GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Elezioni

Le elezioni presidenziali in Bielorussia tra proteste e arresti

EUROPA di

Domenica 9 agosto si sono tenute le elezioni presidenziali in Bielorussia e dalle 08:00 ora locale, Alexander Lukashenko e Svetlana Tikhanouskaya, i due principali candidati, si sono sfidati in un clima tutt’altro che pacifico. Già negli ultimi mesi la situazione è risultata particolarmente delicata, con l’esclusione dalla corsa alle elezioni e gli arresti di numerosi candidati all’opposizione da parte del Presidente in carica; la notte prima delle elezioni vi sono stati nuovi numerosi arresti e dal giorno delle elezioni in poi vi sono state molteplici proteste contro il sistema vigente, i brogli elettorati e le violenze dello Stato. Nonostante l’assenza di risultati ufficiali, Lukashenko ha affermato di aver vinto le elezioni presidenziali con l’80% dei voti, a dispetto di quanto anticipato dai sondaggi indipendenti. Non sono mancate, dunque, le critiche della comunità internazionale, dai leader dei paesi europei fino ai rappresentanti delle istituzioni di Bruxelles.

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ODIHR: Skopje, avvio al secondo turno delle elezioni competitive, nel rispetto delle libertà fondamentali

Europe di

Skopje – L’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani (ODIHR) dell’OSCE, ha comunicato l’avvio del secondo turno delle elezioni sindacali nella provincia della Repubblica Jugoslava della Macedonia. Elezioni competitive che seguono le linee democratiche, nel rispetto delle libertà fondamentali.

I media continuano a fornire una copertura equilibrata delle contestazioni, ma le notizie restano oscurate dalla campagna pubblicitaria negativa. Nonostante l’insufficiente disposizione di personale di controllo delle urne, il giorno delle elezioni è stato gestito complessivamente in maniera professionale. La coalizione di governo ha approvato il processo di voto, mentre i partiti di opposizione non hanno riconosciuto la validità dei risultati, citando presunte violazione precedenti e durante la giornata elettorale.

I partiti concorrevano supportati dalle proprie basi politiche tradizionali. Allo stesso tempo, hanno utilizzato retoriche aggressive, riportando casi isolati di incidenti relativi alle risorse statali e alla vendita di voti”, queste le parole dell’Ambasciatore Audrey Glover, a capo della missione di monitoraggio dell’ODIHR. “Il rispetto delle libertà fondamentali ha portato alla conduzione di elezioni democratiche”.

Sessantotto erano i candidati per gli 8 partiti, tra cui due indipendenti, che hanno preso parte al secondo turno dell’elezioni dei 35 municipi. Tra questi, sei candidate donne.

I concorrenti, hanno ridisegnato le proprie campagne elettorali, al fine di indirizzare il target degli elettori indecisi. Alcuni partiti, inoltre, hanno sollevato preoccupazioni relative all’impegno da parte del Primo Ministro di fornire sostegno a quei comuni i cui sindaci fanno parte della coalizione di governo.

La cornice legale segue la condotta delle elezioni democratiche, dove molte delle previsioni del Codice Elettorale sono state applicate durante questo secondo turno, nonostante non vi sia una chiarezza normativa su alcuni aspetti”, ha detto l’Ambasciatore Glover. “Mentre la Commissione Statale per le Elezioni ha incrementato la trasparenza dei lavori tra il primo e il secondo turno, non ha adeguato un piano addizionale, né provveduto a un’educazione al voto e al supporto finanziario per tutte le municipalità il cui budjet è stato bloccato. Nonostante ciò, le performance nel giorno delle elezioni, sono state regolari”.

La legge non prevede un aggiornamento delle liste tra il primo e il secondo turno, emarginando effettivamente gli elettori che compiono 18 anni in questo periodo. La Commissione Statale per le Elezioni (SEC) ha adottato la decisione secondo cui gli elettori il cui nome compare nelle liste elettorali, ma il cui documento è scaduto, non sono abilitati al voto.

Il sistema di denunce nella giornata delle elezioni, risulta essere centralizzato. La SEC ha esaminato e respinto tutte le 46 denunce pervenute successivamente al primo turno, in quanto non è stato rispettato il termine di 48 ore: tutti i casi sono stati decisi all’apertura della sessione e le conclusioni pubblicate online, per contribuire alla trasparenza.

Dalla Cambogia e dalla comunità hindu-americana si alzano voci in favore di Trump

Asia di

A pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane, mentre la campagna elettorale più corrosiva che si ricordi si avvia alla conclusione in un clima di assoluta incertezza, il candidato Trump incassa il sostegno del premier della Cambogia e di un gruppo repubblicano Hindu. All’origine di queste prese di posizione, in entrambi i casi, sta il timore che una vittoria della Clinton possa determinare una politica estera contraria agli interessi di Cambogia e India. Andiamo per ordine.

Hun Sen, primo ministro cambogiano, uomo forte del piccolo paese del sud-est asiatico al potere da circa trent’anni, ha espresso oggi il proprio auspicio che sia Donald Trump a uscire vincitore dalle urne, martedì prossimo. Una sua elezione, sostiene Sen, garantirebbe un alleggerimento delle tensioni tra USA e Russia e il mantenimento della pace a livello globale. Hun Sen è sotto pressione in vista delle elezioni interne del 2018, accusato da USA, ONU e Unione Europea di non garantire il rispetto dei diritti umani nel paese e di scarso impegno sul fronte della lotta alla corruzione. Una vittoria di Trump porterebbe ad un ammorbidimento delle posizioni da parte degli Stati Uniti? Sen, evidentemente, se lo augura.

Durante un discorso all’accademia nazionale di polizia, il premier ha così spiegato il suo endorsement: “Per essere onesto, io vorrei veramente che Trump vincesse le elezioni. Se dovesse vincere, il mondo cambierà in meglio, perché Trump è un uomo d’affari e, in quanto tale, non vorrà mai la guerra”. Inoltre, il tycoon sarebbe un buon amico di Vladimir Putin e della Russia, a sua volta alleato strategico della Cambogia fin dalla caduta, nel 1979, del regime di Pol Pot.

La Clinton, con la quale Hun Sen si è incontrato diverse volte quanto ricopriva il ruolo di Segretario di Stato, rappresenterebbe invece un rischio per il futuro delle relazioni tra USA e Russia e sarebbe promotrice di una politica estera aggressiva su tutti gli scacchieri. L’intervento americano in Siria sarebbe stato determinato, secondo Sen, dalle pressioni esercitate dalla Clinton sul presidente Obama. Un precedente che darebbe la misura dei rischi rappresentati da una eventuale vittoria del fronte Democratico alle elezioni di martedì prossimo.

Le voci che si alzano da alcuni settori della comunità hindu negli USA in favore di Donald Trump sono meno autorevoli forse, ma comunque rappresentano un interessante elemento di analisi per capire come le diverse comunità del melting-pot americano guardino alle elezioni presidenziali attraverso la lente dei propri interessi specifici.

La Republican Hindu Coalition (RHC), un’ organizzazione filo-repubblicana di ispirazione Hindu, ha diffuso su doversi canali televisivi americani alcuni spot indirizzati contro Hillary Clinton, accusata di essere eccessivamente filo-pakistana. La Candidata democratica avrebbe indirizzato verso il nemico storico del’India miliardi di dollari in aiuti, avrebbe venduto armi al regime di Islamabad e accetterebbe finanziamenti da parte di individui e organizzazioni pakistane filo-islamiste. Infine, la RHC si scaglia contro il marito ed ex-presidente Bill Clinton, considerato troppo vicino alle posizioni Pakistane in relazione alla questione Kashmir, e contro l’assistente personale di Hillary, Huma Abedin, per metà indiana e per metà Pakistana, accusandola di sostenere indirettamente il terrorismo islamico. “Vota Repubblicano – recita lo spot – per te, per le relazioni USA-India e per l’America”.

Non tutta la comunità indo-americana è favorevole al candidato Trump, ovviamente. L’Indian American Supporters of Clinton ha attaccato lo spot dell’organizzazione rivale RHC, definendolo “Ingannevole, scorretto e falso.”

Sia fuori che dentro i confini americani, il mondo guarda alle elezioni presidenziali dell’8 novembre 2016 esprimendo i suoi diversi punti di vista.

Il premier Giapponese si fida di Trump

AMERICHE/Asia di

“Sono convinto che Trump sia un leader affidabile”. Dopo l’incontro di giovedì nella Trump Tower di Manhattan, il premier giapponese Shinzo Abe, primo leader mondiale ad incontrare il presidente-eletto Trump, si è detto certo che la nuova amministrazione americana si dimostrerà un partner affidabile per il suo paese. Di fronte ai cronisti il premier giapponese ha definito come “franco e sincero” il suo incontro con Trump.  “Il colloquio – ha dichiarato – mi ha convinto che possiamo costruire una relazione di fiducia reciproca.”

Probabilmente il governo giapponese sperava in una vittoria di Hillary Clinton alle elezioni americane dello scorso 8 novembre, anche in ragione delle dichiarazioni poco rassicuranti fatte da Trump in campagna elettorale. Abe aveva registrato con un certo allarme alcune affermazioni del candidato Trump circa la necessità per il Giappone di contribuire maggiormente, in termini economici, all’assistenza delle truppe americane sul suolo nipponico e di dotarsi di un arsenale nucleare come deterrente alle minacce della Corea del Nord. Un altro punto problematico emerso durante la campagna elettorale riguarda l’opposizione dichiarata da Trump all’accordo commerciale di Partnership Trans-Pacifica, su cui invece il governo giapponese ha fortemente puntato. Abe ha dunque voluto incontrare Trump per esprimere le proprie preoccupazioni e, al contempo, ribadire l’impegno del suo governo per rafforzare l’alleanza con gli USA, oggi più che mai centrale per il Giappone in termini diplomatici e strategici, soprattutto per contenere la Cina e le sue mire egemoniche sull’area del pacifico.

Il premier Abe non ha però fornito troppi particolari sui contenuti del colloquio. Sostanzialmente si è trattato di un incontro preliminare, di reciproca conoscenza, nel quale i due leader hanno evitato di scendere nel dettaglio. E’ stato però concordato che dopo il 20 gennaio, giorno dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, verrà concordato un nuovo incontro per “coprire un’area più vasta di questioni in modo più approfondito”. “Ogni ulteriore approfondimento – ha ribadito Kellyanne Conway, influente membro del team elettorale di Trump – circa le relazioni politiche tra Giappone e Stati uniti dovrà attendere fino al momento dell’inaugurazione (della nuova amministrazione)”.

Sembra comunque che l’incontro sia servito a ridimensionare le preoccupazioni giapponesi sulle future iniziative del nuovo presidente USA sullo scacchiere asiatico. Katsuyuki Kawai, consigliere del presidente Abe, ha incontrato a Washington diversi membri del transition team e alcuni legislatori, ricevendo rassicurazioni sul futuro delle relazioni USA-Giappone. “Non dobbiamo prendere ogni parola pronunciata pubblicamente dal sig. Trump in senso letterale”, ha dichiarato dopo il tour di colloqui.

L’incontro, nelle dichiarazioni dei protagonisti, è dunque servito a ribadire la solidità del legame tra i due alleati. Alcuni analisti considerano però prematura l’iniziativa del primo ministro giapponese, dal momento che Trump non ha ancora assunto ufficialmente la presidenza ed è completamento assorbito dalla formazione della propria squadra di governo. Koichi Nakano, politologo della Sophia Univesrity intervistato dalla CNN, ha espresso il suo scetticismo sulla mossa di Abe: “Cosa ci vuole guadagnare? Non ne ho idea. Non ha neanche parlato con un vero presidente, allo stato attuale”.

Meno categorico Jeffrey Kingston, direttore del dipartimento di Studi Asiatici alla Japan’s Temple University, che, interpellato nuovamente dalla CNN, ha dato una lettura positiva del colloquio, quanto meno dal punto di vista del primo ministro giapponese. Secondo Kingston infatti, Abe avrebbe una particolare simpatia per una certa categoria di leader, alla quale lo stesso Trump rischia di appartenere. “Se guardiamo alle figure che Abe ammira, a livello mondiale, vediamo che gli piacciono i leader forti come Putin, Modi e Erdogan, quelli che anno tendenze dispotiche”.

Al di là delle simpatie personali, la nuova amministrazione Trump dovrà guardare con grande attenzione all’Asia nei prossimi anni e si troverà a fronteggiare una Cina sempre più forte. In tale contesto l’alleanza col Giappone rivestirà un ruolo strategico ed imprescindibile.

Aung San Suu Kyi vuole liberare i prigionieri politici

Asia di

Dopo il giuramento di Htin Kyaw, il primo presidente democraticamente eletto del Myanmar dopo 56 anni di dittatura militare, continua il percorso di cambiamento del paese del sud-est asiatico.

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Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace e leader della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), di cui il governo è diretta espressione, non ha potuto assumere il ruolo di Primo Ministro a causa di una norma costituzionale che era stata introdotta dalla giunta militare per scongiurare il rischio di una sua salita al potere. L’”Orchidea di acciaio” però, fin dalla campagna elettorale conclusasi con le elezioni dello scorso novembre, aveva promesso ai cittadini del Myanmar che, in caso di vittoria, avrebbe governato il paese anche senza essere premier.

Per permetterle di rispettare l’impegno, il nuovo Parlamento ha creato una posizione ad hoc per San Suu Kyi, assegnandole il ruolo di Consulente di Stato. In tale veste ufficiale, la leader del partito può direttamente contattare e convocare ministri, dipartimenti, organizzazioni, associazioni e singoli individui per discutere delle questioni al centro dell’agenda di governo. Una posizione che, di fatto, permette a Suu Kyi di governare indirettamente, attraverso il Presidente “delegato” Htin Kyaw.

Una delle prime questioni su cui Aung San Suu Kyi intende far valere il suo peso è quella dei prigionieri politici. Giovedì scorso il premio nobel, con un post su Facebook, ha affermato la sua intenzione di impegnarsi per un’amnistia di massa che permetta la liberazione dei prigionieri politici, degli attivisti  e degli studenti incarcerati dalla giunta militare nel corso degli ultimi anni.

L’incarcerazione arbitraria di migliaia di attivisti per la democrazia è stata una drammatica costante durante i decenni della dittatura, e la stessa Suu Kyi ha vissuto per 15 anni agli arresti domiciliari. Anche molti dei parlamentari recentemente eletti hanno provato sulla propria pelle la repressione del regime e le privazioni  della vita del carcere.

Il governo di transizione semi-civile, che è stato al potere dal 2011 al 2015, aveva già concesso la libertà a centinaia di detenuti politici, ma secondo le stime ci sono ancora 90 attivisti imprigionati e altri 400 in attesa di giudizio. Circa 70 di questi sono studenti arrestati prima delle elezioni dello scorso novembre con l’accusa di aver partecipato ad assemblee illegali o di aver preso parte, nel marzo 2015, alle proteste di piazza contro la riforma scolastica, duramente represse dalla polizia. Dopo più di un anno, i processi in molti casi devono ancora giungere a sentenza.

La decisa iniziativa di Suu Kyi, che fa presagire un intervento diretto, a breve, da parte del premier Kyaw, potrebbe spingere il pubblico ministero a far cadere le accuse contro gli studenti. Le difficoltà però sono ancora molte, considerando anche le profonde inefficienze del sistema giudiziario del Myanmar.

Il primo dei problemi, ancora una volta, è rappresentato dall’esercito, a cui l’attuale costituzione garantisce un quarto dei seggi parlamentari e la  guida di alcuni tra i ministeri più importanti. Il potere dei militari, in Myanmar, è stato mutilato ma è ancora forte e diffuso. Ogni riforma democratica dovrà inevitabilmente fare i conti con le loro resistenze.

 

Luca Marchesini

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Germania divisa sull’immigrazione

EUROPA/POLITICA di

“Un giorno difficile” per il partito, così si è espressa la Cancelliera tedesca Angela Merkel all’indomani delle elezioni regionali tedesche, tenutesi il 15 marzo scorso. Il CDU (Christlich Demokratische Union) perde, infatti, la maggioranza in due stati federali su tre, Baden-Wuttemberg e Renania-Palatinato. Un risultato significativo: seppur il CDU resti la forza di maggioranza, vediamo emergere nettamente le posizioni dell’Alternative für Deutschland (AfD), partito di estrema destra guidato da Frauke Petry. Tema della discordia: le politiche sull’immigrazione.

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In risposta alla crisi dei rifugiati provenienti dalla Siria e da altri paesi del Medio Oriente, la Cancelliera Merkel da mesi sostiene la politica dell’open-door, in base alla quale la Germania garantisce asilo ai rifugiati e ai migranti provenienti dalle zone di guerra. Nel corso del 2015, più di un milione di persone hanno attraversato la frontiera tedesca. Una politica “umanitaria”, che si distanzia, tuttavia, dalle posizione prese da altri paesi europei, come la Slovenia che ha optato per la chiusura delle frontiere, o l’Austria, che ha imposto controlli più severi ai confini e un tetto massimo di rifugiati da accogliere.

Diametralmente opposta la posizione dell’AfD, fautore della chiusura delle frontiere. “Asylchaos beenden” -il motto del partito- esprime chiaramente un senso di preoccupazione per la stabilità interna del paese. L’AfD sostiene una linea politica conservatrice, votata alla difesa dei valori tradizionali cristiani. L’afflusso costante e corposo degli immigrati musulmani viene percepito come una minaccia a questi valori: un atteggiamento xenofobo, dunque, che pare trovare sempre maggior appoggio tra la popolazione tedesca.

Tra i voti a favore dell’AfD, infatti, non vi sono solo quelli dell’estrema destra tradizionale. Si uniscono al coro anche molti conservatori, tradizionalmente più vicini alle posizioni del CDU ma disillusi dalle politiche centriste promosse dalla Merkel. L’alternativa populista offerta dal partito della Petry sembra, invece, avvicinarsi maggiormente alle esigenze e alle idee di questa componente.

Ci troviamo di fronte ad un elettorato tedesco fortemente polarizzato. Da un lato, chi ha sostenuto e continua a sostenere le politiche di apertura della Merkel, per la quale la paura più concreta non è l’afflusso dei rifugiati, bensì la chiusura delle frontiere. Così facendo, si metterebbero in pericolo i principi cardine dell’Unione Europea, come la libera circolazione delle persone, il libero commercio e la moneta unica. Dall’altro lato, invece, l’estrema destra xenofoba punta su un approccio più radicale, volto a difendere l’integrità e la sicurezza nazionale a scapito dei valori comunitari come, appunto, la libera circolazione.

Copione già visto: in Francia con l’ascesa del partito estremista della Le Pen ed ora negli Stati Uniti con i successi di Trump. Sembra crescere, dunque, nei paesi occidentali l’insofferenza verso politiche troppo permissive circa l’arrivo di stranieri. E il senso di insicurezza dovuto alle continue minacce e agli attentati compiuti in diverse capitali europee di certo non favorisce una linea di pensiero più aperta.

Sullo sfondo di questo contrasto interno troviamo, inoltre, le trattative condotte dalla Bundeskanzlerin in ambito UE con la Turchia, nell’ottica di siglare un accordo sugli immigrati. La nazione di Erdogan ha recentemente richiesto altri tre miliardi di finanziamenti in aggiunta ai tre già previsti, proponendo un meccanismo di scambio tale per cui per ogni profugo siriano riammesso, l’UE ne accolga uno già residente in Turchia. Richieste “comprensibili”, secondo la Germania; diversa, invece, la reazione di altri leader europei, come il premier belga Charles Michel che definisce l’accordo come una sorta di ricatto.

Tuttavia, né l’esito delle elezioni, né i pareri diversi in seno all’UE hanno fatto cambiare idea alla Merkel: nessuna inversione di rotta nella open door policy, mentre l’accordo con la Turchia rimane l’unica strada possibile per risolvere la crisi.

Probabili, dunque, le ripercussione sia a livello nazionale che europeo. In Germania, la CDU non rischia soltanto di vedere crescere l’estrema destra, ma mette a repentaglio la stabilità interna del partito. Lo stesso Horst Seehofer, leader della CSU, partito gemello della CDU in Bavaria, ha pesantemente criticato le scelte della Merkel, affermando che di fronte a simili risultati elettorali l’unica risposta accettabile sia una cambiamento della linea politica. A livello europeo, la distanza tra una Germania in prima linea nell’Unione e gli altri Membri mette ancora una volta in dubbio la credibilità e la stabilità dell’istituzione nonché l’efficacia di un qualunque accordo con la Turchia. Considerando che sono molti i paesi europei ad avere interessi in gioco, una risposta europea deve obbligatoriamente tenere in considerazione le diverse esigenze. E se la Merkel vuole continuare a mantenere la leadership non può chiudere gli occhi sulle posizioni altrui.

 

Paola Fratantoni

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Iran: corsa alle urne nel paese degli Ayatollah

26 febbraio 2016. Data storica per l’Iran che per la prima volta dopo la fine delle sanzioni internazionali chiama i suoi cittadini alle urne per una doppia votazione, Parlamento e Assemblea degli Esperti. Il voto è un test per la popolarità del Presidente Hassan Rouhani, dal 2013 impegnato in riforme politiche e sociali di apertura verso l’Occidente. L’esito del voto, infatti, serve a capire quanto la linea riformista del presidente si sia radicata nella società e quali possano essere i futuri sviluppi per la Repubblica.

La prima votazione riguarda il Parlamento nazionale, Majlis, composto da 290 seggi, di cui soltanto 5 destinanti ad esponenti delle minoranze religiose non musulmane. Il Parlamento è l’organo legislativo del paese, cui spetta il compito di approvare le leggi, il budget annuale e i trattati internazionali. Fino ad oggi, la maggioranza, conservatrice e fondamentalista, è stata in netto contrasto con le politiche avanzate da Rouhani. È chiaro come un nuovo assetto possa influenzare le future azioni del paese, nonché la sua posizione nei giochi internazionali. “Avete creato una nuova atmosfera con il vostro voto” ha twittato il presidente dopo l’esito delle votazioni.

L’Assemblea degli esperti, invece, è composta da 88 membri, esclusivamente accademici islamici, in carica per otto anni. È di fatto l’organo più significativo in quanto elegge la Guida Suprema del paese, la figura politica e religiosa con maggior potere. Considerando le cattive condizioni di salute dell’attuale leader, l’Ayatollah Ali Khamenei, è altamente probabile che sarà la neo-eletta Assemblea a scegliere il suo successore.

Non si tratta, dunque, solo di una nomina di consiglieri, ma di una scelta tra due linee politiche opposte. La prima fa capo all’attuale presidente Rouhani ed è caratterizzata da un’apertura, soprattutto economica, verso l’Occidente ed un tentativo di promuovere un’immagine positiva del paese fondamendalista. Dall’altro lato, invece, troviamo la Guida Suprema Khamenei, conservatore ed apertamente anti-occidentale, portavoce di una politica che mira a perseguire un’economia di resistenza ed un sistema politico basato sul potere delle Guardie Rivoluzionarie.

Il risultato delle elezioni, cui ha partecipato il 60% dell’elettorato (circa 33 milioni di persone) potrebbe avere risvolti significativi per il futuro della Repubblica Islamica. La vittoria è andata ai riformisti, con 96 seggi vinti in Parlamento, contro i 91 dei fondamentalisti e i 25 degli indipendenti. Bisogna, tuttavia, sottolineare due aspetti: in primis, il concetto di “riformisti” va letto alla luce dei parametri iraniani. Il riformismo di cui si parla è lungi da essere il nostro riformismo. Si tratta sempre di fondamentalismo, seppur mascherato da una forma di apertura verso le democrazie occidentali. Basti pensare che i veri riformisti sono stati esclusi dalla lista dei candidati eleggibili sia nell’Assemblea che al Parlamento.

Secondo punto da non tralasciare riguarda la base elettorale dei voti. I riformisti hanno guadagnato terreno nelle aree metropolitane, mentre i fondamentalisti si sono affermati maggiormente nelle zone rurali, dove vive un terzo della popolazione. Tuttavia, le otto città principali, dove risiedono circa metà degli iraniani, hanno ottenuto soltanto 57 dei 290 seggi in Parlamento. Tenendo conto che 52 seggi verranno assegnati tramite ballottaggio a fine aprile, sembra che i giochi siano ancora aperti.

Cosa aspettarsi dunque?

Maggiore apertura probabilmente sì ma non significa, come alcuni pensano (o sperano), che l’Iran assumerà le sembianze di una democrazia occidentale. È probabile, nonché auspicabile, una distensione nei rapporti con il mondo occidentale. Rimane fermo il fatto che l’Iran è regime fondamentalista basato sulla Shri’a, dove ad oggi non è data voce alle correnti più riformiste, fautrici di cambiamenti significativi in senso opposto al sistema politico, economico e sociale vigente. Riformismo non è sinonimo di democrazia.

Inoltre, è difficile pensare che i fondamentalisti si arrendano facilmente a questi risultati. Come le percentuali mostrano, le loro idee sono prevalentemente radicate nella società rurale, che può influire considerevolmente sulla composizione finale del Parlamento. Non solo. Se Teheran ha festeggiato i risultati elettorali, diversa la reazione a Qom, il cuore sciita della Repubblica Islamica. “Le persone del vero Iran abitano qui, noi rispettiamo e seguiamo il sentiero dell’Ayatollah Khomeini e dobbiamo proteggere i nostri valori” afferma irremovibile un impiegato 23enne.

Gli interrogativi sul futuro del paese, dunque, rimangono. Nonostante la vittoria dei riformisti, forti correnti fondamentaliste permangano non soltanto tra l’élite politica ma anche tra la popolazione. Inevitabilmente, un cambiamento ci sarà ma è bene mantenere i piedi per terra. Resta da vedere, infatti, se ed in che termini la via del riformismo plasmerà un Iran effettivamente più vicino al mondo occidentale, o se il fondamentalismo hard-line troverà il modo di recuperare il terreno perso, frenando quel processo di apertura avviato negli ultimi anni da Rouhani.

Myanmar: Suu Kyi e la transizione pacifica

Sud Asia di

Per il nuovo Myanmar di Aung Saan Suu Kyi è giunto il tempo dei “colloqui di pace”. Dopo la vittoria della Lega Nazionale della Democrazia (NLD) nelle elezioni di tre settimane fa, la leader del movimento, storica attivista per i diritti umani della ex-Birmania, ha incontrato il presidente Thein Sein, Capo del Governo che nel 2011 ha segnato l’inizio della transizione democratica del paese, dopo 49 anni di dittatura militare.

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L’incontro è durato 45 minuti, durante i quali sono stati discussi i termini di un passaggio di consegne indolore tra l’esecutivo in uscita, di stampo civile ma sostenuto e nominato dalla Giunta, ed il nuovo governo della NLD, vincitrice dalle elezioni dello scorso 8 novembre con una maggioranza schiacciante.

Otto elettori su dieci hanno votato per il partito di Suu Kyi, pur sapendo che il premio Nobel per la pace non avrebbe potuto esercitare direttamente il potere, a causa delle restrizioni costituzionali che vietano a chiunque abbia figli di cittadinanza straniera di diventare primo ministro. Aung Saan Suu Kyi ha però fin da subito chiarito l’intenzione di svolgere un ruolo di guida per il nuovo governo. Il nome di chi ricoprirà il ruolo di primo ministro non è ancora stato reso pubblico, ma sarà lei a prendere le decisioni più importanti per il futuro del paese.

Nelle vesti di leader de facto, l’”Orchidea di acciaio” della Birmania ha incontrato, il 2 dicembre, il presidente uscente Thien Sein ed il capo dell’esercito, Min Aung Hlaing. L’incontro ha avuto luogo a Nay Pyi Taw, la città a 320 chilometri da Yangon che nel 2005 è stata elevata al ruolo di capitale. Nel colloquio, durato meno di un ora, Suu Kyi ha chiesto ai rappresentanti del vecchio blocco di potere di garantire un passaggio di consegne pacifico e indolore. Sein e Hlaing hanno offerto il proprio impegno, assicurando che non ci saranno tentativi di disturbo sulla via della transizione.

Le preoccupazioni della leader della NLD sono dettate dal fatto che i militari conservano un quarto dei seggi nelle due camere che compongono il Parlamento del Myanmar e, con essi, il potere di veto sulle riforme costituzionali e ruoli chiave nei ministeri di maggiore peso. La prudenza è d’obbligo anche in considerazione delle drammatiche esperienze del passato. Il partito di Aung Saan Suu Kyi vinse le elezioni anche nel 1990, ma il risultato venne ignorato dalla giunta militare e, da allora, Suu Kyi fu costretta agli arresti domiciliari per un periodo complessivo di 15 anni. La fiducia, da allora, non è diventata una merce rara.

La vittoria della NLD alle elezioni ha generato entusiasmo e nuove aspettative sul percorso di democratizzazione del paese, soprattutto a livello internazionale. Secondo Miemie Byrd, professoressa di origine birmana dell’ Asia-Pacific Center for Security Studies, interpellata da Al Jazeera, l’ottimismo è però eccessivo.

“Temo che la reazione e l’interpretazione della comunità internazionale (circa le elezioni, ndr), possano esacerbare i conflitti e le sfide attualmente in corso in Myanmar”, ha detto, aggiungendo che il paese ha ancora molta strada da fare sulla via del cambiamento. “Chiunque sarà a capo del nuovo governo sarà limitato dalle sfide precedenti e non potrà procedere velocemente verso le riforme e il progresso. Non puoi prendere un carro da buoi e farlo andare veloce come una macchina”. “La comunità internazionale – ha concluso – dovrà esercitare la sua pazienza ed avere aspettative realistiche” sui tempi del processo di transizione.

 

Luca Marchesini

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Erdogan e il sogno dell’impero

Medio oriente – Africa di

Si è chiuso così, con un richiamo “mondiale” di Erdogan al rispetto dei risultati raggiunti, il secondo capitolo delle elezioni turche consumato il 1° di novembre. Il clima di terrore innescato dal premier a partire dal 7 giugno, data delle precedenti elezioni annullate per l’impossibilità di creare una coalizione di governo, ha premiato l’AKP tornato in possesso della maggioranza.

 

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Il partito di Erdogan ha ottenuto il 49,4% delle preferenze conquistando 315 seggi su 550, quaranta in più rispetto alla soglia richiesta per governare in autonomia. Il principale partito di opposizione, il CHP, ha terminato la corsa con il favore del 25,4% dei votanti pari a 134 seggi, il nazionalista Mhp con il 12%, equivalenti a 41 seggi mentre l’HDP curdo di Salahattin Demirtas, è riuscito, nonostante le violente interferenze inflitte dal governo, a riconfermare la sua presenza in Parlamento superando, anche se di poco, la soglia del 10% imposta.

 

Nei cinque mesi intercorsi fra i due richiami alle urne, il clima interno del paese è stato messo a dura prova dal braccio di ferro fra AKP e il PKK, il partito dei lavoratori curdi guidato da Ocalan, di cui l’HDP rappresenta il braccio politico. A Diyarbakir, capitale della regione turca a maggioranza curda e roccaforte dell’HDP, si sono consumati attentati e scontri che hanno avuto l’effetto di annullare, per scelta da parte dei vertici del partito, ogni tipo di campagna elettorale. Una decisione sofferta, presa per proteggere le minoranze curde, destinatarie delle repressioni.

 

Correlare quindi i risultati delle ultime elezioni ad una libera scelta di unità nazionale, come sostiene Erdogan, rappresenta una forzatura sulla quale gravano altre tensioni, dal flusso di profughi dalla Siria, alla chiusura di canali televisivi e giornali di opposizione decisa dal premier per reprimere evidentemente la diffusione di opinioni contrastanti. L’ultimo “slogan” politico è stato diffuso subito dopo l’apertura delle urne, quando il governo ha lanciato la notizia dell’uccisione da parte dell’esercito turco di 50 membri dell’Isis in Siria e della distruzione di ben 8 delle loro postazioni. L’intenzione, evidente, era di impressionare in termini positivi non solo l’elettorato ma anche la comunità internazionale, dopo la diffusione, nei mesi scorsi, di ben altre informazioni legate al traffico delle armi dirette al Califfato gestito con leggerezza al confine turco e agli attacchi ufficialmente diretti a Isis ma in realtà concentrati sulle forze combattenti curde opposte ai terroristi.

 

La posizione cruciale occupata oggi dalla Turchia non soltanto per la sua collocazione geografica ma per il ruolo esercitato a livello politico permette a Erdogan quell’ampia possibilità di manovra avallata dai paesi occidentali, Usa in prima fila. La maggioranza ora riconquistata rappresenta per il premier un ulteriore lasciapassare per concretizzare i cambiamenti voluti a livello costituzionale. Erdogan vorrebbe modificare la costituzione dello stato principalmente per riconoscere al presidente poteri più ampi di quelli attuali. Il sogno è di rinverdire gli antichi fasti dell’impero Ottomano.

 

Un piano ambizioso, fermato al momento dalla necessità di trovare alleati che possano affiancare Erdogan nell’impresa. Per cambiare la carta infatti serve l’avvallo di 367 seggi, 52 in più di quanti l’AKP disponga. Dovesse non riuscirci, Erdogan passerà alle consultazioni referendarie aprendo nuovi dubbi a proposito della regolarità delle procedure. Poco importa se gli osservatori europei hanno pesantemente criticato il 1° novembre scorso l’intero processo elettivo dichiarandolo ingiusto.

 

L’Osce, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa” e l’Assemblea parlamentare del consiglio d’Europa, hanno denunciato le violenze e messo in dubbio la liceità del percorso. Erdogan ha reagito chiedendo riconoscimento globale dei risultati ottenuti alla urne e inneggiando contro i ribelli del PKK. I primi effetti delle elezioni sono stati intanto assorbiti dal mercato azionario di Istanbul, salito bruscamente, insieme alle quotazioni della lira turca, dopo i risultati delle urne.

 

Monia Savioli

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Monia Savioli
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