GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Isis - page 6

L'Isis conquista la città di Palmira

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Inarrestabile la marcia dell’Isis che dopo aver conquistato la citta’ di Palmira muove verso Bagdad .

il califfato si dirige verso le due capitali damasco in Siria e Bagdad in Iraq con l’obiettivo di far cadere i due governi e instaurare il califfato nero

Ma intanto anche i qaedisti del Fronte al Nusra, insieme ad altri gruppi armati fondamentalisti, hanno inferto un altro duro colpo alle forze siriane, occupando un ex ospedale trasformato in caserma nella citta’ Nord-Occidentale di Jisr al Shughur, dove erano assediati da settimane 200 soldati, la cui sorte rimane per ora sconosciuta

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Kobane: da simbolo di resistenza a simbolo di rinascita

Medio oriente – Africa di

Ora che i riflettori mediatici su Kobane si sono spenti, mentre altre zone intorno alla città vengono lentamente liberate dall’assedio di ISIS, è ancora più importante monitorare la situazione, per capire quali interventi è possibile mettere in campo per sostenere concretamente la ricostruzione della città e la ripresa della vita, che è comunque già cominciata.

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Più di 200.000 persone, durante l’assedio della città, si sono riversate oltre il confine turco-siriano, dislocandosi fra i campi approntati dalle municipalità locali, soprattutto a Suruç, e i campi ufficiali del governo turco. Questi ultimi, dopo aver constatato come venivano gestiti, ossia in maniera autoritaria e vietando perfino l’istruzione in curdo ai bambini, imponendo la lingua turca a persone che conoscevano solo il curdo e l’arabo, si sono spesso allontanati per l’impossibilità di vivere in quelle condizioni, riversandosi nei campi gestiti e sostenuti dalle municipalità a maggioranza curda.

I campi “autogovernati” non hanno però potuto contare sul sostegno internazionale, a causa dell’embargo de facto contro l’intero cantone causato soprattutto dall’opposizione del governo turco; ma hanno rappresentato e tutt’ora rappresentano una risposta concreta ed efficace alla domanda dei profughi, che già all’indomani della liberazione della città hanno cominciato a voler rientrare a Kobane, dapprima in piccoli gruppi, via via sempre più consistenti. Se ne contano attualmente circa 85.000.

kobane2Numerosi problemi li hanno attesi al loro rientro: dalle mine inesplose che i miliziani di ISIS ha lasciato dietro di sè, per ostacolare la ripresa della vita in città, alla totale distruzione lasciata sul terreno da quattro mesi di scontri violentissimi e di bombardamenti effettuati dalla coalizione. Numerosi civili hanno trovato così la morte dopo la liberazione della città, a causa delle mine o per l’impraticabilità di alcune zone; inoltre sono presenti ancora numerosi corpi non sepolti di miliziani di ISIS sotto le macerie, fatto che rischia – con l’aumento delle temperature dovuto all’arrivo della primavera – di provocare pericolose epidemie.

E’ necessario dunque agire con urgenza per mettere in sicurezza la città e consentirne la ricostruzione e il ripopolamento: ecco perchè è tutt’ora fondamentale l’apertura di un corridoio umanitario al confine, a cui la Turchia continua ad opporsi, che permetta il passaggio di materiali per la ricostruzione, di equipaggiamento sanitario, di personale medico e tecnico che contribuisca alla soluzione di questi problemi, di vestiti, medicinali, e tutto quanto serva. Occorre disinnescare le mine, ripristinare una fornitura regolare di energia elettrica e di acqua, ricostruire le case e le altre infrastrutture (l’80% della città è stato distrutto).

Un appello urgente è stato lanciato dal Comitato per la ricostruzione di Kobane, rapporto che contiene nel dettaglio la stima dei danni e delle necessità urgenti per permettere il rientro dei profughi, e che individua tra l’altro tra le priorità la costruzione di un campo profughi temporaneo di almeno mille tende, con servizi igienici, quattro scuole e due punti di assistenza sanitaria (http://helpkobane.com/it/wp-content/uploads/sites/6/2015/04/IT-Kobane-Report.pdf). Tutto questo per consentire l’avvio di tutte quelle azioni che possano ricostruire il tessuto sociale ed economico della città, dall’agricoltura all’allevamento al commercio, dalla costruzione delle fogne al ripristino delle fonti energetiche (http://helpkobane.com/it/wp-content/uploads/sites/6/2015/04/IT-Kobane-Report-II.pdf).

kobane (3)E’ il minimo che si possa fare per riconoscere la resistenza del popolo di Kobane che è costata più di mille morti in quattro mesi, e che è stata ed è una lotta per l’umanità. Diversi gruppi di attivisti e di semplici cittadini in vari paesi, tra cui l’Italia, stanno dando il loro contributo, organizzandosi per raccogliere fondi e materiali e realizzando progetti di cooperazione dal basso per rispondere ad alcune di queste esigenze (http://www.helpkobane.com/ o http://www.mezzalunarossakurdistan.org ): ma la “comunità internazionale” non sembra darsi da fare con lo stesso impegno.

Nonostante le analisi e le prese di posizione di organismi internazionali come l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e la sicurezza sulla Siria, il Consiglio d’Europa a marzo, il Parlamento Europeo ad aprile, così come dopo le missioni sul campo di Organizzazioni non governative che si occupano di messa al bando delle mine, di ricostruzione e di salute, nulla ancora sembra muoversi.

Inoltre, l’avvicinarsi delle elezioni legislative in Turchia il prossimo 7 giugno, strategiche per il progetto di presidenzialismo perseguito da Erdogan e dal suo partito, sta acuendo la tensione e mostrando di nuovo il vero volto dell’AKP, il partito di governo, che invece di occuparsi dei problemi dei curdi, è impegnato piuttosto ad alzare il livello della tensione continuando a negare l’apertura di un corridoio umanitario e organizzando provocazioni per avvantaggiarsi dei voti nazionalisti.

Il forte entusiasmo che sta suscitando il nuovo partito HDP (Partito democratico dei Popoli), che propone una politica nuova rispettosa dei diritti di tutte le minoranze (dunque non solo dei kurdi), dei giovani, delle donne, ispirata a principi ecologici, sembra indicare che esso riuscirà a superare l’odiosa e antidemocratica soglia di sbarramento del 10% per entrare in parlamento: se questo accadrà, il gruppo di parlamentari dell’HDP potrà lavorare con più forza alla democratizzazione della Turchia, ma anche all’apertura del corridoio umanitario e alla ricostruzione di Kobane, nonché alla risoluzione democratica della questione kurda e dunque a una stabilizzazione della regione, che potrà avere effetti positivi su tutta l’area mediorientale ancora così piegata da guerre e dittature.

E’ importante che anche in questa occasione osservatori internazionali si rechino in Turchia per monitorare il processo elettorale: potrebbero verificarsi brogli come in passato, perchè le forze che si oppongono al cambiamento e alla pace hanno sempre cercato di impedire alla popolazione di esprimersi liberamente, sfruttando tutti i mezzi per impedire ai kurdi di superare la soglia del 10% (http://www.uikionlus.com/apello-per-elezioni-7-giugno-in-turchia/).

In conclusione: la strada è ancora lunga, ma forse davvero la città di Kobane, dopo essere diventata simbolo di resistenza per il mondo intero, può diventare simbolo di rinascita e di pace anche grazie al sostegno e all’attenzione internazionale.

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di Suveyda Mahmud

Niente Newroz pensando alle combattenti

Medio oriente – Africa di

Nessun festeggiamento per il Newroz, il capodanno curdo, celebrato ogni 21 marzo. I rappresentanti del Governo Regionale del Kurdistan iracheno in Italia annunciano che la ricorrenza sarà sostituita, nella sede romana, da un momento di riflessione dedicato alle donne combattenti. “Non possiamo festeggiare pensando alle donne, madri e sorelle che con coraggio affrontano ogni giorno la vita di combattenti senza dimenticare la famiglia – sottolinea l’altro rappresentante del KRG (Kurdistan Regional Government) Rezan Kader. “Ho incontrato una madre, impegnata da sola a crescere i figli ed anche i nipoti lasciati dal primogenito, morto come il marito in combattimento, per sostenere la nuora impegnata a lottare. Le donne curde hanno dimostrato da tempo di saper combattere. Durante la nostra lotta di indipendenza le donne c’erano, hanno preso le armi e lottato a fianco degli uomini. Così oggi. Basta ricordare la resistenza opposta contro l’avanzata di Daesh a Kobane. Le donne curde – continua – hanno dimostrato chi sono. Io invidio le combattenti. Vorrei trovarmi al loro fianco”. Daesh sta cercando di minare questa realtà. Circa 5.000 sono le donne rapite fino ad ora, sottratte con la forza alle loro famiglie. “Quasi 2.500 sono state vendute come schiave nei mercati. Altrettante sono state violate nella loro dignità e sottoposte alle peggiori umiliazioni. Come donna – continua Rezan Kader – posso affrontare il confronto in guerra con le armi ma non la violenza inflitta appositamente per umiliare il mio corpo e la mia anima. Noi stiamo lottando per liberare queste donne. Alcune sono state ricomprate, pagando di nascosto le famiglie presso le quali erano state collocate, e riconsegnate ai loro affetti. La nostra intenzione – prosegue – è di aprire in Kurdistan dei centri di supporto psicologico per le donne liberate e per i famigliari che hanno assistito ai rapimenti”. Un monito circola fra i tagliagole dell’Isis: se uno di loro viene ucciso per mano di una donna, allora può dire addio al Paradiso e alle vergini che lo aspettano. “Nulla di tutto questo è vero – sottolinea Rezan Kader. “E’ un gioco, una falsità che Daesh ha creato appositamente per incrementare l’ostilità verso le donne perchè in realtà Isis le teme”. La reazione curda è l’unica al momento che si oppone alle mire di conquista del Califfato. “Di fatto ci sono soltanto i nostri Peshmarga ad affrontare Isis per tutto il mondo – riflette. “Il governo italiano ha supportato il governo curdo inviando aiuti umanitari e militari per addestrare i nostri militari. Il contingente italiano è il secondo per dimensioni, ad essere presente nel paese. Il Kurdistan nel giro di 24 ore si è trovato a dover gestire un 28% di popolazione in più formata da sfollati e rifugiati, un milione e mezzo di fratelli appartenenti a etnie e religioni diverse. Stiamo cercando di mantenere unito il territorio. Nessuno dei cristiani presenti entro i nostri confini vuole uscire. La Santa Sede è d’accordo con noi, ci sta appoggiando. La difficoltà preminente ora -conclude – è quella di affrontare la quotidianità”.

 

Monia Savioli

2014, la devastazione dei diritti umani.

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Un anno da dimenticare, il 2014. Almeno per quanto riguarda Amnesty International che ha divulgato il rapporto annuale in occasione dell’anniversario della scomparsa del suo fondatore, Peter Benenson, avvenuta il 25 febbraio di dieci anni fa. Un anno “devastante per coloro che cercavano di difendere i diritti umani e per quanti si sono trovati intrappolati nella sofferenza delle zone di guerra”. A sottolinearlo, Salil Shetty, segretario generale dell’associazione.

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Le 415 pagine che riassumono il racconto delle violenze consumate in 160 paesi del mondo non fa sconti sul giudizio espresso a proposito dell’atteggiamento adottato dai vari Governi. “Da Washington a Damasco, da Abuja a Colombo, i leader di governo hanno giustificato orrende violazioni dei diritti umani – evidenzia Shetty – sostenendo che era necessario commetterle in nome della sicurezza. In realtà, è semmai vero il contrario. Questo tipo di violazioni sono uno dei motivi principali per i quali oggi viviamo in un mondo tanto pericoloso. Non può esserci sicurezza senza rispetto dei diritti umani”. I dati sono allarmanti.

Negli ultimi quattro anni in Siria – continua – sono morte 200.000 persone, la stragrande maggioranza civili, principalmente in attacchi compiuti dalle forze governative. Circa quattro milioni di persone in fuga dalla Siria hanno trovato rifugio in altri paesi. Più di 7,6 milioni sono sfollate in territorio siriano”. Poi l’Iraq dove l’Isis impazza. “Il gruppo armato che si autodefinisce Stato islamico (Islamic State – Is, noto in precedenza come Isis), che in Siria si è reso responsabile di crimini di guerra, nel nord dell’Iraq ha compiuto rapimenti, uccisioni sommarie assimilabili a esecuzione e una pulizia etnica di proporzioni enormi. Parallelamente, le milizie sciite irachene hanno rapito e ucciso decine di civili sunniti, con il tacito sostegno del governo iracheno”.

Il rapporto prosegue citando le 2000 vittime palestinesi causate dall’assalto condotto nel luglio scorso dagli Israeliani a Gaza, i crimini di guerra compiuti da Hamas “sparando indiscriminatamente razzi verso Israele e causando sei morti”, i risultati del conflitto fra forze governative ed il gruppo armato Boko Haram in Nigeria esplicitati nel rapimento di 276 studentesse nella città di Chibok e gli orrori commessi dalle forze di sicurezza nigeriane che hanno ucciso e sepolto corpi in fosse comuni. Infine la Repubblica Centrafricana dove 5.000 sono le vittime della violenza settaria ed il Sud Sudan dove “decine di migliaia di civili sono stati uccisi e due milioni sono fuggiti dalle loro case, nel contesto del conflitto armato tra le forze governative e quelle dell’opposizione. Entrambe le parti hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.

Amnesty rileva l’immobilità del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di fronte alle crisi siriana, iraquena, palestinese, israeliana e ucraina “neanche quando sono stati commessi crimini orrendi contro la popolazione civile da parte degli stati o dei gruppi armati, per proprio tornaconto o interessi politici”. Pertanto per riuscire a smuovere le acque “ora chiede ai cinque stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza di rinunciare al loro diritto di veto nei casi di genocidio o di altre atrocità di massa”. Dalle Nazioni Unite intanto arrivano i numeri del nuovo rapporto dedicato anch’esso alle violazioni dei diritti umani commessi da Isis in Iraq fra settembre e dicembre 2014. Il rapporto, realizzato dalla Missione delle Nazioni Unite di assistenza all’Iraq (UNAMI) e dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, parla di almeno 165 esecuzioni che hanno interessato i membri di varie “comunità etniche e religiose dell’Iraq, tra cui turkmeni, Shabak, cristiani, yezidi, Sabei, Kaka’e, Faili curdi, sciiti arabi, e altri”. Negli scontri fra i tagliagole e forze di sicurezza tante anche le vittime fra la popolazione civile nella quale si contano almeno 11.602 uccisioni e 21.766 ferimenti.

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Monia Savioli

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