GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Isis - page 5

Libia: l’accordo è monco

Primo passo nelle trattative per la costituzione di un esecutivo di unità nazionale, dirette dal mediatore Onu Leon. Il governo di Tobruk e i rappresentanti delle altre fazioni hanno ufficializzato il proprio consenso dopo mesi di trattative. Ma manca ancora l’adesione indispensabile di Tripoli.

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Domenica 12 luglio, è stato messo nero su bianco l’accordo per il governo di unità nazionale libico. A Skhirat (Marocco) il governo di Tobruk e i rappresentanti di Zintan, Misurata e di altre fazioni hanno sottoscritto il patto già nell’aria dal 3 luglio scorso. Un passo in avanti, visto il lungo lavoro del mediatore Onu Bernardino Leon. Ma un’intesa monca, visto che manca il consenso dell’esecutivo di Tripoli.

Le reazioni, tuttavia, sono state positive. Per Leon e e per i rappresentanti di Tobruk si tratta di “un primo ed importante passo verso la pace”. Mentre il governo italiano, attraverso il ministro degli Affari Esteri Gentiloni, saluta l’accordo come “un motivo di speranza e ci incoraggia a proseguire nell’impegno negoziale. Tocca adesso a Tripoli compiere un gesto importante e responsabile, aderendo all’accordo proposto dal Rappresentante Speciale ONU Bernardino Leon, con il pieno sostegno anche dell’Italia”, conclude il titolare della Farnesina.

Intanto, sul fronte interno, Derna, città portuale della Cirenaica, è ormai stata “persa dallo Stato Islamico”, come ha ammesso un miliziano dal volto coperto in un video diffuso sul web. Mentre gli Stati Uniti stessi, consapevoli dell’impasse politico-istituzionale del Paese, hanno deciso di rompere gli indugi e, in accordo con altri Stati africani, sarebbero pronti ad impiegare droni contro le roccaforti del Daesh in Libia. Sia il presidente Obama sia il premier della Gran Bretagna Cameron hanno evidenziato, nelle uscite pubbliche di questi giorni, che l’Isis si può sconfiggere. Ma, al tempo stesso, hanno entrambi escluso l’impiego di forze militari tradizionali a vantaggio di tecnologie che non implichino l’utilizzo diretto di truppe.
Giacomo Pratali

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Afghanistan oggi: una storia infinita

Medio oriente – Africa di

L’intervento della comunità internazionale in Afghanistan risale al 2001. La premessa alla quale il neo nato movimento talebano guidato dal Mullah Omar si affidò per comunicare la propria esistenza al mondo fu la distruzione delle statue del Buddha a Bamyan nel marzo di quell’anno. Il brivido che percorse il pianeta si trasformò, qualche mese più tardi, a settembre, in un sentimento di concreto timore. Le immagini delle Torre Gemelle che si incrinano e poi si ripiegano su se stesse, prima di crollare e rubare le vite di migliaia di persone, restano tutt’ora scolpite nella mente di chi le ha viste, quasi in diretta quell’11 settembre, o successivamente. Il nome di Osama Bin Laden, anima dell’organizzazione terroristica di matrice integralista Al Qaeda, autrice dell’attentato divenne in quei giorni tragicamente famoso. Troppo il dolore, lo scempio. Troppa la violenza e l’arroganza del nuovo leader che aveva osato sfidare l’Occidente direttamente sul suo territorio. Sulla base delle risoluzioni ONU n. 1368, 1373 e 1386 del 2001 venne intrapresa l’Operazione Enduring Freedom, con l’obiettivo di contrastare il terrorismo internazionale e distruggere la rete di Al Quaeda. In contemporanea il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dispose il dispiegamento nella città di Kabul ed aree limitrofe, della International Security Assistance Force (ISAF), missione di stabilizzazione e sicurezza, diversa e nettamente separata da Enduring Freedom. Da allora ad oggi sono passati ben 15 anni. Il 31 dicembre dello scorso anno la missione ISAF è terminata, trasformandosi nella nuova “Resolute Support” declinata in varie attività di advising e assist finalizzate ad addestrare le truppe locali afghane. Nonostante gli sforzi compiuti durante tutti questi anni dalla Nato per rendere autonomo lo stato afghano nella lotta contro il terrorismo, il quadro che si delinea attualmente conserva ancora, ben evidenti, tracce di profonda instabilità. Le elezioni presidenziali svoltesi nel 2014 per eleggere il sostituto di Karzai, hanno visto fronteggiarsi due avversari, Ashraf Ghani, esponente dell’etnia pashtun, ministro delle finanze durante la presidenza Karzai, con un passato lavorativo presso la banca mondiale e Abdullah Abdullah , tajiko, ex ministro degli Esteri ed ex esponente dell’Alleanza del Nord. Nonostante le innumerevoli accuse di imbrogli perpetrati durante le elezioni, le due parti contendenti si sono poi accordate per riconoscere la vittoria a Ghani, innescando un compromesso che è sfociato nella suddivisione delle varie cariche istituzionali. Il mondo politico afghano risente ancora, infatti – quale retaggio della struttura tribale nella quale l’ organizzazione politico-sociale dell’universo afghano affonda le radici – dell’influenza dei cosiddetti “localpowerbroker”, personalità molto influenti a livello locale che considerano il governo centrale come un’antagonista. Per poter esercitare la propria autorità politica e istituzionale, il governo di Kabul deve necessariamente scendere a patti con loro, cosa che si traduce nelle proliferazione di pratiche clientelari e nepotistiche nell’assegnazione delle varie cariche e nell’avvio sempre più frequente di iniziative volte a reintegrare nella società i combattenti talebani. Tutto questo accade mentre il popolo lotta per garantirsi la sopravvivenza. L’Afghanistan è ancora uno dei Paesi più poveri al mondo. L’economia è sostenuta principalmente dai contributi offerti da finanziatori esteri mentre la maggior parte della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. La disoccupazione colpisce circa il 35% della comunità afghana nonostante il miglioramento dei sistemi di trasporto e della produzione agricola che negli ultimi dieci anni hanno permesso di garantire ad un ulteriore 10% della popolazione una fonte di sostentamento. L’Afghanistan resta, ignorando i tentativi di conversione effettuati, il primo produttore al mondo di oppio dal quale l’insorgenza trae profitto per finanziare la sua attività. L’analfabetismo è ancora uno dei fenomeno più diffusi, in grado di coinvolgere circa il 70% della popolazione. La formazione scolastica femminile è ancora osteggiata dall’insorgenza talebana che prende di mira proprio le scuole femminili. Tribù e clan conservano rispetto allo stato centrale uno status privilegiato che rende la loro influenza superiore rispetto a quella del governo nazionale. Il codice d’onore del Pashtunwali e le leggi tribali hanno prevalenza sulle leggi scritte nazionali. La situazione femminile, dopo 15 anni di presenza occidentale, è migliorata solo nelle grandi città, mentre nelle campagne le donne continuano a portare il burka e ad essere sottomesse. Oggi, nonostante la fine di Isaf e l’avvio della missione “Resolute Support”, le ANDSF, Forze Speciali Afghane, non sono ancora in grado di mantenere un capillare controllo del territorio in modo autonomo. La loro struttura risulta indebolita da vari fattori, dalle diserzioni, dalla scarsa efficacia dovuta ad addestramenti superficiali, dalle logiche nepotistiche che regolano le assegnazioni dei ruoli e dal fatto che assetti aerei, reti di intelligence e supporto di fuoco dipendono ancora dalle forze di coalizione. Ampie zone del Paese infatti risultano ancora escluse dal controllo esercitato dal governo afghano, in particolare nelle province al confine con il Pakistan dove molto attivo è l’Hakkani Newtwork, termine con il quale viene indicato il gruppo di insurrezionalisti islamici molto vicino ai talebani guidati da Maula Jalaluddin Haqqani insieme al figlio Sirajuddin. Forti della debolezza mostrata dalle Forze Speciali Afghane i Talebani continuano ad attaccare, mentre l’Isis timidamente si affaccia. L’Afghanistan continua a rappresentare una realtà a se, autonoma ed estremamente caratterizzata rispetto alle altre anime che compongono il delicato mosaico denominato Medio Oriente. Per questo la distanza che separa l’Afghanistan dal teatro siro-iracheno, ed il modello statuale dei talebani rispetto a quello dell’Isis, rendono al momento piuttosto difficoltosa la penetrazione dello Stato Islamico all’interno delle complesse dinamiche afghane.

Terrorismo: Arresti contro ISiS e Al Qaida in Italia e Albania

ISIS: Milano-Albania-Grosseto

Cinque le persone arrestate mercoledi 1 luglio 2015: il padre, la madre e sorella di Fatima, Sergio Sergio, Assunta Buonfiglio e Marianna Sergio, e due parenti del marito albanese Aldo Kobuzi: in Albania lo zio 37enne Baki Coku e a Scansano (Grosseto) la zia 41enne Arta Kacabuni. alias Anita. Tutti gli altri – Maria Giulia (nella foto quando era ospite della trasmissione Mediaset Pomeriggio 5), Haik Bushura (cittadina canadese), Donika Cocu, Serjola Kobuzi e Aldo Kobuzi (cittadini albanesi) – sono ricercati. Gli indagati, arrestati dopo le indagini della Digos di Milano iniziate oltre un anno fa, erano pronti per partire per la Siria: lì come Maria Giulia si sarebbero uniti ai combattenti
L’operazione Martesë (matrimonio, ndr), coordinata dal procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli ha quindi portato in carcere i familiari di Maria Giulia che vivevano ad Inzago, nel Milanese. In Albania, invece, le unità speciali della polizia di Tirana hanno fermato lo zio di Aldo Kobuzi, anche lui in Siria. Si tratta di Baki Coku, 37 anni. Domiciliato ad Arcille di Campagnatico (Grosseto), si trovava nella sua città natia, Lushnje, a circa 70 chilometri a sud della capitale. Dovrebbe essere estradato in Italia. Le persone arrestate sono cinque: i genitori di Maria Giulia Sergio (Fatima), Sergio Sergio e Assunta Buonfiglio, la sorella Marianna e due parenti del marito albanese Aldo Kobuzi: arrestato in Albania lo zio Baki Coku e la zia Arta Kacabuni, arrestata a Scansano (Grosseto).

L’operazione denominata “Martese” (Matrimonio in albanese), è stata coordinata dal prcuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli. Per Maria Giulio Sergio e per altre nove persone è stata firmata un’ordinanza di custodia cautelare dal gip di Milano Ambrogio Moccia: a tutti viene contestato l’articolo 270 bis, associazione a delinquere finalizzata al terrorismo, articolo di legge che fu introdotto dopo l’11 settembre in Usa.

Le indagini condotte dagli investigatori hanno portato alla individuazione del reclutatore di foreign fighters in Europa Ahmed Abu Alharith, . Tracciando il telefono cellulare di questi e tramite le intercettazioni telefoniche, si è venuto a capo ad una rete organizzativa repida ed efficiente internazionale che collaudava la partenza, il viaggio e lo smistamento in Siria dei foreign fighters e le persone al loro seguito.  “Abbiamo individuato – spiegato Romanelli – un’utenza turca. E si è aperto uno scenario enorme che ha fornito uno spaccato sulle regole per arrivare lì: accorgimenti materiali, come ad esempio l’indicazione di non usare telefoni di ultima generazione ma solo telefoni di vecchio tipo, la necessità di procurarsi schede locali e buttare la scheda vecchia, o la regola di portarsi una sola valigia senza eccessivo bagaglio”. Ha aggiunto Romanelli “Questa persona è una persona importante nello Stato islamico e rivendica il ruolo di interlocutore con vari paesi Europei, gestisce il profilo organizzativo ed è in grado di smistare tutte le persone in arrivo e dirigerli verso lo Stato islamico, a ciascuno viene data una collocazione: gli uomini per lo più vengono addestrati in campi militari mentre le donne restano a casa e svolgono un lavoro di indottrinamento. Il reclutatore è una persona di un certo livello e in alcuni casi parla con persone del suo livello”.

I reclutatori facevano anche un lavoro di convincimento sui profitti di cui avrebbero potuto godere i combattenti in Siria, non solo indottrinamento quindi. Promesse di portata materiale, quali cure sanitarie, macchine a prezzi stracciati, armi ecc. come spiega Lamberto Giannini, direttore del Servizio Centrale Antiterrorismo della Polizia. “Considerate l’attrattiva che questo può avere su persone che vivono una debolezza psicologica e anche economica. I dati sulle origini dei foreign fighters lo dimostrano. È comunque chiaro che non basta l’idea di un’auto scontata per convincere una persona a partire per la guerra”.
Questo aspetto ricorre spesso nelle telefonate tra Maria Giulia Sergio e la madre Assunta dove la figlia assicura la madre nel vendere tutto, non parlare con nessuno, solo con Allah e che “si potrà coltivare tutta la Siria se vuole”. Al padre che chiede se gli possono procure una macchina e la patente dice “No, qua non c’è la patente… Said ha preso la patente come mujahid, come combattente per Allah… Lui guida, non c’è problema… Lui in Albania non aveva la patente, poi ha fatto due mesi di addestramento e, niente, ha fatto tutto… Pa’, se tu vai tu al fronte con Said, con la macchina ti danno anche il kalashnikov…”.

Dettagli organizzativi pratici dai quali emergono alcune peculiarità, anche il fatto che il marito, Aldo, è diventato a tutti gli effetti un mujahid, un combattente del cosidetto Califfato e che la stessa Sergio si dichiara pronta a morire se ce ne fosse bisogno “ anzi, non vedo l’ora!”

Al Qaida: Roma

Altri arresti sono stati eseguiti a Roma dove è stato sgominata una cellula di Al Qaida la quale adoperava una rete virtuale di indottrinamento e reclutamento con lo scopo di organizzare azioni terroristiche. L’indagine è del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e del pm Elisabetta Ceniccola, che si sono avvalsi di investigatori del reparto antiversione dei carabinieri del Ros, del servizio segreto interno (Aisi) e della collaborazione della Fbi statunitense. In manette sono finiti un tunisino e due marocchini: Ahmed Masseoudi, residente prima a Guidonia e poi a Palombara Sabina (comuni in provincia di Roma), ma attualmente in Tunisia; Abderrahim El Khalfi, residente nel quartiere romano di Tor Pignattara e Mohammed Majene, già in carcere in Marocco per altri fatti. Nei loro confronti è ipotizzato il reato di associazione per delinquere di tipo terroristico. Stando ai riscontri investigativi, “costituivano, assieme ad altri numerosi soggetti non identificati, una cellula estremistica dedita alla jihad islamica, gerarchicamente organizzata ai cui membri venivano demandati specifici compiti di supporto all’associazione islamica affiliata ad Al Qaeda”.
Come risporta l’ordinzanza “l’organizzazione si proponeva il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico internazionale, mediante l’apertura e l’amministrazione del sito web di matrice jihadista www.i7ur.com, attivo nella propaganda, nell’arruolamento e nell’addestramento di chiunque volesse partecipare. Tale inchiesta nasce a partire dal 2009 quando era stata localizzata un’utenza riconducibile a Mohammed Masseoudi, dipendente dell’Ambasciata Tunisina a Roma e analizzando gli orari di connessione si riteneva che dietro ci fosse il figlio Ahmed. Questi era il vero amministratore del portale Ashak Al Hur (Amanti delle Uri-Vergini), con riferimento alle presunte vergini che verrebbero assegnate ai martiri del jihad.

Come spiega il procuratore aggiunto di Roma, questa “è la prima cellula affiliata ad Al Qaida a Roma, con un centinaio di membri dislocati in vari paesi”. Per il GIP “ Messaodui e El Khalfi risultano nella completa dedizione all’attività illecita. Essi dedicano la propria esistenza a sostenere Al Qaeda con ogni propria energia e con ogni mezzo, tralasciando i propri interessi personali, ovvero facendoli coincidere con il sostegno all’organizzazione terroristica. Il tutto sarebbe stato compiuto grazie a relazioni di altissimo livello con i vertici di organizzazioni terroristiche, scambiando con questi materiali, supporti, aiuti, informazioni e copertura per la jihad in Europa”.
Reclutamento Is e cellule di Al Qaida nelle mire degli investigatori questa settimana in Italia dalle quali emerge la dedizione incondizionata al terrorismo in nome della guerra “santa” da parte di questi soggetti.

Nigeria: 150 trucidati durante Ramadan

Boko Haram torna a colpire nello Stato di Borno. I fedeli sono stati massacrati perché ritenuti moderati. La coalizione africana arranca di fronte all’avanzata del Califfato, malgrado l’arresto di uno dei leader dell’organizzazione jihadista.

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150 morti a seguito di due attacchi dei miliziani di Boko Haram presso i villaggi di Mussaram e Kukawa, situati nello Stato di Borno, nel nord della Nigeria. I jihadisti hanno fatto fuoco contro i fedeli, impegnate nelle preghiere nei pressi delle due moschee dei due paesi. Così come sono stati massacrati donne e bambini, rimasti a casa a preparare il pasto serale della festa.

Già, festa. Perché questo è il mese del Ramadan. E la scelta degli uomini del Califfato di colpire in questo periodo così carico di significato per l’Islam non è casuale. Così come avvenuto in Kuwait, i jihadisti hanno massacrato questi fedeli perché ritenuti troppo moderati rispetto alla loro concezione dell’Islam.

Dal mese di giugno in poi, gli uomini di Boko Haram sono tornati alla carica e hanno riconquistato molti villaggi nel nord della Nigeria, oltre ad avere colpito anche a N’Djamena, capitale del Ciad. I successi iniziali della coalizione militare africana sembrano essere stati vanificati. E, nonostante pochi giorni fa sia stato arrestato Bahna Fanaye, uno dei leader della cellula terroristica e a capo di un imponente traffico d’armi, l’ombra del Califfato incombe su buona parte dell’Africa Occidentale.
Giacomo Pratali

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Egitto, Sinai: 70 soldati uccisi dall’Isis

Attaccati i check point dell’esercito. Almeno 30 miliziani sono rimasti uccisi. Guerriglieri e veicoli-bomba utilizzati nell’attentato. Il Cairo dichiara lo stato di guerra. L’azione terroristica è avvenuta a pochi giorni dall’uccisione del Procuratore Generale.

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“L’Egitto è in guerra”. Queste le parole del governo egiziano dopo gli attentati, verificatisi all’alba di mercoledì 1° luglio, presso la cittadina Sheikh Zuweld, nel Sinai. Il bilancio provvisorio parla di 70 soldati morti e almeno 30 perdite tra i terroristi. L’offensiva del gruppo “Provincia del Sinai”, affiliato allo Stato Islamico dal novembre 2014, ha visto i miliziani condurre un attacco combinato guerriglieri più autobombe contro le cinque postazioni delle truppe regolari.

Non è la prima volta che nella regione orientale dell’Egitto si verificano attacchi di questo genere. Ma stavolta i jihadisti sembrano avere affinato la propria tecnica. Mentre l’esercito, fermo anche in questo caso nelle proprie postazioni fisse, non sembra avere adottato nessuna contromisura negli ultimi mesi.

Il governo del Cairo ha risposto bombardando i guerriglieri con i propri cacciabombardieri F16. Tuttavia, sembra una risposta tardiva ad un attacco prevedibile. Soprattutto alla luce di quello che è accaduto pochi giorni fa, quando il Hisham Barakat, Procuratore Generale dell’Egitto, è rimasto ucciso dopo un attacco bomba mentre era a bordo del proprio veicolo nel centro della Capitale.

Le dichiarazioni e soprattutto i processi contro i nemici di Al Sisi, a cominciare dal presidente deposto Morsi, hanno scatenato una guerra su più fronti all’interno dell’Egitto. Dentro le città, a partire da Il Cairo, dove cellule terroristiche operano. Nel Sinai, luogo storicamente instabile (vedi le misure governative contro l’etnia dei Beduini a cavallo tra gli anni ’90 e i 2000), dove i miliziani della Provincia del Sinai hanno messo su un’organizzazione militare e strategica ispirata a quella dei mujahideen: taglio delle comunicazioni, attacchi combinati, manovre diversive. Vista l’instabilità di questa regione, Israele ha deciso di chiudere le frontiere.

Infine, il governo italiano ha emesso un comunicato in cui esprime la propria vicinanza “al popolo e al governo egiziano di fronte ai gravissimi attacchi terroristici che hanno provocato decine di vittime. L’Egitto è un pilastro di stabilità nella regione e l’escalation della minaccia terroristica non riuscirà a piegare la determinazione del popolo e del governo”.
Giacomo Pratali

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Francia, Valls: “Impariamo a convivere col terrorismo”

BreakingNews/EUROPA di

Un intero Paese sotto choc. Il presidente Hollande conferma che il responsabile dell’attentato alla fabbrica vicino a Lione è stato arrestato. Si tratta di Yassin Salhi, uomo di origine marocchina. Il colpevole si è scattato una foto assieme al cadavere dell’imprenditore decapitato.

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“Non abbiamo dubbi che volessero far saltare l’intero complesso industriale ma non dobbiamo cedere alla paura”. Queste le parole del presidente francese Hollande all’indomani dell’attentato presso una fabbrica a pochi chilometri da Lione, in cui l’imprenditore è stato decapitato. “Dobbiamo imparare a convivere con il terrorismo”, ha invece denunciato il primo ministro Valls.

Intanto, il responsabile dell’azione terroristica, Yassin Salhi, è stato arrestato e ha confessato di avere ucciso il proprio capo, Hervè Cornara. Mentre sul cellulare dell’uomo di origine marocchina è stata ritrovata una foto scattata assieme al cadavere decapitato e le insegne del Daesh accanto. In stato di fermo anche la moglie dell’uomo. Ancora caccia, invece, all’altro presunto responsabile, forse di nazionalità siriana.

Salhi è stato poi trasferito nella sede dell’antiterrorismo a Parigi. Pur senza precedenti penali, l’attentatore era comunque stato schedato nel 2006 perché sospettato di essere vicino ad un movimento di matrice salafita.

Giacomo Pratali

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Tunisia: strage sulla spiaggia

BreakingNews di

I morti sono 38 e tra questi almeno cinque cittadini britannici assieme ad altri cittadini di nazionalità tedesca, belga e francese; i feriti 36, alcuni dei quali in gravi condizioni . Questo il drammatico bilancio dell’assalto di ieri quando due uomini armati hanno sparato nella spiaggia di due resort di lusso a Sousse, nel golfo di Hammamet in Tunisia. Uno degli attentatori è rimasto ucciso, colpito a morte dalla polizia tunisina in uno scontro a fuoco sulla spiaggia e l’altro è stato catturato ad Akouda, a pochi km dal luogo della strage. In serata sono stati eseguiti altri fermi.

L’Assalto
Erano sbarcati sulla spiaggia da un gommone i due attentatori e hanno aperto il fuoco con granate sulla spiaggia. Uno dei due nascondeva il kalashnikov sotto l’ombrellone che teneva sotto braccio. Secondo testimoni oculari, i terroristi avrebbero poi fatto irruzione nella struttura, inseguendo i turisti in fuga fino alla piscina, cercando di evitare di colpire gli inservienti di nazionalità tunisina. L’uomo rimasto ucciso era uno studente, sconosciuto alle forze di polizia, proveniente da Kairouan, città santa dell’Islam dove si trova la moschea più antica del Maghreb. In concomitanza con le stragi di Francia, Kuwait City e Somalia, la strage di Sousse è stata rivendicata dai jihadisti dell’IS, i quali in un comunicato diffuso su twitter in serata hanno dichiarato: “ Un soldato del califfato ha potuto raggiungere l’obiettivo, uccidendo circa 40 persone, per la maggior parte di stati dell’alleanza crociata che combatte lo stato del califfato”.

Una giornata di sangue e di terrore eseguita e collaudata in tre continenti a tre giorni dall’anniversario della proclamazione del cosiddetto “Stato Islamico” avvenuta il 29 giugno di un anno fa. Già martedì, 23 giugno l’IS aveva fatto girare in rete un richiamo alle armi esplicita: “Attaccate cristiani, sciiti, apostati”. Detto fatto. Una strategia del terrore e della visibilità mediatica globale, queste le linee guida atroci dei jihadisti. Rimane da vedere la reazione del mondo musulmano che fa i conti con la vulnerabilità del mondo arabo. La Tunisia, la moderata, colpita per la seconda volta dopo la strage al Museo del Bardo a Tunisi il 18 marzo scorso, teme la messa in ginocchio del primo settore dell’economia nazionale che è il turismo. Ieri ha vinto il terrore; oggi piangiamo i morti e domani? Domani tocca decidere quando dare fine a questo strazio a cominciare dalla Siria.

Francia, attentato: un decapitato

BreakingNews/EUROPA di

1 morto e 2 feriti. È questo il bilancio dell’attacco, di probabile matrice islamista, avvenuto stamani presso l’impianto di gas industriale Air Products a Saint-Quentin-Fallavier, a 30 km da Lione. Due uomini hanno fatto irruzione nell’edificio a bordo di un’automobile, causando l’esplosione di diverse bombole di gas. Gli agenti di polizia hanno ritrovato sul posto un corpo decapitato. Sopra alla testa, rivenuta al di fuori dell’edificio, sono state trovate delle scritte in arabo, mentre accanto un drappo della bandiera dello Stato Islamico.

Le indagine sono state affidate alla squadra speciale antiterrorismo francese, già sotto accusa dopo a strage di Charlie Hebdo di gennaio. Uno dei due responsabili dell’attentato, circa 30 anni e già conosciuto dagli inquirenti, sarebbe stato fermato e sottoposto ad interrogatorio. A breve, sul luogo dell’accaduto, arriveranno le massime autorità instituzionali.

Libia: buona la quarta?

Tripoli dice sì con riserva alla bozza proposta da Leon. Daesh, questione migratoria e crisi finanziaria rendono sempre più necessario un accordo tra i due governi. La stampa internazionale, tuttavia, sottolinea l’incapacità del mediatore Onu e dei Paesi occidentali di individuare quale dei due esecutivi sia quello più adatto ad arginare l’avanzata dello Stato Islamico e arrestare l’imponente flusso di persone dirette verso l’Europa.

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Un timido passo in avanti. L’accordo tra le due parti in causa sembra essere più vicino. Questo ci dice la risposta affermativa, seppure con la “necessità di apportare alcune modifiche”, fatta pervenire al mediatore Onu il 17 giugno dal governo di Tripoli. Un’apertura ad un “Governo di Accordo Nazionale” assieme ai rappresentanti di Tobruk, come recita il documento contenente 69 articoli, che è già una notizia visti i continui contrasti tra i due esecutivi.

La paura dell’avanzata dello Stato Islamico, le pressioni dell’Unione Europea sulla questione migratoria, la ormai più che probabile bancarotta finanziaria della Libia, pongono i due governi ad una sola scelta possibile: l’accordo.

La quarta bozza, presentata ad Algeri da Leon ad inizio giugno, parte dalla precedente, ma cerca di dare più spazio alle istanze del governo filomusulmano di Tripoli. Permane la formazione di un’unica assemblea legislativa a Tobruk, ma si fa spazio una Presidenza del Consiglio tripartita, composta da un presidente e da due vice: un check and balance a favore della giusta rappresentanza delle due parti in causa.

Se comunque i due governi continuano a tirare la giacca a Leon per arrivare ad una soluzione favorevole per uno piuttosto che per l’altro, il nodo da sciogliere gira attorno alla figura del generale Haftar. Vero leader della fazione riconosciuta a livello internazionale e sostenuto dal presidente egiziano Al Sisi, viste le accuse di crimini contro i civili a suo carico, suscita non poco imbarazzo in Occidente.

E se è vero che è necessario trovare un interlocutore unico in Libia per arginare l’avanzata dello Stato Islamico e per regolamentare i flussi migratori diretti in Europa, il vero dubbio è se non solo su Haftar, ma sul governo stesso di Tobruk, sulla sua reale capacità di incidere sulla popolazione (è stato votato dal solo 25% degli aventi diritto).

Come rilanciato di recente dal Financial Times, finora Leon, nel corso di questi quasi infruttuosi negoziati, Unione Europea e Paesi occidentali non hanno capito che il vero epicentro della crisi della Libia ruota attorno a Tripoli e alla Tripolitania, la regione dove si concentrano la maggior parte degli scontri tra le milizie del Daesh e le truppe filoislamiche legate ai Fratelli Musulmani, sostenitori del governo della capitale.

In questa ottica, i governi di Tripoli e Tobruk dovrebbero avere pari riconoscimento presso il consesso internazionale. Questo perché se Tobruk viene considerato legittimo, Tripoli, da parte sua, ha in mano quello che è il reale polso del Paese. È quindi in questo direzione che la quarta bozza proposta da Leon deve andare.

In questo scenario, è assordante il silenzio dell’Unione Europea. Incapace di portare avanti una reale politica dell’accoglienza dei rifugiati e della regolamentazione dei migranti in arrivo da Africa e Medio Oriente, stenta a fare sentire la propria voce nel contesto libico. E riesce a porsi come arbitro della necessaria pace nel Paese che, alla fine dei conti, altro non è che un accordo tra Stati: Arabia Saudita, Egitto e Russia (pro Tobruk) e Turchia e Qatar (pro Tripoli).
Giacomo Pratali

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Libia: nuova missione di Leon

Medio oriente – Africa di

Ad Algeri sono in corso i colloqui di pace tra le fazioni in lotta. L’avanzata dell’Isis e l’emergenza umanitaria nel Mediterraneo rendono sempre più necessaria la costituzione di un governo di unità nazionale.

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“Nessuna delle due parti è sufficientemente forte per vincere”. Con queste parole, Bernardino Leon ha aperto la due giorni di colloqui di pace (3 e 4 giugno) ad Algeri. Un ennesimo incontro tra il governo di Tobruk, sostenuto dalla comunità internazionale, e quello di Tripoli, appoggiato da Qatar e Turchia. Per porre freno all’avanzata dell’Isis in Libia, le due parti sembrano intenzionate a “raggiungere una soluzione politica”, sottolinea il delegato della Nazioni Unite.

Dello stesso tenore, le parole di Abdelkader Messahel, Ministro per gli Affari Magrebini e Africani dell’Algeria: “Appare ormai chiaro che ci sia la necessità di unire gli sforzi e di farli convergere per capitalizzare i risultati ottenuti finora nel tentativo di giungere quanto prima, alla formazione di un governo di unità nazionale in grado di farsi carico della missione essenziale e urgente di affrontare il terrorismo e di creare le condizioni – aggiunge – per garantire una transizione serena verso la creazione di istituzioni democratiche e stabili, condizioni essenziali di uno Stato sovrano e forte”.

Sul fronte interno, intanto, continuano gli attacchi terroristici. Come quello del 31 aprile avvenuto ad ovest di Misurata, responsabile dell’uccisione di cinque miliziani di Fajr Libia, e rivendicato con un tweet dal Daesh. Anche se islamisti, quest’ultimi hanno pagato la vicinanza all’esecutivo di Tripoli e il controllo dei pozzi di petrolio nella provincia di Jaffa. Lo Stato Islamico punta così alla presa della zona centrale della Libia al fine di isolare le truppe di Alba Libica presenti a Sebha, situata nella parte meridionale del Paese.

Anche il fronte internazionale è cupo. Dopo l’apertura a sorpresa del governo di Tripoli in merito ad una missione Ue contro gli scafisti, Ibrahim Dabbashi, Ambasciatore della Libia all’Onu, ha per il momento chiuso a questa eventualità: “Fino a quando l’Unione Europea e alcuni altri paesi non ne discuteranno con il legittimo governo, in quanto unico rappresentante del popolo libico, non ci sarà alcun consenso da parte nostra”.

La frase del rappresentante del governo di Tobruk rende ancora più importante il lavoro di Leon. La spinta verso il governo di unità nazionale conserva un duplice scopo: fermare l’avanzata dell’Isis e giungere un accordo tra Libia e comunità internazionale per la lotta al traffico di esseri umani all’interno del Mediterraneo.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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