subito dopo l’apertura delle urne, quando il governo ha lanciato la notizia dell’uccisione da parte dell’esercito turco di 50 membri dell’Isis in Siria e della distruzione di ben 8 delle loro postazioni. L’intenzione, evidente, era di impressionare in termini positivi non solo l’elettorato ma anche la comunità internazionale, dopo la diffusione, nei mesi scorsi, di ben altre informazioni legate al traffico delle armi dirette al Califfato gestito con leggerezza al confine turco e agli attacchi ufficialmente diretti a Isis ma in realtà concentrati sulle forze combattenti curde opposte ai terroristi.

 

La posizione cruciale occupata oggi dalla Turchia non soltanto per la sua collocazione geografica ma per il ruolo esercitato a livello politico permette a Erdogan quell’ampia possibilità di manovra avallata dai paesi occidentali, Usa in prima fila. La maggioranza ora riconquistata rappresenta per il premier un ulteriore lasciapassare per concretizzare i cambiamenti voluti a livello costituzionale. Erdogan vorrebbe modificare la costituzione dello stato principalmente per riconoscere al presidente poteri più ampi di quelli attuali. Il sogno è di rinverdire gli antichi fasti dell’impero Ottomano.

 

Un piano ambizioso, fermato al momento dalla necessità di trovare alleati che possano affiancare Erdogan nell’impresa. Per cambiare la carta infatti serve l’avvallo di 367 seggi, 52 in più di quanti l’AKP disponga. Dovesse non riuscirci, Erdogan passerà alle consultazioni referendarie aprendo nuovi dubbi a proposito della regolarità delle procedure. Poco importa se gli osservatori europei hanno pesantemente criticato il 1° novembre scorso l’intero processo elettivo dichiarandolo ingiusto.

 

L’Osce, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa” e l’Assemblea parlamentare del consiglio d’Europa, hanno denunciato le violenze e messo in dubbio la liceità del percorso. Erdogan ha reagito chiedendo riconoscimento globale dei risultati ottenuti alla urne e inneggiando contro i ribelli del PKK. I primi effetti delle elezioni sono stati intanto assorbiti dal mercato azionario di Istanbul, salito bruscamente, insieme alle quotazioni della lira turca, dopo i risultati delle urne.

 

Monia Savioli

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Turchia: ingresso nella UE per controllare i rifugiati

Medio oriente – Africa/Varie di

Fino ad ora offrire ospitalità ai rifugiati che ne oltrepassano i confini è costato alla Turchia circa 7 miliardi di dollari. Questo dall’inizio del conflitto siriano. I flussi migratori, con l’inasprirsi delle violenze nella zona medio-orientale, sono enormemente aumentati negli ultimi mesi travolgendo di fatto l’Unione Europea.

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La Turchia svolge anche in questo un ruolo difficilmente sostituibile come interfaccia fra un Medio Oriente dilaniato da crisi e terrorismo ed una Europa che fatica a recepire l’arrivo di migliaia di profughi, fiaccati e spaventati, in fuga da realtà difficili e assurdamente violente. In questo quadro si inserisce l’accordo che avrebbe unito le volontà europea e turca nella gestione dei flussi migratori anche se entrambe ne smentiscono l’ufficialità.

L’unica voce che al contrario conferma l’avvenuto patto è quella della Commissione europea che considera ciò che gli altri definiscono “una dichiarazione di buona volontà”, un accordo di fatto. Le condizioni offerte alla Turchia riguardano aiuti finanziari, un allentamento delle restrizioni sui visti per i turchi e la riapertura della candidatura del paese all’entrata in Europa. In cambio, la Turchia dovrebbe aumentare i suoi sforzi per contenere i rifugiati all’interno dei suoi confini turchi controllando le frontiere, limitando i flussi di rifugiati vero la Ue, dando loro lavoro, e lottando contro i trafficanti.

I primi tentativi di entrare nell’orbita UE sono stati portati avanti da Ankara nel 2000. Le condizioni prospettate dalla Turchia, nonostante fossero migliori rispetto ad oggi per quanto riguarda democrazia e stabilità interna, non erano apparentemente ancora mature, per essere valutate concretamente. In questi anni, molte cose sono cambiate.

La Turchia, con l’arrivo della minaccia islamica rappresentata da Isis, ha assunto per la sua posizione sia geografica, sia politica in quanto paese inserito in ambito Nato, un ruolo importante e, per alcuni versi, determinante. Erdogan sta facendo di tutto per poter sfruttare al meglio la situazione, colpendo i curdi, anzichè i terroristi Isis destinatari delle armi transitate dalle frontiere turche, senza ferire la sensibilità Nato offrendo, dopo lunghe trattative, l’autorizzazione di far partire i raid contro l’Isis dalla base aerea di Incirlik, nei pressi di Adana.

Ora, l’entrata nell’UE sembra essere una nuova merce di scambio oltre ovviamente ai 3 miliardi di dollari chiesti da Ankara per la gestione dei rifugiati. Il denaro in realtà sembra ancora essere in fase di negoziato sia per gli importi, sia per le modalità di versamento, probabilmente scaglionate su più anni. Al momento comunque, sembrano essere rimasti in sospeso tanto l’inserimento della Turchia nella lista dei ‘paesi sicuri’, quanto l’apertura di 6 capitoli del negoziato per l’adesione, sui quali grava il veto di Cipro e Grecia.
Monia Savioli

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Braccio di ferro con il terrore

Medio oriente – Africa di

L’attentato contro il corteo pacifista che il 10 ottobre scorso ha provocato ad Ankara 95 morti e 246 feriti ha avuto un effetto importante: la sospensione da parte delle forze politiche curde di qualsiasi attività fino alle elezioni di domenica 1° novembre.

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Da quando l’appuntamento elettorale del giugno scorso ha restituito forza al partito curdo dell’Hdp e tolto la maggioranza assoluta all’AKP di Erdogan, la Turchia è divenuta teatro di episodi violenti, finalizzati a interrompere i colloqui di pace che dal 2012 erano in corso con il PKK, il Partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan e identificato come forza terroristica. L’impossibilità di formare un governo per il disaccordo maturato fra le parti ha volutamente motivato, da parte di Ergodan, il ritorno alle urne destabilizzando l’equilibrio interno. Il governo di Ankara ha stretto in una morsa di violenza le zone a maggioranza curda, provocando la dura risposta del PKK ritenuto responsabile di alcuni degli attentati che hanno insanguinato la Turchia.

Le conseguenze hanno oltrepassato i confini nazionali. Nella guerra contro Isis, le forze militari turche si sono accanite più contro i miliziani curdi, alleati Usa nella lotta contro il califfato, che verso i terroristi dello stato islamico. Nessuna ammissione era mai trapelata dal governo di Ankara fino alle recenti dichiarazioni del Primo Ministro turco, Ahmet Davutoglu, che ha confermato gli attacchi militari contro le forze curde nel nord della Siria.

La versione offerta alla platea internazionale racconta della necessità evidenziata dalla Turchia di proteggere i confini nella zona Ovest dell’Eufrante minacciati dai curdi dell’YPG, sigla che identifica le forze combattenti del PDK, il Partito Democratico curdo, alleate degli Stati Uniti. In realtà il doppio attacco subito dai curdi si è verificato nella città araba di Tal Abyad, strappata ai miliziani dell’Isis, nella zona ad Est del fiume, quindi esattamente all’opposto.

La situazione divenuta con l’avvicinarsi delle elezioni sempre più delicata, è stata affrontata dall’Hdp con estrema cautela. L’ufficio elettorale di Selahattin Demirtas, co-presidente del partito, è allestito in un piccolo locale della periferia popolare di Istanbul, privo di bandiere per evitare che la sede venga presa di mira e possa provocare conseguenze ai residenti. Il mese scorso, negozi gestiti da curdi e uffici dell’Hdp sono stati presi di mira da violenze e distruzioni di ogni genere.

La mano pesante di Erdogan ha colpito, nel tentativo di arrivare di nuovo alla maggioranza assoluta, tutte le possibili espressioni di critica nei confronti della politica dell’AKP. I media indipendenti hanno subito forti pressioni e ridimensionamenti se non la chiusura definitiva. I canali social sono regolarmente minacciati e ridotti. Tante, nella disperata corsa al potere, sono le cause giudiziarie intraprese nei confronti di quanti sono ritenuti responsabili di offese espresse, verbalmente o in qualsiasi altra modalità, contro Erdogan, come successo ad uno studente reo di aver pubblicato frasi non gradite sulla pagina di Facebook.

Il quotidiano turco Hürriyet è stato oggetto di violenze di massa dopo l’accusa di aver diffuso menzogne. L’elenco delle violenze rivolte alla stampa e ai suoi referenti si allungano includendo casi ancora da chiarire. Rientrano nella lista la morte di Jacky Sutton, ex inviata di guerra per la Bbc, trovata morta il 19 ottobre scorso nella toilette dell’aeroporto Ataturk di Istanbul dove stava aspettando il volo per Erbil, e la scomparsa di Serena Shim, giornalista trentenne, alle dipendenze di Press Tv, rimasta uccisa il giorno dopo, in Turchia, vicino al confine con la Siria a causa di incidente d’auto.

La Shim stava rientrando in albergo dopo aver lavorato a Suruc, nella provincia turca di Sanliurfa, consapevole di essere nel mirino dell’intelligence turca in riferimento ad alcuni reportage dedicati all’ambigua posizione turca nei confronti della lotta all’ Isis nella zona di Kobane. I sondaggi prodotti fino ad ora non lasciano apparentemente molte possibilità all’AKP di rientrare in possesso della maggioranza assoluta. Gli esiti del 1° novembre ci riveleranno il vero peso del terrore.
Monia Savioli

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Siria: l’utilizzo dell’acqua come arma

Difesa/Medio oriente – Africa di

Anni di guerra feroce e di una mancanza di investimenti e manutenzione hanno preso un pedaggio grave su infrastrutture idriche in tutta la Siria. Anni di guerra e di mancata manutenzione hanno influito negativamente su tutta la rete idrica siriana.

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Il conflitto ha reso inevitabile che l’acqua fosse disponibile solo a intermittenza dove possibile o semplicemente indisponibile in tante aree di conflitto. I Siriani hanno dovuto adattarsi ricorrendo ai vecchi pozzi, all’acqua in bottiglia o attingendo alle risorse dei fiumi utilizzando acqua non depurata.

Le organizzazioni umanitarie tentano di arginare il problema cercando di fornire acqua potabile ma gran parte della popolazione ha un accesso molto limitato alle condutture municipali. Non sorprende che in questo contesto crescano le malattie visto che le persone sono sempre di più esposte ad agenti patogeni di origine idrica.

In Siria anche l’acqua può diventare uno strumento di guerra, anche se raramente decisiva, utilizzando le risorse di accumulo idriche per bloccare vie di accesso ai campi di battaglia o trattenuta nelle dighe per isolare intere zone questo uso ha però degli effetti indiscriminati. Soprattutto per questo motivo, ci sono state numerose intese locali tra forze ribelli e governative per mantenere le infrastrutture acqua corrente per sostenere le popolazioni civili. Ad esempio, sia lealisti e ribelli hanno a lungo mantenuto accordi dentro e intorno alle città di Aleppo e Damasco per cui l’acqua continuerà a scorrere, spesso in cambio di promesse di cessate il fuoco.

Lo Stato islamico, al contrario, ha volontariamente violato dighe o sistemi idrici in overflow nelle regioni militarmente strategica, in modo più evidente in Iraq. Ma anche lo Stato islamico ha in gran parte cercato di mantenere flussi di acqua per sostenere i suoi sforzi per svolgere il ruolo di un governo.

Ci sono tre aree principali di debolezza in Siria che potrebbero essere facilmente sfruttatate. Qualsiasi interferenza attuata sulle stazioni di pompaggio di Aleppo, il Tabqa diga lungo il fiume Eufrate e il flusso d’acqua a Damasco dalle montagne Qalamoun – soprattutto dalla sorgente di Wadi Barada, a nord e ad ovest – potrebbero alterare drasticamente l’approvvigionamento idrico in Siria .

La penuria di carburante ostacola l’efficacia e la produttività delle stazioni di pompaggio esistenti, riducendo il loro deflusso. La diga di Tabqa genera elettricità e assicura che il Lago Assad rimanga a livelli sostenibili; priorità nella fornitura di energia elettrica viene assicurata per la  preservazione dell’acqua può causare un calo insostenibile del livello del lago di Assad, minacciando la sua capacità a lungo termine per fornire acqua.

Infine, Wadi Barada si trova in una zona contesa tra i ribelli e lealisti forze, e potrebbe essere facilmente sfruttato e utilizzato come strumento di conflitti futuri.
Monia Savioli

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Yarmouck: oltre 1000 giorni di terrore

Medio oriente – Africa di

Il campo profughi siriano, dal 2012 obiettivo di violenze

Erano 12 i campi profughi palestinesi allestiti in Siria e distribuiti fra Damasco, Aleppo e Homs. Quello di Yarmouk, l’enorme buco nero a 8 km dalla capitale che tutto inghiotte e ben poco restituisce, era il più grande. 160.000 i profughi accatastati in quel groviglio di costruzioni, finestre e stradine larghe appena per far transitare un uomo. Dal 2011 quei campi profughi sono un obiettivo.

Comunque si chiami l’aggressore, il risultato è una sequela infinita di orrori, inflitti e provocati. Talal Naji, Presidente dell’Associazione Palestinese di Damasco, raccontava nel gennaio 2014 che Hamas, il movimento islamico palestinese, aveva intimato ai ribelli di uscire dal campo di Yarmouk. Quello che succede in quel campo, a distanza di oltre un anno, fa raccapricciare il mondo. I media stanno definendo questa recrudescenza “una nuova Srebrenica”, accorgendosi come sempre in ritardo, ma in tempismo perfetto per cavalcare l’audience, di quanto la sofferenza permei quelle mura. “A Homs i nostri profughi sono riusciti a proteggersi, armati di bastoni e sassi – raccontava un anno fa Talal Naji. A Daraa le cose erano andate in modo diverso. In quel campo, i 12.000 profughi, i primi ad essere colpiti nel 2011, sono stati costretti ad uscire mentre alle loro spalle i pochi averi accumulati venivano depredati e distrutti.

L’orda terrorista è avanzata ancora un pò verso nord, mietendo un altro campo da 6.500 profughi. E poi altri, fino a Yarmouck. “Abbiamo provato a proteggerlo nonostante i continui tentativi dei ribelli di entrare – raccontava. “Poi nel dicembre del 2012 la nostra resistenza è stata spazzata via. I ribelli sono entrati, hanno distrutto le case, rubato tutto quello che era possibile portare via. Hanno tolto le finestre, i fili elettrici, tutto, anche le piastrelle. Hanno ucciso. E violentato le donne. Per questo in tanti sono fuggiti. Dei 160.000 palestinesi che vi abitavano un tempo, ne sono rimasti 20.000”. I più fortunati sono riusciti a trovare rifugio nelle scuole trasformate in campi di accoglienza temporanei, altri sono andati in Libano, Egitto, Gaza, Giordania ed anche Europa.

Dopo vari tentativi di liberare il campo attraverso l’utilizzo di vie diplomatiche che hanno coinvolto anche Hamas, nell’agosto del 2013, è  stato deciso l’intervento della forza armata da parte del Movimento popolare di liberazione dei campi palestinese. “Siamo riusciti a far uscire un 30% di ribelli. Poi ci siamo fermati su richiesta dei profughi per evitare altri spargimenti di sangue. Alcuni gruppi di Abu Mazen ci hanno sostenuto mentre il governo siriano ha accettato di inviare alimenti all’interno del campo. Ma gli aiuti sono stati fermati dai ribelli”. Il termine ribelli all’epoca includeva una serie di identità, cellule di Al Qaeda, prime espressioni di Daesh-Isis, frange di eserciti liberi come i Leoni Siriani o i seguaci armati di Eben Taimia.

Nel frattempo i profughi hanno iniziato a morire anche per fame. Cinquanta fino al gennaio dello scorso anno. Lo strozzinaggio applicato sui beni alimentari ne moltiplicava il prezzo fino al 150%. Una confezione di pane costa 15 lire siriane. Dentro al campo ne poteva costare anche 2.500. Alle morti per stenti si aggiungevano quelle violente. Chi non era riuscito a fuggire era intrappolato e diviso dall’esterno da un muro invisibile ma più impenetrabile di qualsiasi barriera. Un punto di primo soccorso era allestito con tre letti e pochissimi medicinali, in fondo ad una scala che conduce ad uno scantinato. Insufficiente per rispondere anche a poche richieste di aiuto.

Emmammar è riuscita a scappare dalla sua casa di Yarmouck quando i ribelli sono entrati. “Abbiamo preso i vestiti e siamo fuggiti. Vivevamo lì da due generazioni. Non abbiamo visto chi erano e da dove arrivassero gli spari. Quando li abbiamo sentiti  siamo scesi subito in strada. I passaggi erano ancora aperti – continua. “Ci siamo lasciati tutto alle spalle. E’ impossibile tornare”.  Dopo Yarmouck, Emmammar aveva trovato rifiuto a Sumaja, campo di accoglienza allestito  a Ovest di Damasco nei locali di una ex scuola, dove nel gennaio 2014 vivevano 229 persone, 44 famiglie in tutto, in spazi angusti ma sufficienti in attesa di condizioni migliori. Ora Yarmouck vive nuove stragi, nuovi orrori, che non si sono interrotti da almeno tre anni a questa parte. Oltre 1.000 giorni di paura, ansia, terrore. Continuo e implacabile.

 

Monia Savioli

L’Europa dice basta all’elusione fiscale.

ECONOMIA di

E’ sulla trasparenza che si gioca il futuro della fiscalità in ambito UE. Il pacchetto di misure varato dalla Commissione europea per contrastare l’elusione fiscale punta sullo scambio automatico di informazioni relative agli accordi fiscali anticipati definiti fra Stati e imprese, i cosiddetti tax ruling.

 

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Le falle del sistema di condivisione dei dati fra i paesi membri, fino ad ora discrezionale, e la complessità delle norme fiscali, hanno permesso alle multinazionali di muoversi in modo da spostare i profitti nelle filiali in cui la tassazione è inferiore, privando i vari bilanci pubblici di miliardi di euro ogni anno. Le stime arrivano direttamente dalla Commissione Europea che ha deciso di dire basta al sistema, peraltro supportato da alcuni Paesi interessati ad attrarre grandi aziende sul loro territorio tramite le agevolazioni concordate nei tax ruling. Parola chiave delle misure fissate dal pacchetto presentato di recente, è appunto, la trasparenza raggiunta introducendo l’obbligatorietà dello scambio di informazioni fra paesi. “Ognuno deve pagare la giusta quota di tasse. Questo principio – ha dichiarato il Vicepresidente Valdis Dombrovskis, responsabile per l’Euro e il dialogo sociale – vale per le multinazionali come per tutti gli altri. Con la proposta sullo scambio automatico di informazioni le autorità fiscali sarebbero in grado di individuare più efficacemente lacune in materia fiscale o duplicazioni di imposta tra gli Stati membri. Nei prossimi mesi proporremo azioni concrete per porre rimedio a tali lacune o duplicazioni. Ci impegniamo a dare seguito alle promesse con azioni reali, credibili ed eque”. In pratica ogni Stato dovrà inviare agli altri Paesi a scadenza trimestrale una relazione riassuntiva delle decisioni fiscali emesse rendendosi disponibile ad offrire approfondimenti. L’entrata in vigore del pacchetto di norme, ora sottoposto all’attenzione del Parlamento europeo per la consultazione e al Consiglio Europeo per l’adozione, è prevista a partire dal gennaio 2016. “Non possiamo più tollerare le società che evitano di pagare la loro giusta quota di tasse e i regimi che consentono loro di farlo – ha sottolineato Pierre Moscovici, Commissario europeo per gli Affari economici e finanziari, la fiscalità e le dogane, ha dichiarato: Bisogna ricostruire il nesso tra il luogo in cui le società realizzano effettivamente gli utili e il luogo in cui sono tassate. Per conseguire questo obiettivo gli Stati membri devono dare prova di apertura e lavorare insieme”. Altre misure contenute nel pacchetto riguardano l’introduzione di eventuali ulteriori obblighi di trasparenza per le multinazionali, la revisione del codice di condotta sulla tassazione delle imprese che rappresenta uno dei principali strumenti dell’UE per garantire condizioni eque di concorrenza in materia di imposta sulle società, quantificare l’entità dell’evasione e dell’elusione fiscali e l’abrogazione della direttiva sulla tassazione dei redditi da risparmio. Prossima tappa dell’impegno formalizzato dalla Commissione europea è la presentazione, prima dell’estate, di un piano d’azione inerente la tassazione delle imprese con l’obiettivo di rendere più equa ed efficiente l’imposta sulle società all’interno del mercato unico.

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Monia Savioli
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