GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Isis - page 4

Contrasto all’Isis, ancora tanto lavoro da fare

Medio oriente – Africa di

Un anno è trascorso da quando la Coalizione Globale per il Contrasto a Daesh ha deciso di muovere i primi passi per fermare la pericolosa avanzata dell’Isis, o Daesh, suo acronimo arabo. Nei 12 mesi trascorsi, le azioni messe in campo hanno permesso di riconquistare in Iraq circa il 30% dei territori inizialmente controllati dal califfato, liberare Tikrit e consentire ad oltre 100.000 civili di tornare nelle proprie case e nei territori circostanti. Idem in Siria, dove il controllo di Daesh continua “su appena 100 degli 822 chilometri del confine turco-siriano. Un anno fa – dichiarano gli stati membri della Coalizione – la situazione era tragica: ISIS stava avanzando in Iraq e minacciando Erbil, Kirkuk e Baghdad. Inoltre, parevano imminenti ulteriori attacchi contro la minoranza Yazidi. Da allora, nonostante non siano mancate inevitabili battute d’arresto, la Coalizione ha perseguito una strategia onnicomprensiva, dimostrando di saper arginare la capacità di movimento di Daesh in Iraq e Siria”. I meriti vengono condivisi con le forze di sicurezza irachene, i peshmerga curdi, l’opposizione siriana ed in generale il popolo di entrambi i paesi. La Coalizione continua ad attaccare Isis su più fronti, controllando canali bancari e finanziari attraverso l’attività della Financial Actione Task Force, cercando di interrompere il reclutamento dei foreign fighters con l’aiuto del Global Counterterrorism Forum, diffondendo un’altra realtà comunicativa densa di speranze opposte alla violenza e all’odio proposti dai terroristi del califfato e sostenendo il governo iracheno, oltre a quello regionale curdo, nella stabilizzazione dei territori liberati. In Siria, il pieno appoggio è garantito alla popolazione nell’ambito di quello che viene diplomaticamente definito la via verso la definizione di “un governo di transizione basato sui principi del Comunicato di Ginevra, al fine di addivenire a un Governo democratico, inclusivo e pluralistico che sia rappresentativo del volere del popolo siriano”. Il monitoraggio della diffusione di Isis in altre realtà che non siano quella irachena e siriana prosegue da parte della Coalizione il cui impegno si rivolge anche alle popolazioni rifugiate. “Il lavoro da fare insieme è ancora molto – concludono gli stati membri. “Daesh continua a reclutare e radicalizzare nuove persone, specialmente attraverso i social media. Sta perpetrando crimini inauditi contro ogni gruppo etnico e religioso e contro minoranze particolarmente vulnerabili; sta distruggendo il patrimonio culturale dell’umanità; e cerca di esportare il proprio modello in altri Paesi, incoraggiando a compiere atti terroristici. Partendo da queste considerazioni, siamo consapevoli che la sconfitta finale di Daesh richiede un impegno di lunga durata e un approccio multidimensionale. Il mondo è unito nella ferma condanna di Daesh e della sua ideologia distorta. La nostra Coalizione ribadisce la sua incrollabile determinazione nel lavorare insieme per ottenere la definitiva sconfitta di Daesh”.

 

Monia Savioli

Libia: accordo in bilico

Medio oriente – Africa/Varie di

Tobruk boccia il Consiglio di Presidenza, ma non si esprime sulla proposta del 9 ottobre. C’è attesa per la risposta di Tripoli. La formazione del governo di unità nazionale rischia di saltare. Tuttavia, il mandato di Leon in scadenza e la radicalizzazione del Daesh in alcuni centri nevralgici del Paese richiedono un cambio di rotta in tempi rapidi.

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L’ottimismo mostrato dal delegato Onu in Libia Bernardino Leon al termine delle positive trattative dello scorso 9 ottobre, in cui era stata stilata la bozza dell’accordo e i nomi del nuovo governo di unità nazionale, cozzano con la bocciatura del 19 ottobre del Parlamento di Tobruk dei nomi del Consiglio di Presidenza presentati dalle Nazioni Unite.

Non un voto formale contro l’accordo, dunque. Ma i 153 deputati dell’Assemblea hanno comunque lanciato un messaggio forte alle Nazioni Unite e a Tripoli. Un malcontento che conterebbe una settantina di rappresentanti, pronti, secondo quanto riportato dal Libyan Herald, a defilarsi rispetto alle posizioni del governo di Tobruk.

Adesso, c’è attesa per la risposta di Tripoli, anche se le premesse del 16 ottobre scorso, data della bocciatura dell’accordo di Skhirat da parte del Presidente del Congresso Nuri Abu Sahimin, l quale ha condanato “l’essere stato invitato a New York alla presenza del Ministro degli Esteri di Tobruk, sostenuto da un parlamento illegale poiché sciolto dalla Corte Costituzionale, di un delegato libico presso l’Onu rimosso dal Congresso e dei ministri degli Esteri di Egitto ed Emirati”.

Tuttavia, se uno spiraglio è ancora aperto, il mandato del Parlamento di Tobruk è ufficialmente scaduto proprio lunedì 19 ottobre (anche se poi è stato prorogato). Così come per Leon, a cui succederà il tedesco Martin Kobler e vicino al fallimento della sua missione libica. E il piano militare, economico e sociale a sostegno di un eventuale governo di unità nazionale e dei libici dell’Unione Europea, annunciato dall’alto rappresentante Federica Mogherini lo scorso 20 ottobre, appare utopistico se Tobruk e Tripoli non diranno sì alla bozza delle Nazioni Unite.

Oltre alla dichiarazione congiunta di molti Paesi Onu dei giorni scorsi, le reazioni delle ultime ore tendono a minimizzare quanto è accaduto a Tobruk: “Non ha né approvato né bocciato. È stato solo deciso di non sottoporre la proposta al voto della Camera dei Rappresentanti, ha affermato il ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni. Mentre Leon ha ribadito che “la minoranza non terrà in ostaggio il processo negoziale. La soluzione politica è l’unica possibile”.

Al netto delle dichiarazioni, tuttavia, le prossime ore appaiono decisive. Le varie scadenze istituzionali ma, soprattutto, la radicalizzazione del Daesh in una città strategica come Bengasi pongono come urgente una soluzione politica univoca per la Libia.

Giacomo Pratali

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Russia pro Assad fra Isis e business

ECONOMIA/Medio oriente – Africa/Varie di

Il politico svedese Kjell-Olof Feldt ha firmato, anni fa, questa frase “Le guerre non sono calamità naturali. Le iniziano gli uomini e possono terminarle solo gli uomini”. Ora, quella riflessione, potrebbe suonare come un monito alla luce del marasma che coinvolge l’intero pianeta. Il regime di Bashar al Assad rappresenta un problema da quando il vento della “primavera araba” ha deciso di soffiare anche sulla Siria. Quattro anni sono passati. Mesi in cui l’opposizione al Regime, dipinta dallo stesso come pacifica resistenza al governo sulla rotta di una democratizzazione abbozzata fra i capitoli della nuova costituzione, ha assunto, gradualmente per noi occidentali abituati al contrario a considerarla più aggressiva ed armata, i connotati degli sgherri del Califfato. Un errore? Assad sostiene che da sempre quei neri figuri siano il prodotto del credo estremista diffuso dall’elemento esterno chiamato Isis e non i membri della sua opposizione, al contrario pacata e civile, pronta a confrontarsi unicamente attraverso il dialogo. Alle sue capacità di pieno controllo ha sempre creduto la vicina Russia, fino alla dimostrazione inequivocabile offerta di recente dalla dichiarazione del pieno sostegno lanciata da Putin. Parole alle quali sono seguiti i fatti, dall’invio di mezzi corazzati – tank, cannoni, blindati, missili antiaereo – e uomini, alla costruzione di una base aerea vicino allo scalo di Latakia, roccaforte del governo siriano, documentata dalle immagini satellitari pubblicate da Foreign Policy. Il punto di vista della Russia è articolato. La necessità di far capitolare Assad, sostenuta da Stati Uniti e coalizione Nato, secondo Putin avrebbe l’effetto del boomerang già lanciato in passato per eliminare le dittature di Saddam Hussein in Iraq e di Muammar Gheddafi in Libia. Le condizioni sono diverse ma l’effetto sarebbe simile. Eliminare lui, significherebbe per il Cremlino, aprire definitivamente le porte al Califfato. A dichiararlo è il portavoce della presidenza russa Dmitry Peskov che nei giorni scorsi ha affermato come “La minaccia rappresentata dal gruppo Stato islamico sia evidente e l’unica forza in grado di resisterle sia l’esercito siriano”. Il forte riavvicinamento dei due paesi è avvenuto dopo la guerra del Libano. Era l’anno 2006 e la Siria, isolata dall’Occidente per il ruolo avuto in quel conflitto, chiese aiuto alla Russia che cancellò il 75% dei debiti vantati nei suoi confronti. Tutt’ora la Siria rappresenta uno dei migliori compratori del materiale bellico prodotto in Russia. L’acquisto più recente riguarda l’acquisizione di 36 aerei da guerra Yakovlev Yak-130 costati ad Assad circa 550 milioni di dollari. Se per la Russia il regime siriano rappresenta un ottimo partner commerciale, la sua capacità di spesa lo rende altrettanto gradevole anche agli occhi della Cina per la quale la Siria, in base ai dati diffusi dalla Commissione Europea, si colloca sul terzo gradino del podio occupato dagli importatori. I sostenitori della tesi che in realtà il vero mandante dell’Isis sia lo stesso Assad per distogliere l’attenzione di Usa e Nato dalla complessa situazione siriana e conservare il suo potere, trovano nella presa di posizione della Russia una ulteriore conferma. Usa e Nato affidano la loro contrarietà a, per ora, timide rimostranze mentre il flusso degli esuli continua ad aumentare. Dall’inizio del conflitto sono morte in Siria oltre 200 mila persone mentre 11 dei suoi circa 22 milioni di abitanti, sono stati costretti a lasciare le case. Di loro 4 milioni hanno abbandonato il paese per emigrare principalmente in Turchia, Libano e Giordania ed ora anche in Europa.

Monia Savioli

Nigeria-Libia: viaggio di sola andata

Medio oriente – Africa di

La Multi National Joint Task Force ha annunciato il dispiegamento di quasi 9000 unità contro Boko Haram, dopo le 200 vittime nelle ultime due settimane. Lo stesso Boko Haram è pronto a supportare i miliziani del Daesh a Sirte.

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8700 soldati dispiegati contro Boko Haram. È quanto annunciato lo scorso 26 agosto dalla coalizione africana Multi National Joint Task Force, composta Nigeria, Camerun, Ciad, Niger e Benin. Soprattutto i primi tre Paesi, sono sempre più il bersaglio dell’organizzazione islamista affiliata all’Isis.

Un provvedimento che potrebbe essere tardivo. Nello Stato di Borno, tornato ad essere l’epicentro degli scontri tra milizie regolari e truppe islamiste, sono state oltre 200 le vittime civili nelle ultime due settimane. Una risposta alle altrettante persone liberate dall’esercito nigeriano nello stesso arco di tempo.

Ma c’è un altro fronte. Oltre ai profughi in fuga da questi continui massacri e diretti verso la Libia, c’è un’altra rotta che porta allo Stato nordafricano: quella dei combattenti di Boko Haram, arrivati a Sirte per dare manforte ai miliziani del Daesh. Come riportato da molti media internazionali, le fonti libiche hanno stimato che “200 combattenti nigeriani sarebbero pronti ad unirsi alle truppe dell’Isis”.

Dallo Stato di Borno, passando per il Lago Ciad e il sud del Camerun, fino ad arrivare a Sirte. La rete del Califfato si sta allargando a macchia d’olio e non appare più sporadica sulle carte geografiche. E la modalità del terrore, già testimoniata nei villaggi nigeriani, ciadiani e camerunensi, è la medesima a Sirte. Solo pochi giorni fa, il leader spirituale dello Stato Islamico Hassan al Karami aveva fatto il seguente annuncio choc nel corso di un sermone nella moschea di Rabat: “Decapiteremo i ribelli dell’opposizione dopo la preghiera del venerdì, gli abitanti di Sirte consegnino le loro figlie ai combattenti che le sposeranno”.

Parole dure. Parole che sono la testimonianza di quanto l’organizzazione di al Baghdadi si sia radicata nella città di Sirte da giugno ad oggi. Moschee, istituzioni e media sono nelle loro mani. E le vittime, esponenti di Fajr Libia, delle Brigate di Misurata e di altri gruppi libici, testimoniano quanto la mancanza di unione nazionale alla Libia faccia il giorno dello Stato Islamico.
Giacomo Pratali

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Libia: pronto il piano d’intervento

Appello dei governi di Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti dopo le stragi di Sirte per mano dei miliziani. In attesa dell’auspicata adesione di Tripoli al governo di unità nazionale, emergono alcuni dettagli sul piano d’azione a guida italiana in Libia: costruzione e protezione delle infrastrutture, missione di peace-keeping dei caschi blu, addestramento delle truppe regolari.

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Oltre 200 morti e almeno 500 feriti a seguito degli scontri avvenuti nell’ultima settimana a Sirte. Il susseguirsi delle stragi per mano dei miliziani affiliati all’Isis ha lasciato dietro di sé una scia di sangue e orrore. Crimini, come la crocifissione di 12 miliziani salafiti o i 22 pazienti di un ospedale morti a seguito di un incendio appiccato dai jihadisti, che hanno fatto gridare al “genocidio” il governo di Tobruk.

“Siamo profondamente preoccupati dalle notizie che parlano di bombardamenti indiscriminati su quartieri della città densamente popolati e atti di violenza commessi al fine di terrorizzare gli abitanti – afferma il comunicato congiunto dei governi di Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Stati Uniti -. Facciamo appello a tutte le fazioni libiche che desiderano un Paese unificato e in pace affinché uniscano le proprie forze per combattere la minaccia posta da gruppi terroristici transnazionali che sfruttano la Libia per i loro scopi”, conclude la nota.

La necessità del governo di unità nazionale, auspicata dalla comunità internazionale, è quanto mai di attualità. Le Nazioni Unite attendono con ansia la decisione di Tripoli, dopo l’accordo tra le restanti fazioni del Paese. C’è un piano da attuare per frenare l’avanzata dell’Isis in Libia.

Già da mesi, si mormora di un intervento militare a guida italiana e sotto l’egida dell’Onu. Un piano d’azione già redatto dalla Farnesina e su cui sta lavorando alacremente lo stesso Bernardino Leon, ancora più indispensabile dopo la conquista di Sirte, le stragi a ripetizione e l’emergenza migratoria.

Come emerso nelle ultime ore, questo piano d’azione riguarda la fase successiva alla costituzione del governo di unità nazionale. In primis, tale esecutivo dovrebbe fare richiesta ufficiale di aiuti internazionale. Così, potrebbe scaturire il sostegno finanziario, ma soprattutto militare, indispensabile per stabilizzare la Libia e contrastare lo Stato Islamico.

Oltre che ai sussidi per la costruzione di infrastrutture come strade e aeroporti, oltre alla protezione degli impianti petroliferi e gasiferi, il clou di questo piano sarebbe l’intervento sul campo dei caschi blu Onu come forza di peace-keeping e l’addestramento delle truppe dell’esercito regolare libico.

L’abbattimento dei flussi migratori verso Italia e Grecia e la sconfitta dell’Isis passano, perciò, attraverso una stabilizzazione istituzionale, politica ed economica della Libia, come spiegato dal ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni: “L’accordo per un governo nazionale in Libia resta la sola possibilità affinché con il supporto della comunità internazionale si possa far fronte alla violenza estremista e al peggioramento quotidiano della situazione umanitaria ed economica del Paese”. Tripoli, dunque, deve sbrigarsi. Il tempo, oramai, stringe.

Giacomo Pratali

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A Dubai il nuovo centro di anti propaganda Isis

Medio oriente – Africa di

Antipropaganda è il termine magico al quale viene affidato il nuovo fronte della lotta contro Isis. Nessuna arma fisica in questo caso, ma semplicemente la forza che immagini e parole riescono a esercitare sulle volontà e a dominarle. La guerra combattuta dal Califfato non prescinde, fin dalle origini, dal potere di condizionamento esercitato da una comunicazione mirata e strutturata per far leva sulle vulnerabilità dei singoli che, opportunamente stimolate, possono trasformarsi negli strumenti necessari per asservirne le menti. Attirati da miraggi e sedotti dalla violenza, volontari provenienti da ogni parte del mondo hanno raggiunto e affiancato i combattenti della jihad vestendo le nere divise del califfato. Stati Uniti ed Emirati Arabi hanno ora deciso di confrontarsi con lo Stato Islamico sul comune terreno della comunicazione. Abu Dhabi è stata scelta come sede del centro media “Sawab Center”, parola araba – sawab – che significa “il modo giusto e corretto”, nel quale saranno concepite le azioni di contrasto alla propaganda firmata Isis, diffuse attraverso media tradizionali e soprattutto web tramite i canali social. L’obiettivo è di “invertire la narrativa” sul gruppo Isis. Il centro, in corso di strutturazione, si avvarrà della collaborazione di circa una ventina di dipendenti a tempo pieno provenienti dagli Emirati e sarà supportato finanziariamente in particolare dal paese che lo ospita. Gli Stati Uniti nel frattempo si stanno attrezzando per rendere ancora più strutturato ed efficace il CSCC, Centro di comunicazione strategica per l’antiterrorismo (Center for Strategic Counterterrorism Communications), istituito nel 2011 e artefice della campagna “Think Again , Turn Away” (Rifletti, allontanati) diffusa su Facebook , Twitter e Tumblr . “L’esercito virtuale on line” di Isis è composto da 90.000 account sparsi in tutto il mondo dai quali vengono diffusi messaggi di testo e video attraverso la rete. Una ramificazione che fa capire quanto il Califfato ritenga importante ai fini del reclutamento, le campagne promozionali e i canali che le supportano. Un primo tentativo di contropropaganda è stato realizzato nel maggio scorso dal Dipartimento di Stato americano che ha diffuso su You Tube, un video dal titolo “Welcome to the “Islamic State” land” costruito per mettere in evidenza le vittime musulmane del terrorismo islamico oltre alla foga distruttrice del movimento. Le immagini sono precedute da una breve prefazione: “Correte, non camminate, verso la terra dell’Isis”, dove imparerete “utili nuove doti” quali “crocifiggere e uccidere musulmani”, “far saltare moschee”, divenire suicide bomber all’interno dei luoghi di culto e sprecare risorse primarie mentre scorrono le immagini delle atrocità compiute dai jihadisti. Il finale offre la punta più alta del sarcasmo che lo governa. “Il viaggio è economico – si legge mentre si vede un cadavere buttato da una altura. “Non avrete bisogno del biglietto di ritorno”. Nonostante le proteste per l’eccessiva violenza rilevata da alcuni e le accuse di maldestra imitazione dei video prodotti dalla controparte, il video è presto diventato virale con migliaia di visualizzazioni. Anche l’Unione Europea ha deciso di muoversi sul fronte dell’antipropaganda dichiarandosi pronta a dare vita ad un gruppo di consiglieri in Belgio per contrastare i messaggi dei jihadisti dello Stato islamico (Isis). Anche in questo caso la via prescelta è quella della contronarrazione ai messaggi postati dai jihadisti sui social media. Di fronte a questa mobilitazione, la rete non è rimasta in silenzio. I militanti di Anonymous, cyber-movimento noto per le sue azioni dimostrative ed i suoi attacchi informatici, ha impiegato le sue capacità per mettere a punto due interventi di sabotaggio informatico che hanno colpito account Twitter, Facebook ed email dei fiancheggiatori della jihad islamica.
Monia Savioli

Libia: la comunità internazionale aspetta Tripoli

Settimana decisiva per la composizione del governo di unità nazionale. Il ministro degli Esteri Gentiloni e il mediatore Onu Leon sono in pressing sul premier Abusahmin. All’orizzonte si profila un possibile intervento militare sotto l’egida delle Nazioni Unite. L’Isis però diffonde un video in cui minaccia l’esecutivo di Tobruk.

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“Questo è un avvertimento ad Haftar e ai suoi compagni, gli atei che si riuniscono nel Parlamento, noi non saremo tolleranti, avremo piacere a sgozzarvi”. Queste le parole pronunciate dal jihadista Abu Yahya Al-Tunsi in un video diffuso in rete dall’Isis libico e dal titolo “Messaggio di Sirte”. Le minacce dirette al governo di Tobruk arrivano nella settimana decisiva per la formazione del governo di unità nazionale, sul quale deve sciogliere le riserve l’esecutivo di Tripoli.

Proprio non più tardi del 1° agosto, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il mediatore Onu Bernardino Leon hanno incontrato il premier di Tripoli Nuri Abusahmin. Nell’incontro, avvenuto in Algeria, si è cercato di dare un seguito all’accordo di Shikat di due settimane fa in cui tutte le fazioni, a parte il governo sostenuto dai Fratelli Musulmani, hanno messo nero su bianco la firma per l’istituzione di un governo di unità nazionale. Nonostante le molte difficoltà nei negoziati in questi ultimi mesi, il fatto che Tripoli abbia continuato a negoziare, può far presagire che l’accordo non sia poi così distante.

C’è tuttavia urgenza da parte delle istituzioni internazionali. Un’istituzione governativa stabile, infatti, darebbe il via libera ad una possibile missione militare, ormai chiesta a gran voce dalla comunità internazionale, sotto l’egida Onu. I Paesi in campo sarebbero l’Italia, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, la Spagna e gli Stati Uniti che, secondo il quotidiano La Repubblica, fornirebbero solo l’appoggio logistico all’operazione.

Intanto, il 3 agosto un altro video è stato diffuso in rete. Il filmato documenta le torture subite da Saadi Gheddafi, secondogenito del Rais, nel carcere di Tripoli. Immagini quanto mai eloquenti e quanto mai dure che porteranno all’apertura di un’inchiesta da parte della Procura Generale di Tripoli.
Giacomo Pratali

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Turchia e rinnovata repressione contro i curdi: cosa sta succedendo?

Negli ultimi giorni il governo turco sta portando avanti una vasta operazione repressiva contro la società civile, i partiti e i guerriglieri curdi.

IMG_0270Per la sua intensità, si può dire che è un bombardamento come non se ne vedevano da anni. Un attacco doppio, portato avanti sia contro le postazioni dei guerriglieri del PKK sia contro villaggi abitati dai civili. E’ ormai evidente che Erdogan ha deciso di intervenire sia dentro la Turchia sia nel resto del Medioriente, andando ad attaccare tutte quelle componenti che provano ad avanzare istanze democratiche. Ma perchè questa accelerazione? Principalmente a che scopo ?

IMG_0271Giovani, universitari, lavoratori, lavoratrici, militanti del movimento lgbt, insieme al movimento curdo, si sono ritrovati insieme per le strade contro un governo repressivo e sempre più autoritario. La risposta immediata del governo è stata quella di entrare nelle case, arrestare, uccidere per strada, vietare qualsiasi cosa, attaccare militarmente i cortei. Il popolo della Turchia conosce il significato di un colpo di stato militare. Possiamo dire che in questo caso si è trattato di un golpe  “politico” dello stato, visto che si tratta di decisioni adottate illegalmente circa le operazioni militari, senza la copertura di un governo.

Alle ultime elezioni politiche del 7 giugno il partito di Erdogan, l’Akp, ha visto diminuire di  molto il proprio consenso, mostrando di aver perso politicamente in Medioriente, e perdendo cosi anche la sua immagine di fronte al mondo intero.

IMG_0272E’ ormai evidente che la risposta di Erdogan alla sconfitta elettorale sia ancora una volta una forte repressione. Sono passati ormai quasi due mesi dalle elezioni ma il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu non ha ancora trovato alleati per formare un nuovo governo. Questo rende ancora più debole la posizione di Erdogan il quale, ciononostante, approfittando dell’assenza di un governo, continua a prendere decisioni illegali in maniera golpista e fascista. Nel ricercare consensi, visto che non si riesce a superare l’impasse e a formare un nuovo governo, presto la Turchia andrà di nuovo alle elezioni, e lo scopo è quello di spingere ancora una volta i curdi all’angolo, etichettandoli come “terroristi”, indebolendo l’Hdp.

Tuttavia la resistenza dentro e fuori la Turchia è fortissima, come spesso ha gia’ dimostrato di essere in grado di fare il popolo curdo, abituato a sollevarsi contro la repressione. Da una parte l’Hdp ha ricevuto un ampio consenso elettorale, superando di tre punti l’odiosa soglia del 10% per poter entrare in parlamento; dall’altra il Pkk ha dimostrato al mondo di essere l’unica forza in grado di fermare ISIS (Daesh) in Medioriente. Mentre eserciti regolari hanno abbandonato il campo a ISIS, le forze della guerriglia sono intervenute mettendo in salvo migliaia di civili, senza distinzione di etnia e religione, proteggendo tutta la popolazione. Da qui la sua continua crescita di consenso popolare dentro e fuori la Turchia. Fatto di cui Erdogan si sta rendendo conto, temendone le conseguenze.

IMG_0273E che ne è del processo di pace che era in corso tra Ocalan ed lo Stato Turco il governo Turco, e che nei gli ultimi mesi si è definitivamente interrotto mettendo Ocalan in un isolamento ormai da 4 mesi. L’Akp ha sempre usato i negoziati con i curdi per offrire all’Europa un’immagine aperta e tollerante; in realtà la sua politica è stata quella di provare a dividere il movimento curdo e le posizioni di Ocalan dalle forze della guerriglia  e dai rifugiati curdi in Europa, provando cosi’ a spaccarlo e a indebolirlo. Non essendo riuscito ad annientare il movimento con le armi, ha cercato di farlo politicamente sfruttando le contraddizioni insite in ogni processo di pace.

Inoltre non dimentichiamo che l’Akp non ha mai riconosciuto la rivoluzione in Rojava e ha negato uno statuto per il popolo curdo, il quale sta cercando di applicare la cosiddetta “autonomia democratica”. Al contrario, ha cercato di annientarla, finanziando e lasciando libertä di movimento entro e attraverso i suoi confini a ISIS. Con la vittoria di Kobane e il respingimento di ISIS fuori dal Rojava, i piani dell’Akp sono falliti. Inoltre sono spesso comparse notizie relative sia all’interno sia all’esterno della Turchia, circa la sempre più plateale connivenza tra servizi segreti turchi e ISIS.

Il 20 luglio scorso, nella cittadina vicina al confine turco-siriano di Suruc, sono stati uccisi 32 giovani socialisti provenienti dalle più grandi città turche. Suruc la conosciamo bene, è il villaggio nel quale si è dato sostegno internazionale alla resistenza di Kobane. Migliaia di attivisti da tutto il mondo, tanti anche dall’Italia, si sono recati proprio a Suruc per offrire il proprio sostegno e aiuto, mentre le guerrigliere e i guerriglieri resistevano a Kobane contro l’attacco di ISIS. Per questo i 32 giovani socialisti erano a Suruc il 20 luglio, per continuare a dare sostegno alla ricostruzione di Kobane. Usando questo attentato come pretesto, il premier turco Ahmet Davutoglu ha deciso di entrare in azione militarmente, motivando questa decisione con la pericolosita’ di ISIS, e bombardandone le postazioni. Nient’altro che propaganda falsa e ipocrita. In questi ultimi due giorni di operazione, l’attacco contro ISIS è durato in tutto 13 minuti. E le postazioni attaccate erano vuote. Qualcuno li aveva forse avvertiti?

IMG_0274Il 24 luglio inizia l’operazione di bombardamento contro i guerriglieri e le guerrigliere curde nelle montagne della zona di difesa di Medya. Una data infelice per i curdi, quella del 24 luglio, avendo subito nel 1923 a Losanna la divisione del Kurdistan in quattro parti: Iraq, Iran, Turchia e Siria. Gli F-16 turchi sono decollati cinque minuti dopo la mezzanotte dalle città di Diyarbakir e Batman ed hanno sganciato bombe tutta la notte sulle regioni di Zap, Basyan, Gare, Avaşin e Metina. Gli aerei hanno poi colpito Xinere e Kandil e molti villaggi di civili nella regione. Alcune zone sono state colpite tre volte nel corso della stessa notte. Parallelamente si svolge una vasta operazione repressiva in Turchia, della stessa portata di quella del 2009 conosciuta come “operazione KCK”, che ha portato all’arresto di circa 700 democratici in tutto il paese e causato l’uccisione di Abdullah Ozdal di 21 anni nella citta’ di Cizre (Turchia). Tutti questi avvenimenti, in un momento molto delicato in cui il primo ministro sta ancora cercando di formare un nuovo governo, puzzano di “strategia della tensione”. Approfittando dell’attuale vuoto politico, l’Akp porta avanti indisturbato la sua politica di annientamento dei curdi. E questo anche con l’appoggio di Barzani, presidente del Kurdistan regionale (Iraq), che rilascia dichiarazioni di condanna dei bombardamenti turchi ma fondamentalmente si rivela essere portavoce di Erdogan e dell’Akp nel sud Kurdistan, avvallando il gioco di divisione dei curdi. Esponendo tra l’altro il suo paese e il suo popolo al rischio di diventare il “giardino di casa” della Turchia, sperando in un riconoscimento formale del Kurdistan regionale quando il vero obiettivo di Erdogan è sfruttarne le ricchezze e controllarlo politicamente ed economicamente.

La politica dell’Akp appare quindi sempre più chiara e disperata. Le sue politiche in Medioriente sono fallite, per questo sta cercando di riconquistarsi un ruolo che pero’ non ha piu’, perchè la rivoluzione del Rojava ha dimostrato che nessuna politica senza o contro i curdi potrà mai avere successo in Medioriente.

Tutti paesi che in qualche modo sono interessati e/o coinvolti nelle politiche mediorientali cambiano strategia a seconda dei propri interessi. Ma la Turchia insiste nel non cambiare e cerca di continuare come se fossimo ancora al tempo dell’Impero Ottomano. Non hanno capito che il mondo è cambiato, il ruolo della Turchia non è piu’ quello di prima: con le politiche e i “giochetti” degli ottomani non si puo’ vivere, anzi si porta un paese al fallimento totale. La società sta cambiando. I confini stanno cambiando.

Bombardamento-Isis-su-Kobane-1024x680L’unica via d’uscita possibile è quella di democratizzare la Turchia e risolvere tutte le questioni con tutti i popoli che la abitano, che è quella che ha cercato di perseguire Ocalan con il processo di pace. Nel frattempo è evidente che le guerrigliere e i guerriglieri curdi non staranno a guardare, e continueranno a combattere in Rojava contro ISIS, avendo dimostrato di poterli fermare, e in Turchia contro repressione e bombardamenti. Continueranno a combattere contro questa politica dell’Akp che sta portando la Turchia in un pantano. Continueranno a portare avanti la rivoluzione in Rojava come unica via per i popoli in medio oriente. Continueranno a manifestare la loro protesta nelle citta’ del mondo, come avvenuto ad esempio in 15 citta’ in Italia o in 22 citta’ in Germania, o in Giappone, India, Francia, dopo l’attacco di Suruc: i curdi sono abituati a resistere e non si sono fatti piegare, né si faranno piu’ utilizzare come in passato per i giochi delle grandi potenze.

Ormai la rivoluzione è cominciata e non ha confini, quei confini artificiali decisi a Losanna senza aver consultato i popoli: per questo non rimanete silenzio anche voi! I curdi non acetteranno piu la schiavitu. Nessun bombardamenti avra il sucesso..

Questi bombardamenti aldi la del confine turco e’ una violazione del diritto internazionale. Le forze internazionali, democratici della soliderieta hanno avuto un ruolo importante per fermare l’ avanzamento di isis in medioriente. Non dimentichiamo che AKP e un altro faccia di ISIS. Da agire immediatamente per far cessare questa politica dello stato turco.

 

Ramadi: presto l’offensiva Usa-Iraq

Medio oriente – Africa di

Il conto alla rovescia dovrebbe essere ormai giunto al termine. L’offensiva targata Usa e Iraq per riprendere il controllo di Ramadi, capoluogo della grande provincia di Al-Anbar a 70 miglia a ovest di Baghadad, strappato nel maggio scorso dalle forze del Califfato è stata annunciata come prossima a inizio luglio dal presidente Usa Barak Obama. Una manciata di giorni in cui il servizio antiterrorismo iracheno avrebbe dovuto perfezionare il piano che vede coinvolti al momento i circa 5.000 soldati della polizia e dell’esercito federale iracheno schierati con l’appoggio della rappresentanze sunnite nel controllo delle zone circostanti la città. L’interesse per la provincia di Anbar risiede nella sua posizione geografica, al confine con l’Arabia Saudita e la Giordania e nella sua composizione sociale, basata su importanti tribù sunnite, ritenute fondamentali nella lotta contro lo stato islamico. La caduta di Ramadi, preceduta ad aprile dall’esodo che, secondo le fonti Onu, avrebbe portato alla partenza di 114.000 iracheni in cerca di rifugio lontano dalle milizie Isis, era stata considerata come l’apertura di un pericoloso corridoio verso la conquista della capitale irachena. La situazione è peggiorata ulteriormente nelle ultime settimane. I miliziani Isis, dopo aver liberato tutti i carcerati e issato le bandiere nere tappezzandone la città, hanno deciso di chiudere i condotti della diga di Radami costringendo ad una brutale siccità le zone di Khalidiyah e Habbaniyah, , baluardi del governo iracheno ai margini della diga e a poca distanza da Falluja. L’obiettivo sarebbe quello non tanto di minacciare la sopravvivenza delle popolazioni quanto di abbassare il livello del fiume Eufrate per consentire alle truppe Isis spostamenti più rapidi e sicuri verso Khalidiyah e quindi altri territori ancora in mano governativa. In risposta alla richiesta di aiuto lanciata dal premier iracheno Haider Al Abadi, gli Stati Uniti hanno recentemente implementato con l’invio di 450 soldati scelti le attività addestrative organizzate presso il nuovo centro realizzato nella base militare aerea di Taqaddum. Ora il numero complessivo dei militari Usa è salito a oltre 3.000 unità e non è escluso per il futuro, il prestito di elicotteri Apache alle forze irachene per supportare l’offensiva contro Isis. L’arrivo dei rinforzi Usa è stato affiancato dall’invio deciso dal Governo italiano di un contingente di 30 incursori del Col Moschin con compiti ufficialmente solo addestrativi. Al momento i militari italiani impegnati in Iraq nell’ambito dell’Operazione “Prima Parthica” finalizzata all’addestramento del personale delle KSF, Kurdish Security Forces, sono circa 200.

Monia Savioli
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