GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Iraq: un’esplosione causa diversi feriti nelle zone liberate nell’Anbar. Adesso la liberazione di Rawa segnerà la fine dello stato Islamico.

MEDIO ORIENTE di

Un’esplosione nella regione dell’Anbar occidentale ha causato diversi feriti tra le forze di sicurezza Irachene. In questo momento le truppe si trovano a fare i conti con i resti delle battaglie contro lo stato islamico. L’esplosione causate dalle mine terrestri, piantate  precedentemente, hanno ferito diversi soldati nella zona di Al-Rayhana, a est della città di Annah. La fonte non ha fornito dati precisi riguardo i feriti, perciò è difficile in questo momento quantificarli. In questa regione è presente l’ultimo bastione del “califfato”, la città di  Rawa. Qui si ritiene che i combattenti dell’Isis stiano tenendo in ostaggio circa 10.000 civili. Nel mese di settembre è stata lanciata un’offensiva per riprendere il controlo di questa città e più in generale di tutte le zone occupate da Daesh nelle aree circostanti lungo il confine con la Siria. La scorsa settimana le forze irachene hanno riconquistato la città di al Qaim in quello che il premier Haider al Abadi ha definito “un tempo record”. Le forze governative e i combattenti paramilitari erano entrati la mattina del 3 novembre nel centro di Qaim, dove prima degli scontri vivevano circa 50 mila persone, per poi annunciarne la liberazione nel pomeriggio. La cacciata dello stato Islamico dalla città di Rawa segnerebbe la fine del dominio territoriale del gruppo jihadista che ha proclamato il califfato islamico in Iraq nel 2014, e che da allora ha causato la morte di migliaia di civili. L’Anbar è la provincia più grande dell’Iraq e comprende gran parte del territorio occidentale del paese. È considerata una roccaforte della minoranza sunnita irachena e durante i primi anni dell’operazione statunitense “Iraqi Freedom” ha rappresentato una base importante per al Qaeda e altri gruppi di insorti. Inoltre la sua conformazione geografica e la sua morfologia, caratterizzata da vasti deserti, l’ha resa un territorio ideale anche per lo Stato islamico, permettendo il trasferimento di uomini attraverso il confine con la Siria.

Mosul, gli alpini della Task Force Presidium addestrano le forze Curdo-irachene all’operatività in montagna

ASIA PACIFICO/SICUREZZA di

Presso la diga di  Mosul è stata inaugurata una nuova area addestrativa mirata ad aumentare la capacità operativa delle truppe Curdo –Irachene nel combattimento in quota.

La palestra di Roccia realizzata dalla Task Force Presidium e battezzata “Monte nero” in onore della battaglia del 3° Alpini nella prima Guerra Mondiale è in gardo di fornire un ampio ventaglio di scenrai utili alla formazione montana, la parete messa in sicurezza e dotata di 12 vie ferrate con difficoltà variabile sarà utilizzata per l’addestramento delle truppe operanti  nell’area.

La cerimonia è stata presieduta dal Comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze, Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, accompagnato dal Comandante del Contingente Italiano e Deputy Commanding General for Training presso il Combined Joint Force Land Component Command – Operation Inherent Resolve, Generale di Brigata Francesco Maria Ceravolo.

In questa area  sotto il  coordinamento del Kurdistan Training Coordination Center (KTCC), l’Unità addestrativa multinazionale a guida italiana, sarà avviato prossimamente il primo corso di di Mountain Warfare Basic Skills, svolto dagli istruttori alpini a favore del Battaglione Kommando degli Zaravani delle Forze di Sicurezza Kurde.

La missione italiana

L’Italia partecipa con la “Missione PrimaParthica, secondo contributore dopo gli USA, all’Operazione “Inherent Resolve” di contrasto al terrorismo internazionale”: 1500 militari appartenenti a tutte le Forze Armate, impiegati nelle sedi di Baghdad e Erbil nell’addestramento delle Forze di Sicurezza curde (Peshmerga) ed irachene, ed assicurando a tutta la Coalizione, con un Task Group aeromobile dislocato presso  l’aeroporto di Erbil, la capacità di Personal Recovery (PR) in tutto il quadrante settentrionale  del teatro iracheno.

Nell’ambito di tale missione, la Task Force “Praesidium”, con i suoi 500 uomini e donne dell’Esercito italiano, garantisce la sicurezza al sedime della diga dove la ditta italiana Trevi Spa sta operando per mettere in sicurezza l’infrastruttura idraulica e scongiurarne il rischio di una catastrofe ambientale.

Mosul, I bambini del fronte

feed_corousel di

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Children on the frontline/ Eleonora Vio

Mentre a Mosul la battaglia contro lo Stato Islamico avanza lentamente alle porte della città vecchia, i quartieri liberati che delimitano la linea del fronte riflettono l’incubo da cui molti iracheni faticano a svegliarsi. I colpi di mortaio rimbombano in continuazione, facendo traballare i palazzi pericolanti e animando le strade deserte ricoperte da cumuli di macerie. E i bambini, con sguardi spenti ma interrogativi, sono le vittime di questa terrificante e surreale desolazione.

Questa foto è stata scattata il 9 aprile a Mosul.

To be continued…

La battaglia di Mosul e il dibattito sull'unita nazionale irachena

Asia/Difesa di

Le dichiarazioni e le denunce da parte di diversi attori internazionali riguardo le numerose vittime civili causate dai bombardamenti statunitensi su Mosul, hanno inevitabilmente rallentato l’avanzata nella Città Vecchia. Ad oggi le forze dell’esercito nazionale iracheno sono rallentate dai militanti dello Stato Islamico nei pressi della Grande Moschea di al-Nuri. Si valuta che circa 300.000 persone siano ancora presenti nei quartieri della Città Vecchia di Mosul, e ciò induce ad una necessaria pazienza da parte dei militari iracheni. Tuttavia la sconfitta dei terroristi e la liberazione della Moschea avrebbe una portata simbolica enorme: proprio qui infatti nel 2014 Abu Bakr al-Baghdadi proclamava la nascita di Daesh.

Alla rallentata offensiva sul fronte Ovest, fa da contraltare una accelerazione verso la normalità nella parte Orientale della città. Secondo fonti governative irachene nell’ultima settimana circa il 90% dei rifugiati sono potuti tornare nelle loro abitazioni nella parte liberata, contraddette però dal Commissario ONU per i Rifugiati secondo cui ci sono ancora 400.000 internally displaced persons (IDP).

Resta tuttavia ancora al centro del dibattito, la prospettiva politica di un Iraq unito e compatto attorno ad un governo nazionale. In particolare sul fronte curdo, vi sono state dichiarazioni che rendono nuovamente difficile pensare ad un futuro pacifico per il Paese, anche dopo la sconfitta dello Stato Islamico. Dopo la decisione del governo regionale di Barzani di issare la bandiera curda sugli edifici pubblici nella città di Kirkuk, il consiglio cittadino si è proclamato a favore di un referendum per decidere sul suo futuro: aderire alla regione autonoma curda oppure rimanere legata a Baghdad. Le reazioni contro tale votazione non si sono fatte attendere, non solo da parte del governo centrale iracheno. Ankara e Teheran si sono prontamente dichiarate contrarie alla possibilità di una eventuale adesione di Kirkuk alla regione curda: il Primo Ministro turco Yildrim ha dichiarato che Kirkuk “è una città turkmena”. Anche l’Iran si è pronunciato contro il possibile referendum. Gli interessi iraniani riguardano innanzitutto l’accordo firmato recentemente tra Baghdad e Teheran riguardo la distribuzione del petrolio proveniente dai ricchi giacimenti della provincia di Kirkuk. Ma nel quadro politico generale, né Erdoğan né Rouhani possono permettersi un Kurdistan iracheno indipendente e forte, dal momento che sia in Turchia che in Iran vi sono delle importanti minoranze curde, che potrebbero guardare ad Erbil come a un modello di ispirazione politica.

Non a caso dopo la conclusione dell’operazione turca Euphrates Shield in Siria, in molti hanno analizzato la possibilità di un rafforzato impegno di Ankara in Iraq, con particolare attenzione nell’area di Shingal e Tel Afar, dove la presenza del Parito Curdo dei Lavoratori (PKK) pone rischi per tutti gli attori regionali. A tal proposito risuonano minacciose le parole del Presidente Erdoğan: operazioni militari nella regione non si possono infatti escludere.

Continua ad esserci grande incertezza sulla stabilità di un governo nazionale anche però internamente ai partiti politici ed alla corrente maggioritaria sciita. Tra questi occupa un ruolo prominente il leader del Supremo Consiglio Islamico Iracheno (ISCI), Ammar al-Hakim. Egli ha incontrato il Rappresentante dell’ONU Jan Kubiš, sottolineando l’importanza di evitare le divisioni e i conflitti interni; tuttavia ha anche rifiutato la proposta di per la “riconciliazione nazionale”, criticata e ritenuta inaccettabile dal partito sciita.

È proprio riguardo il dialogo tra questi due attori che si concentra la pubblicazione del Middle East Research Institute: il blocco sciita rivestirà un ruolo decisivo per una riconciliazione politica in Iraq, eppure le differenze tra al-Hakim e al-Sadr sembrano ancora una volta irrisolvibili. Alla proposta di Historical Settlement da parte del primo, ha fatto seguito la controproposta da parte del secondo di una tabella di marcia comprendente diversi punti critici. Nonostante entrambi si dichiarino favorevolmente all’unità politica del Paese, persistono dunque degli elementi di scontro. Uno di questi riguarda certamente il rapporto con Teheran: il sostegno iraniano al partito di al-Hakim è storico. Diversamente al-Sadr ha usato spesso toni aspri verso il paese vicino, ed è il primo leader sciita a pronunciarsi contro il regime di Assad in Siria, invitandolo a farsi da parte per il bene del suo popolo. Contemporaneamente però, un punto centrale del suo “roadmap”, si basa sul ritiro immediato di tutte le forze militari straniere dal suolo iracheno.

Di certo la situazione di instabilità in Iraq non si può ritenere facilitata dalla recente decisione del Presidente Trump di intervenire con decisione nel conflitto siriano. Gli attori in gioco in Siria sono gli stessi in Iraq, ed una escalation di tensione tra Washington e Teheran, che possa coinvolgere pure Ankara e Mosca, sarebbe certamente distruttiva per ogni ipotesi di tavolo di pacificazione nazionale. Ancora una volta è necessario sottolineare l’importante ruolo che Trump deve affidare al suo Segretario di Stato Rex Tillerson e alla diplomazia statunitense.

Di Adriano Cerquetti

Dossier Iraq, Marzo 2017

Asia/Report di

Tra le promesse fatte dal nuovo Presidente USA Donald Trump, quella di combattere e di sconfiggere definitivamente il terrorismo di matrice islamica era una delle più complicate da raggiungere in breve tempo. Eppure inizialmente in molti pensavano e temevano che il Presidente potesse fare un passo indietro (come lui stesso aveva preannunciato durante la campagna elettorale) da quei fronti aperti dall’amministrazione Obama e sui quali si è giocata la sfida elettorale con Hillary Clinton, la quale inevitabilmente rappresentava una soluzione di continuità.

Ciò nonostante le prospettive in breve tempo sembrano essere cambiate: era il 20 febbraio quando la coalizione internazionale anti-ISIS lanciava l’offensiva nell’area Ovest di Mosul, dopo la liberazione dell’area orientale. Tuttavia alle iniziali dichiarazioni entusiastiche, giunte sia da Washington che da Baghdad, si contrappone oggi la dura e drammatica realtà della roccaforte ISIS in Iraq. Che la missione sarebbe stata molto difficile e impegnativa, era prevedibile a chiunque. In queste ultime settimane però si è toccata forse per la prima volta con mano, quella che è la reale gravità della situazione.

La crisi umanitaria in Iraq è senza precedenti, le varie agenzie per la difesa e la protezione dei civili sono giunte al limite delle loro capacità, come sottolineato dalla Commissione dell’ONU per i diritti umani. Secondo le stime, solo da febbraio (ovvero l’inizio dell’offensiva per Mosul ovest) sono 220.000 i civili sfollati. Allargando la lente ad ottobre 2016, si raggiunge la cifra di 350.00 persone, di cui soltanto 76.000 sono riuscite a tornare nelle proprie case nella parte liberata della città.

Il problema dei numerosi civili presenti nelle aree di guerriglia è divenuto tragicamente noto al pubblico internazionale lo scorso 23 marzo. Alcuni bombardamenti delle forze aeree statunitensi hanno infatti colpito, in circostanze ancora non chiarite ufficialmente, edifici nel quartiere di Al Aghwat Al Jadidah, causando all’incirca 200 morti solo civili. Secondo l’Alto Commissario dell’ONU per i Rifugiati (UNHCR) nella scorsa settimana sono state 500 le vittime civili delle operazioni in Mosul Ovest. Il Dipartimento di Stato degli USA ha gli scorsi giorni confermato l’evento, attribuendo le colpe a dei veicoli che esplodendo avrebbero fatto crollare i palazzi.

Ciò che più importa però ai fini dell’analisi è che gli Stati Uniti stanno cadendo per l’ennesima volta negli errori del passato. A nulla sembrano funzionare i numerosi appelli e report presentati dai più rilevanti Think Tank internazionali, per ultimo l’International Crisis Group. L’esperienza delle guerre passate in Iraq (2003) ed Afghanistan (2001), non sembra essere stata una lezione sufficiente.

Ciò che mancava all’epoca è quello che manca ancora adesso: la stesura di un progetto che veda coinvolti i principali attori regionali (Iran, Turchia e Arabia Saudita); la pianificazione economica volta alla ricostruzione delle città distrutte dalla guerra; la collaborazione politica che porti alla nascita e allo sviluppo di un processo democratico in Iraq come in Siria. Il presupposto di questo è obbligatoriamente la sconfitta definitiva dell’ISIS, la quale però non può essere solo militare. Deve essere seguita da una eliminazione del problema alla radice, un miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei paesi, che hanno portato alla nascita del Califfato.
Per questo gli Stati Uniti devono porre una straordinaria attenzione nel portare avanti i bombardamenti sulla città: il coinvolgimento di vittime innocenti nel conflitto non causa altro che ulteriore irritazione tra le comunità locali, ulteriore disperazione e paura. Infine nuovi e sempre più radicali gruppi terroristici. Dopo gli incidenti della scorsa settimana, i vertici dell’esercito nazionale iracheno hanno deciso di fermare le operazioni militari in assenza di un nuovo piano strategico che possa evitare ulteriori vittime tra i civili. Dalla lezione del passato tuttavia gli Stati Uniti ed il Presidente Trump dovrebbero comprendere che non è questa la via per sconfiggere il terrorismo islamico. Anche se nei prossimi mesi Daesh dovesse essere definitivamente sconfitta a Mosul, il sangue innocente versato e la disperazione sociale ed economica ereditata, porteranno inevitabilmente al rafforzamento di gruppi terroristici già presenti o alla nascita di nuovi, il cui obiettivo sarà sempre quello: cacciare l’invasore americano dal territorio arabo.

In generale, il successo della campagna di Mosul e della missione della coalizione internazionale contro il terrorismo, dipenderà quindi dalla capacità di prevenire la nascita di nuovi conflitti interni tra le forze interessate. L’obiettivo deve essere quello di evitare una escalation della tensione tra gli attori regionali, Iran e Arabia Saudita in primis, ma anche la Turchia. L’Iraq è oggi il campo di scontro tra queste potenze, dove ognuna mira ad espandere la sua influenza nella ricostruzione del Paese per attirarla nella sua sfera di dominio. La stessa situazione si sta verificando d’altronde in Siria e in Yemen.

Il Presidente Trump ha recentemente dichiarato che la priorità per la sicurezza statunitense è la minaccia di Teheran. Tuttavia è chiaro che la situazione non può essere gestita soltanto con l’esercito e con la forza militare. Per evitare un ulteriore deterioramento della situazione in Medio Oriente, Washington deve fare affidamento tanto sulla potenza quanto sulla diplomazia. Deve sostenere e promuovere i negoziati di pace e accettare accordi diplomatici che portino a delle soluzioni di compromesso accettabili, che mantengano uno stato di equilibrio tra potenze in Asia e Medio Oriente. È fondamentale non peggiorare o aprire ulteriori fronti di combattimento. Soprattutto però, per vincere definitivamente la sfida contro il terrorismo islamico, gli Stati Uniti devono collaborare con la Cina e l’Unione Europea, in particolare se come promesso in campagna elettorale, l’amministrazione Trump deciderà per un progressivo disimpegno americano dal fronte mediorientale.

Sul fronte politico interno dell’Iraq, il tavolo politico per la ricostruzione del Paese deve vedere coinvolte tutte le anime e le etnie interne al paese, sostenute dalle corrispettive potenze regionali. Deve basarsi sulla cooperazione e collaborazione tra Erbil e Baghdad, tra la minoranza sunnita e la maggioranza sciita. Come sottolineato nella recente pubblicazione del Clingaendel Institute, sarà inevitabilmente un procedimento lungo e pieno di ostacoli, che deve avere come primo sostenitore il gruppo sciita. Deve crearsi al suo interno un nuovo dibattito politico aperto e democratico, inclusivo e che veda coinvolti anche partiti nuovi e le nuove generazioni. Solo attraverso una democratizzazione del fronte interno sciita, si potrà arrivare con il tempo all’apertura di un dibattito politico democratico tra sciiti, sunniti, kurdi e minoranze etniche.

Per questo motivo la coalizione internazionale non può abbandonare l’Iraq, non appena l’ISIS sarà sconfitta. Sarà necessario un sostegno economico, umanitario e politico a lungo termine. Se gli Stati Uniti non dovessero essere pronti a questo sforzo, l’occasione potrebbe essere colta dall’Unione Europea, per dimostrare di essere finalmente pronta a diventare un credibile attore internazionale, prima di tutto a sé stessa.

 di  Adriano Cerquetti

Prima Parthica, l’addestramento degli italiani ai Peshmerga

Asia/Difesa/Video di

I peshmerga del Kurdistan iracheno sono sempre stati in prima linea nei diversi sconvolgimenti della storia dell’Iraq dalla sua indipendenza, nella guerra Iran-Iraq, nella prima e nella seconda guerra del golfo.

Dall’agosto del 2014 sono stati i primi ad impegnare i terroristi di Daesh e  liberare le città occupate dai terroristi dell’ISIS. Combattenti di valore  si sono lanciati nelle battaglie forti solo del loro coraggio. male armati e senza addestramento hanno tenuto testa all’Isis per quanto possibile fino all’arrivo della coalizione internazionale.

Addestramento e supporto nel combattimento sono le basi della missione Inherent Resolve e in particolare  con la Missione Prima Parthica gli italiani sono impegnati nell’addestramento delle forze Iraqene e della Regione autonoma del Kurdistan.

Dal 2014 alcuni battaglioni della milizia peshmerga sono stati integrati nella Guardia Nazionale Irachena e sono parte della nuova 2ª divisione irachena, di base a Mossul. Da allora questi combattenti sono addestrati allo Zerawani Tiger Training camp di Erbil .

L’addestramento che viene impartito dagli italiani ha lo scopo di rendere più efficaci le forze Peshmerga e Zerawani nei combattimenti. Alla prima fase di addestramento di base di fanteria si aggiungono nel tempo corsi di specializzazione nel tiro, nel combattimento urbano e per lo sviluppo di unità speciali.

Al tiger camp  gli istruttori italiani sono affiancati da traduttori ma molti di loro si sforzano di apprendere la lingua Kurda per avvicinarsi sempre di più ai loro “Studenti”.

Al Tiger camp incontriamo Fatima, traduttrice e professoressa di Biologia all’università di Erbil, una degli interpreti che aiutano gli istruttori nel lavoro quotidiano che ci racconta la sua percezione della missione italiana che definisce molto importante  per i peshmerga che dopo l’addestramento si trovano immediatamente sulla linea del fuoco.

L’addestramento degli istruttori italiani risulta essere uno dei più efficaci grazie anche al modello di approccio e di interazione con i peshmerga sopratutto nella fase di specializzazione dove le doti e l’esperienza nella formazione di una istituzione di 150 anni viene riconosciuta dalle giovani formae armate del posto-

L’efficacia sul campo dei peshmerga è aumentata sensibilmente grazie al supporto della Training force della missione italiana, lo conferma anche il General Brigadiere Aptar comandante del Zerawani Tiger Camp che durante la nostra intervista ha sottolineato come l’apporto di armamenti e l’istruzione puntuale sul loro uso ha permesso un incremento notevole dell’efficacia in battaglia con una diminuzione delle perdite umane in battaglia.

Tutto questo nel nostro reportage video da Erbil.

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Iraq, la missione “Prima Parthica” addestra i Peshemerga contro Daesh

Asia/Difesa di

In questi giorni viene annunciata la liberazione di gran parte della città di Mossul. Combattendo strada per strada tra le rovine di un citta che ospitava nel 2014 circa 1.500.000 di abitanti, le truppe iraqene insieme ai Zerawani e i Peshmerga curdi stanno ripulendo la città dai terroristi di Daesh.

Una battaglia durata due lunghi anni durante i quali la popolazione civile ha subito il governo tirannico e sanguinoso dei terroristi neri.

L’applicazione letterale della Sharia, le persecuzioni ai cristiani, agli ebrei e ai mussulmani sciiti hanno reso la vita dei cittadini di Mossul un vero incubo.

Uccisioni di massa, arresti e giudizi sommari hanno scandito la quotidianità di questa città.

A questa barbarie gli unici che si sono opposti immediatamente diventando la prima linea del fronte anti Daesh sono stati i peshmerga, male armati e senza grandi nozioni di tattica e strategia si sono difesi con coraggio unico.

Nel settembre del 2014 la comunità internazionale decide di opporsi al dilagare di daesh con una coalizione internazionale di volenterosi, di cui fa parte anche l’Italia, con il compito di supportare le truppe iraqene nella battaglia per il ripristino delle condizioni di sicurezza interna al paese.

Questo supporto include attività di addestramento del personale iraqeno, Zerwani e Peshmerga, supporto tattico aereo, supporto tattico terrestre con artiglieria pesante, supporto nelle attività di intelligence.

Con base ad Erbil il contingente interforze italiano è attivo con la missione “Prima Parthica” con compiti di Addestramento delle forze Iraqene, Zerawani e Peshmerga, di supporto tattico aerotrasportato con la missione “Personal recovery” delle unità dell’AVES e di addestramento nelle procedure e tattiche di polizia e sicurezza svolto dalle unità dei carabinieri.

Ad Erbil Alessandro Conte, direttore di European Affairs, ha incontrato il personale della missione italiana e realizzato una serie di reportage che verranno pubblicati settimanalmente per tutto il mese di febbraio.

Ecco il primo.

 

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Il Ministro della Difesa italiano Pinotti vola a Mosul

Asia/Difesa di

In vista del nuovo impegno in Iraq pianificato per proteggere le operazioni di messa in sicurezza dell’imponente diga di Mosul il Ministro Pinotti si reca in visita alle forze italiane di che operano a Erbil.

Le forze presenti nella città appartengono al 5° Reggimento Aviazione “Rigel” e al 7° “Vega” della Brigata aeromobile “Friuli” dell’Esercito italiano, appoggiati dal reggimento di fanteria aviotrasportata del 66° “Trieste“.

Il loro compito è quello di fornire CSAR, Combat search and rescue, ossia operazioni di recupero, ricerca e salvataggio in ambienti ostili.

A questi verranno affiancate nuovi elementi che avranno il compito di garantire la sicurezza degli operatori civili della società TEVI che si occuperà dei lavori alla diga.

04022018-4ebd-4632-854d-cf330aef75c706MediumLa diga si trova a circa 20 chilometri da Mosul e l’area al momento è interessata da combattimenti tra le forse del governo Irakeno e i terroristi del Daesh che hanno avuto il controllo della zona fino a pochi mesi fa.

Durante la visita il Ministro Pinotti ai militari presenti a Erbil ha confermato il forte apprezzamento per il oro lavoro “La missione che state svolgendo con grande competenza, professionalità e umanità – ha detto durante il suo discorso – è fondamentale per la sicurezza dell’Iraq e del nostro Paese. Sconfiggere il terrorismo deve essere un obiettivo prioritario della comunità internazionale. Grazie perché con il vostro lavoro tenete alto l’onore dell’Italia”.

Con l’invio dei nuovi 500 elementi delle Forze Armate l’Italia diventa il secondo Paese più importante nella coalizione anti Isis. Un impegno che nasce dalla ferma volontà di contrastare l’attività dei terroristi.

Terrore in Turchia: Curdi o Erdogan?

Medio oriente – Africa di

Due donne, verosimilmente appartenenti a gruppi di estrema sinistra, hanno aperto il fuoco ad Ankara uccidendo due vittime. La notizia è delle ultime ore. Qualche giorno prima, il 17 febbraio, un attentato terroristico ha provocato sempre ad Ankara l’uccisione di 28 persone, per lo più militari ed il ferimento di altre 64.

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Nella mattinata a Diyarbakir, principale città curda nel sud-est della Turchia, un’altra esplosione ha freddato 7 soldati turchi. La paternità, come annunciato direttamente attraverso il sito portavoce, è stata rivendicata dal Kurdistan Freedom Hawks (Tak), gruppo militare curdo. L’attentato suicida organizzato dai Falconi della libertà è stato organizzato per osteggiare quella che viene definita “repubblica turca fascista” e per contrastare le politiche anti curde del presidente Recep Tayyip Erdogan. Il Kurdistan Freedom Hawks si è allontanato nel 2005 dal Pkk, il partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan che, dall’estate scorsa, ha rotto la tregua fino a quel momento stabilita con Ankara.

Il gioco delle elezioni, organizzate a giugno e poi ripetute qualche mese dopo per volere Erdogan, orfano della maggioranza persa grazie all’impennata del partito curdo Hdp di Selahattin Demirtas, ha provocato una nuova frattura. Attentati, persecuzioni, tentativi, riusciti, di imbavagliare la stampa nazionale hanno devastato il paese e confuso la comunità internazionale a proposito della paternità degli stessi. I curdi si dichiarano per lo più estranei, pronti a scaricare la responsabilità degli attacchi a Erdogan che a sua volta li rimbalza su di loro.

Il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu ha coinvolto nelle attribuzioni di responsabilità relative all’attentato anche le Unità di Difesa del Popolo curde, le YPG operative in Siria, che prontamente si sono definite estranee. A parere del Comando Generale delle YPG, l’accusa serve ad Ankara per aprire la strada a un’offensiva nel Rojava e in Siria, dove le forze delle Unità di Difesa del Popolo stanno difendendo i curdi da ISIS e Al-Nusra. Sicuramente l’ attentato del 17 febbraio, ha offerto la possibilità a Erdogan di ribadire ancora una volta ad Obama le sue convinzioni, relative al profilo terroristico del Partito siriano dell’Unione democratica curda (Pyd), al quale l’YPG è legato, insinuando che le armi a loro fornite dalla coalizione vengano prontamente consegnate a Isis. Ciò che in pratica il governo di Ankara pare faccia da mesi. Erdogan vorrebbe che il Pyd fosse inserito da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ma Washington tiene duro e non si piega ai desideri di Erdogan. I curdi, vessati dalla Turchia, sono ora al centro della crisi che sta sconvolgendo il Medio Oriente. La regione autonoma del Kurdistan iracheno vive ancora in uno stato di grazia mentre attorno si sta scatenando l’inferno. Le milizie curde sono impegnate in Siria contro Isis e la coalizione internazionale continua a dare loro fiducia anche per ragioni logistico e tattiche.

I gruppi curdi presenti e operativi in Turchia sono diversi. La sigla più nota è quella del PKK, il partito dei lavoratori curdi e simbolo del movimento separatista che Abdullah Ocalan ha fondato in Turchia. Il Pkk è considerato a tutti gli effetti gruppo terroristico per Stati Uniti, Unione Europea e Turchia. La lotta contro il governo di Ankara ha provocato dal 1980 circa 40.000 vittime. Il testimone è passato oggi a due organizzazioni, il Movimento Patriottico Giovanile, organizzazione paramilitare formata da simpatizzanti del PKK e le Unità di Protezione Civile. Al loro fianco si schierano i Falconi della Libertà, i Tak, un tempo ramo del PKK. A livello politico, i curdi sono rappresentati dall’HDP di Demirtas, il Partito Democratico Popolare, coalizione di sinistra nella quale si riconoscono anche altre minoranze turche, le stesse che hanno decretato il suo successo durante le elezioni, poi invalidate, del giugno scorso nel quale l’AKP di Erdogan ha perso la maggioranza. Gli attentati che hanno insanguinato la Turchia nel periodo trascorso fra i due appuntamenti elettorali, e che Erdogan ha prontamente attribuito ai curdi, ha permesso all’AKP di impossessarsi nuovamente della maggioranza.
In Siria i curdi sono rappresentati dall’Unione Democratica curda, il PYD, che ha ritagliato nel nord del paese una porzione di territorio, il Rojava. I turchi considerano il PYD come il ramo siriano del PKK e sono contrari alla creazione di un corridoio curdo in Siria. Usa e Russia, al contrario, hanno fino ad ora sostenuto l’operato del PYD, che si è rivelato uno degli strumenti più efficaci nella lotta contro i crimini compiuti dallo Stato Islamico. Le Unità di Difesa del Popolo curde, le YPG sono le milizie associate al PYD nelle quali è inserito anche una componente femminile, definite YPJ. Le YPG hanno attirato centinaia di giovani curdi dalle città della Turchia pronte a difendere le roccaforti curde in Siria. E’ su di loro che Ankara ha cercato di attirare le accuse dell’attentato del 17 febbraio scorso poi smentite dallo stesso movimento. Ed è su di loro che i militari turchi dirigono gli attacchi che ufficialmente dovrebbero essere rivolti ai terroristi dell’Isis.
In Iraq i Peshmerga, l’esercito ufficioso della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno, hanno svolto un ruolo fondamentale nel tentativo di contrastare la penetrazione dello Stato Islamico. In questa porzione eletta di territorio curdo, continuano a rivaleggiare i due partiti di punta, il democratico PDK e il patriottico PUK. Sulla bilancia degli interessi, i piatti – curdi da un lato e turchi dall’altro – continuano a danzare. La speranza curda è di ottenere vantaggi per coronare il sogno, mai svanito, di riconquistare una patria. La speranza turca è di arrivare a resuscitare i fasti dell’antico impero ottomano. Ma se da un lato i curdi stanno guadagnando con il sangue la fiducia della comunità internazionale, i turchi fanno di tutto per demolire agli occhi della stessa la credibilità curda. In questo clima è lecito pensare a reazioni violente da parte dei curdi, da anni oppressi, ma non esclusive. Erdogan è abituato a costringere quando non riesce a ottenere spontaneamente. E la situazione che in Turchia sta diventando sempre più drastica ne è una prova.

 

Monia Savioli

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Mosul e i dubbi sull’invio dei militari italiani a difesa della diga

Asia/Difesa di

È la più grande dell’Iraq e la quarta in tutto il Medio Oriente. Stiamo parlando della ormai famosa diga di Mosul, emblema, da mesi, di un eventuale nuovo intervento militare da parte dell’Italia sul territorio iracheno.

Lo scorso dicembre, infatti, il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha dichiarato che lo stato attuale della diga è seriamente compromesso e dal momento che l’appalto per la rimessa in sicurezza sembrerebbe vinto da un’azienda italiana, la Trevi S.p.a., l’unica ad aver presentato l’offerta economica per la manutenzione della diga, il governo sarebbe disposto ad inviare 450/500 militari a difesa dei tecnici che lavoreranno sul posto. L’annuncio di Renzi fa eco su tutti i giornali online e offline, alimentando anche perplessità sull’impiego strategico di un contingente sul posto. Generalmente, infatti, le grandi aziende che operano in aree di crisi, si autofinanziano per la propria sicurezza attraverso agenzie di contractors che vengono ingaggiati per la sicurezza dei propri dipendenti.

Quale obiettivo strategico si nasconde dietro alle parole del Presidente del Consiglio? Ancora non è chiaro e in risposta alle dichiarazioni di Renzi, c’è subito la contropartita del Ministro della Difesa, Roberta Pinotti, che ha assicurato che i militari italiani interverranno solo ed esclusivamente a protezione del sito. Ricordiamo che Mosul è la seconda città dell’Iraq e che ha visto l’avanzata del sedicente Stato islamico per poi essere riconquistata dai combattenti peshmerga che controllano tuttora la zona. Ma Mosul, definita anche attuale capitale del califfato nel nord dell’Iraq, oggi è anche teatro dei raid americani. È solo di un paio di giorni fa infatti, la notizia del bombardamento del deposito di denaro dell’Isis.

Intanto, sull’ipotetico intervento militare italiano in Iraq, si esprime anche il ministro delle risorse idriche iracheno, Mushsin Al Shammary, che in un colloquio con l’ambasciatore italiano, ha affermato che l’Iraq “non ha bisogno di alcuna forza straniera per proteggere il suo territorio, i suoi impianti e la gente che ci lavora”, e che ogni eventuale dispiegamento di truppe italiane sul territorio iracheno, potrà avvenire solo ed esclusivamente attraverso intese con il governo locale. Allo stato attuale mancano le basi degli accordi internazionali tra i due governi e per la Trevi si allunga l’attesa, così come per la diga, la cui distruzione rischia di mettere in pericolo la popolazione delle province di Ninive, Kirkuk e Salahuddin, causando danni nella pianura dell’Eufrate fino a Baghdad, 350 chilometri a sud di Mosul.

Paola Longobardi

Redazione
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