GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Libertà d’espressione

Il grande fratello sulle notizie, il caso Khashoggi

MEDIO ORIENTE di

Giornalisti e persone che lottano per i diritti umani sotto scorta, che subiscono minacce di morte o che subiscono violenze fisiche e verbali. Irruzioni dentro le case per rubare computer o documenti confidenziali. Persone che vengono schiaffeggiate o colpite da una testata davanti ad una telecamera mentre fanno domande. Persone che molti vorrebbero solo mettere a tacere facendogli mangiare fogli di carta. Criminalizzazione dei media e dei giornalisti che “non piacciono” a un determinato schieramento o pressioni politiche.  Questa è la situazione di attivisti o giornalisti in tutto il mondo e anche quando le maglie della giustizia si stringono addosso ai colpevoli, spesso, arrivano gli insulti, le fake news, le minacce o gli auguri di morte da parte di esponenti o simpatizzanti di una forza politica. In questi contesti non si sa dove sia lo stato, se ci sia e da che parte sia. Molti giornalisti scelgono l’autocensura per non finire in prigione o per salvare il proprio posto di lavoro ma c’è chi ancora, in un momento di “relazione complicata con le notizie”, combatte per un diritto che dice che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere” (art. 19 DUDU).

 

     Nel pomeriggio del 2 ottobre un cittadino saudita si è recato al consolato saudita di Istanbul per chiedere i documenti necessari per il matrimonio. Per farlo ha preso la precauzione di lasciare i telefoni alla sua fidanzata dicendola di chiamare le autorità se non fosse tornato entro 2 ore. Non si sono più visti, lei lo ha aspettato 12 ore fuori dal consolato. Quel cittadino era Jamal Khashoggi, giornalista saudita che ha collaborato con diversi giornali in lingua araba e in lingua inglese in Arabia Saudita anche prestando servizio come redattore capo del quotidiano saudita al-Watam, di proprietà di un membro della famiglia reale. Nel settembre 2017 fuggì dall’Arabia Saudita, temendo l’arresto. Poco dopo la sua partenza, le autorità saudite hanno arrestato dozzine di importanti dissidenti, intellettuali, accademici e religiosi. Dalla fine del 2017 Khashoggi ha regolarmente partecipato a eventi pubblici a Washington e ha scritto colonne per The Washington Post in cui criticava la crescente repressione dei dissidenti in Arabia Saudita . Lo scorso 3 ottobre l’Arabia Saudita ha negato di averlo arrestato con una dichiarazione tramite l’agenzia governativa saudita, mentre nello stesso giorno il portavoce della Turchia ha dichiarato durante una conferenza stampa:  “Le informazioni che abbiamo sono che il cittadino saudita in questione è ancora nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul”.

L’Arabia saudita permette solo i media non indipendenti e tollera i partiti politici non indipendenti. Ad oggi, nel paese vi è un elevato livello di autocensura poiché vi sono gravissimi rischi, sia per i giornalisti che per i cittadini, per ogni commento critico di far partire l’ordine di arresto ai sensi della legge contro il terrorismo o ai sensi della legge per il cyber-crimine. Le accuse potrebbero essere quelle di blasfemia, insulti alla religione, incitamento al caos o di minaccia all’unità nazionale. Dal settembre 2017 più d 15 persone sono state arrestate e nella maggior parte dei casi gli arresti non sono stati confermati ufficialmente se non dopo la certezza della condanna. Questo è stato il caso di persone come Saleh El Shihi, Esam Al Zamel, Turad Al Amri o Fayez Ben Damakh e altre persone come le attiviste per i diritti delle donne Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan e Aziza al-Yousef. Persone che sono arbitrariamente detenute da mesi,  senza accusa, e che rischiano, insieme ad altri detenuti, lunghe pene detentive se non addirittura la pena di morte per aver esercitato in forma pacifica i loro diritti alla libertà di espressione, di associazione e di manifestazione. Per questo le autorità turche dovrebbero prendere provvedimenti per impedire agli agenti sauditi di rimpatriare con la forza Khashoggi in Arabia Saudita. Se rimpatriato forzatamente lì, Khashoggi si troverebbe di fronte al rischio reale di un processo iniquo e di una lunga detenzione.

     A questo proposito il Comitato per la protezione dei giornalisti, Human Rights Watch, Amnesty International e Reporter senza frontiere hanno sollecitato la Turchia a chiedere al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che sia svolta un’indagine Onu sulla possibile esecuzione extragiudiziale del noto giornalista saudita Jamal Khashoggi. Robert Mahoney, vicedirettore generale del Comitato per la protezione dei giornalisti ha dichiarato che “La Turchia dovrebbe chiedere alle Nazioni Unite di avviare un’indagine tempestiva, credibile e trasparente. Il coinvolgimento dell’Onu è la migliore garanzia contro ogni insabbiamento da parte saudita o i tentativi di altri governi di nascondere questo caso sotto il tappeto al fine di mantenere i lucrosi legami economici con Riad”. Le autorità turche hanno annunciato di aver avviato un’indagine il giorno stesso della sparizione di Khashoggi. In tale ambito, il 15 ottobre hanno perquisito il consolato saudita di Istanbul. Alcune informazioni sono filtrate o sono state condivise con i media turchi, tra cui quella riguardante l’esistenza di registrazioni audio e video che dimostrerebbero che Khashoggi è stato ucciso all’interno del consolato. Lo stesso 15 ottobre il re dell’Arabia Saudita ha ordinato al procuratore generale di aprire un’inchiesta sulla sparizione di Khashoggi. Dato il possibile coinvolgimento di autorità saudite nella vicenda e la mancanza d’indipendenza della magistratura del paese, vi sono forti dubbi sull’imparzialità di un’inchiesta del genere. Le autorità turche ritengono che Khashoggi sia stato ucciso, e il suo corpo sia stato smembrato, da agenti sauditi all’interno del consolato.

La Turchia, l’Arabia Saudita e tutti gli altri stati membri delle Nazioni Unite dovrebbero cooperare in pieno con l’indagine Onu onde assicurare che questa abbia tutto il sostegno e l’accesso necessari per scoprire cosa è accaduto a Khashoggi. Per facilitare l’indagine, l’Arabia Saudita dovrebbe rinunciare alle protezioni diplomatiche – come l’inviolabilità dei luoghi ritenuti importanti nell’indagine e l’immunità dei suoi funzionari – previste dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963. È quanto del resto ha chiesto la stessa Alta commissaria Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet. Inoltre la Turchia dovrebbe fornire tutte le prove, comprese le registrazioni audio e video che funzionari turchi hanno ripetutamente detto ai giornalisti di avere e che confermerebbero l’avvenuta uccisione di Khashoggi all’interno del consolato.

Il caso di Khashoggi ci dovrebbe ricordare l’importanza del diritto all’informazione e alla libertà di stampa. Ci dovrebbe ricordare come il “grande fratello” del controllo agisce ovunque e in diversi modi, sia a livello istituzionale che nella società. Per il caso Khasoggi Amnesty International ha lanciato un appello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Egitto, una prigione a cielo aperto

AFRICA di

In Egitto le autorità fanno ricorso a torture, sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali e ogni tipo di maltrattamento. Vengono colpite persone critiche verso il governo, manifestanti pacifici, giornalisti, difensori dei diritti umani e personale delle ONG con interrogatori, divieti di viaggio, congelamento dei beni, detenzioni arbitrarie e processi gravemente iniqui. Recentemente Amnesty International ha chiesto l’immediata e incondizionata scarcerazione di tutte le persone imprigionate in Egitto per aver espresso pacificamente le loro opinioni poiché al crescente malcontento per la situazione economica e politica, il governo sta rispondendo con un giro di vite di una gravità senza precedenti. Dal dicembre 2017 Amnesty International ha documentato i casi di almeno 111 persone arrestate dai servizi di sicurezza solo per aver criticato il presidente al-Sisi e la situazione dei diritti umani nel paese mentre almeno 35 persone sono state arrestate per accuse quali “manifestazione non autorizzata” e “adesione a un gruppo terroristico” per aver preso parte a una piccola protesta pacifica contro l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana. Tra le persone perseguitate vi sono anche autori comici e di satira che sono  stati arrestati dopo aver pubblicato online commenti spiritosi e che dovranno rispondere delle accuse di “violazione della pubblica decenza” o di altre imputazioni definite in modo vago. Tra aprile e settembre 2017, le forze di sicurezza hanno arrestato almeno 240 attivisti politici e manifestanti per accuse legate ad alcuni post pubblicati online, che le autorità avevano ritenuto “ingiuriosi” nei confronti del presidente o per avere partecipato a eventi di protesta non autorizzati. Inoltre le autorità hanno bloccato almeno 434 siti web, compresi quelli di alcuni notiziari indipendenti come Mada Masr e di alcune organizzazioni per i diritti umani come la Rete araba per l’informazione sui diritti umani mentre molti giornalisti sono stati condannati a pene detentive per accuse riconducibili esclusivamente al loro lavoro come “diffamazione” o per quelle che le autorità consideravano “informazioni false”. Najia Bounaim, direttrice delle campagne sull’Africa del Nord si Amnesty International, ha dichiarato che “in Egitto al giorno d’oggi criticare il governo è più pericoloso che in ogni altro momento della recente storia del paese. Sotto la presidenza di al-Sisi chiunque esprima pacificamente le sue opinioni è trattato come un criminale. I servizi di sicurezza stanno chiudendo senza pietà qualsiasi spazio indipendente politico, sociale, culturale rimasto in attività. Queste misure, più estreme persino di quelle adottate nel repressivo trentennio della presidenza di Hosni Mubarak, hanno trasformato l’Egitto in una prigione a cielo aperto per chi critica le autorità”.

     Il parlamento ha recentemente adottato, senza consultare la società civile o le organizzazioni di giornalisti e con la scusa delle “misure anti-terrorismo”, una nuova legge che autorizza la censura di massa nei confronti di portali informativi indipendenti e delle pagine Internet di gruppi per i diritti umani. Bounaim ha continuato dicendo che “l’amministrazione del presidente al-Sisi sta punendo l’opposizione pacifica e l’attivismo politico con pretestuose leggi contro il terrorismo e altre norme vaghe che qualificano come crimine qualsiasi forma di dissenso. L’ultima legge sui crimini a mezzo stampa e informativi ha reso pressoché assoluto il controllo delle autorità egiziane sulla stampa offline e online e sui mezzi radio-televisivi. Nonostante l’attacco senza precedenti alla libertà d’espressione e il fatto che ormai la paura sia diventata una sensazione quotidiana, molti egiziani continuano a sfidare la repressione rischiando di perdere la libertà. Ecco perché Amnesty International mobiliterà i suoi sostenitori nel mondo affinché esprimano la loro solidarietà a tutti gli egiziani in carcere solo per aver espresso le loro opinioni: devono sapere che non sono soli!”.

Amnesty International chiede alle autorità egiziane di rilasciare tutte le persone che si trovano in carcere solo per aver espresso pacificamente le loro opinioni, di porre fine alla repressiva campagna di censura nei confronti dei media e di abolire le leggi che rafforzano la presa dello stato sulla libertà d’espressione. Le continue e ingiustificate misure adottate dalle autorità egiziane per ridurre al silenzio le voci pacifiche hanno spinto centinaia di attivisti e di esponenti dell’opposizione a lasciare il paese, onde evitare di finire arbitrariamente in carcere. Ma tante altre persone continuano coraggiosamente a prendere la parola contro l’ingiustizia all’interno del paese.

Rainer Maria Baratti
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