GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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9 gennaio 2015 Parigi sotto assedio

Varie di

 

Parigi sotto assedio si sveglia il 9 di gennaio con la il reparto dei Corpi Speciali Francesi che si trovano a Dammaritin, a circa 40 km dalla capitale, nella regione di Senna et Marne,  circondando una stamperia in cui si sono rinchiusi i fratelli Kouachi, responsabili della strage di Charlie Hebdo.

Andandosi anche solo al prendere un caffè senti la gente che chiacchiera e qualcuno che inizia a dire “ per fortuna li hanno  isolati, sembrava che se li fossero persi nel bosco stanotte ”. Camminando per la strada, il clima era ovattato la tensione nella gente era comunque palpabile.

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Un collega giornalista proveniente dal Marocco racconta di esser stato fermato tre volte dalla polizia quel giorno, la tensione è alta. Parigi aveva subito una brutta ferita, alla quale si era aggiunta la sparatoria a Montrouge in cui era stata uccisa una poliziotta. “E’ un fatto isolato” – diceva la stampa locale –“Tragiche conseguenze di un incidente stradale”, queste le informazioni della Prefettura  e qui tutti ci volevamo credere per non pensare a due atti violenti in meno di ventiquattro ore. Parlando il giorno prima con un ragazzo francese che vive nel mio quartiere alle porte di Parigi,  commentando l’ultima sparatoria ho detto:  “Ma mi chiedo solo come sia possibile che qualcuno vada in giro indisturbato con un mitra in macchina”. Questo ragazzo mi ha risposto con aria rassegnata “Purtroppo c’è molta più gente di quella che noi immaginiamo che va in giro con le armi qui”; lui faceva certamente riferimento  ai fatti di cronaca locale, perché per chi vive qui è noto che ci sono alcune zone, specialmente nelle periferie a nord est della capitale francese , che sono un po’ il ricettacolo di piccole bande di malviventi locali, zone che esistono più o meno in tutte le grandi città.
La mattinata del 9 trascorre più o meno in una normalità quasi surreale. I terroristi assediati e si comincia a  vedere la fine di questo dramma con i terroristi che hanno dichiarato ad un giornalista della BFM-TV di “voler morire da martiri”. Tutti sapevamo che non si sarebbero arresi fino alle estreme conseguenze, ma la verità è che era stata talmente tanto grande l’efferatezza del loro gesto, che non importava a nessuno se fossero vivi o morti, bastava solo che sparissero dalla circolazione. In un modo o nell’altro.

Poi alle 13, seduta nel piccolo ristorante in cui stavamo pranzando con un gruppo di colleghi, sul televisore messo senza audio posizionato infondo alla stanza, leggiamo il sottopancia che scorre sotto le immagini “dell’assedio” ai fratelli Kouachi che dice “Un uomo armato ha fatto irruzione in un supermercato Kosher a Port de Vincennes, prendendo degli ostaggi”. “Non è un caso” abbiamo pensato tutti. Poi l’angoscia, Port de Vincennes si trova a circa due kilometri di distanza da dove ci trovavamo noi in quel momento. Immediatamente iniziano ad arrivare le agenzie che dicono che il sequestratore è l’assassino di Montrouge, che è legato ai fratelli Kouachi. Il quadro si fa inquietante. La tensione per la strada è al massimo, chiuso il tram 3a , chiusa la Periferìque – la “tangenziale” che circonda Parigi – volanti e blindati della Gendarmerie che sfrecciano ovunque a sirene spiegate e le ambulanze. All’interno del supermercato ci sono stati degli spari, ci potevano essere delle vittime e tra gli ostaggi c’erano anche bambini.

Le ore passano, le televisioni dividono le inquadrature tra l’assedio  di Dammartine e Port de Vincennes, arriva la dichiarazione del sequestratore Coulibaly che dice esplicitamente “ Se la polizia farà il blitz a  Dammartine , io ucciderò tutti gli ostaggi”. La conferma ufficiale della correlazione di tutti questi avvenimenti.  Continua a passare il tempo, massima attenzione da parte di tutti, telefonate e messaggi di preoccupazione che arrivano continuamente dall’Italia, si è in attesa: in un’angosciante attesa che questo incubo finisca.

La sensazione generale era quella di essere in mezzo ad una guerriglia, ma non contro i musulmani come sta iniziando a pensare l’opinione pubblica italiana, si è in guerra contro il terrorismo. Noi qui a Parigi eravamo tutti insieme: cristiani, atei, musulmani, ebrei: tutti con la stessa sensazione di  orrore. Alle 17 e 30 circa iniziano i blitz praticamente in contemporanea, le forze speciali sono agli ordini diretti del Presidente Hollande che sta guidando in prima persona le operazioni. La contemporaneità dei blitz era l’unica via possibile da un punto di vista strategico considerato che la presa di ostaggi a Port de Vincennes era la conseguenza del primo assedio. Le immagini vengono trasmesse in diretta mondiale. Tutti abbiamo visto la fine dei fratelli Kouachi e sentito gli spari che hanno ucciso Coulibaly . Era finalmente finita, ma non ci si riprendeva, la conta delle vittime era straziante e continuavano ad arrivare notizie sugli attentatori. I due fratelli erano stati addestrati in Siria ed avevano dichiarato di essere parte di Al Qaeda, il sequestratore ha detto “di far parte dello Stato Islamico”.

Nella notte la conferma:  il ramo yemenita di Al Qaeda rivendica la strage di Charlie Hebdo. Tra le ultime notizie quella della telefonata che sarebbe stata fatta dal sequestratore alla famiglia, ormai certo che sarebbe stato ammazzato ed avrebbe detto “ continuate la mia opera”. Parigi è una città sotto shock,  le persone hanno paura,  nessuno pensa “che sia finita qui”. Bene o male, prima o poi,  la vita ricomincerà a scorrere normalmente nonostante le nuove minacce che gia arrivano nella notte. Le misure di sicurezza sono strettissime, blindati ovunque, controlli delle borse nei centri commerciali. L’atmosfera è surrealmente ovattata. Il cielo grigio continua a rendere pesante l’aria di una Parigi, di una Francia e dell’Europa intera che hanno subito una profonda ferita al cuore.

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Da Parigi

Laura Laportella

Kobane, il centro della guerra all’ISIS

Varie di

La piccola cittadina di Kobane doveva diventare l’esempio della guerra lampo di Abubakar Al Bagdadi, inferiori di numero gli irriducibili curdi sarebbero dovuti cadere dopo poche ore.

All’inizio dell’attacco dei terroristi dell’ISIS la resistenza di Kobane ha dovuto arretrare fino al confine con la Turchia dove sotto gli occhi di immobili carristi turchi cedevano posizioni senza rifornimenti e senza appoggi.

MAPPA KOBANE

Quella che sembrava una vittoria facile si è invece infranta contro una resistenza oltre ogni aspettativa dei curdi e su una copertura mediatica internazionale inattesa.

Le telecamere e la folla di reporter in campo per assistere a quella che sarebbe stata la più sanguinosa battaglia dell’anno hanno cambiato le sorti della guerra.

Utilizzando il clamore mediatico Obama è riuscito evidentemente a sconfiggere le resistenze interne al suo governo e cambiare la rotta della politica estera nel quadrante coinvolgendo la coalizione internazionale a supporto dei combattenti curdi.

Da quel momento grazie ai  bombardamenti aerei e all’aiuto dei peshmerga provenienti dal Kurdistan Iracheno l’avanzata su Kobane è stata fermata.

Questo stop dato all’ISIS è stato fondamentale, Kobane non poteva cadere, avrebbe provocato un effetto domino in tutta la regione sia in termini di territorio occupato sia in termini di alleanze e supporto di altre nazioni.

Anche se in Irak i terroristi hanno avuto qualche successo in questo punto, alle porte d’Europa no, un segnale al Califfato e un punto a favore della resistenza curda.

REPORT: Lo stato islamico come minaccia alla civiltà’; evoluzione, reclutamento ed utilizzo dei media

INNOVAZIONE/Varie di

 

Alcuni elementi dello Stato Islamico. 

Da gruppo armato ad impresa, da localizzata minaccia a pericolo internazionale, l’ISIS ha conosciuto un interessante progresso. Secondo alcuni rappresenta un’evoluzione di organizzazioni come al Qaeda (opinione condivisibile dal punto di vista della modifica del percorso personale di alcuni dei suoi membri inizialmente affiliati a Bin Laden), secondo altri un fenomeno distinto (vero e ragionevole nella vision strategica e tattica, nella composizione e condotta delle operazioni, nella sua nascita e sviluppo di tecniche ed ideologie che lo differenziava da al Qaeda già quando i suoi leader combattevano all’interno del gruppo di al Qaeda in Iraq AQI).

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Veterano delle guerre seguite all’intervento militare americano in Iraq il gruppo ha proseguito lungo una traiettoria che lo ha portato a scontrarsi con altri gruppi integralisti fino a prendere una strada propria (anche a causa di una politica miope dell’allora governo al Maliki), inizialmente per combattere il regime di Assad in Siria e poi per il proprio fine politico. E’ stato a questo punto che ha iniziato a considerarsi un’entità diversa e separata, perseguendo propri obiettivi. Economicamente, militarmente, socialmente, politicamente e mediaticamente rappresenta a tutti gli effetti un business per i suoi leader (più di quanto non lo fosse al Qaeda per Bin Laden), che oggi non disdegnano di coinvolgere fra le giustificate vittime a servizio della causa islamica anche fedeli musulmani. Rappresenta, prima che una minaccia per l’occidente (un mantra nel mondo del fondamentalismo che spesso è fine a se stesso, un forte fattore coagulante che in molti casi serve a nascondere le atrocità che si commettono nel suo nome) una minaccia per i territori in cui agisce. Mira ad una conquista diretta a guadagnare territorio senza alcun tipo di compromesso, diversamente dal gruppo al Nusra (un tempo suo alleato sul fronte siriano) che preferisce un approccio più votato alla mediazione territoriale. Alcune differenze tra la politica seguita dall’ISIS e gli altri gruppi salafiti (che ne hanno causato la separazione ideologica e sul campo) risiedono nelle metodologie di conduzione della guerra sotto un punto di vista politico e militare come le tempistiche di conversione dei territori, nelle basi ideologiche dell’infedeltà al dio Maometto, nell’accettazione della violenza e della pena di morte. Lo Stato Islamico si è trasformato da movimento terrorista ad organizzazione finanziaria in grado di sviluppare un business di oltre 2 milioni al giorno, rivelandosi una vera e propria macchina governativa che ha tra le sue fonti d’introito in pieno stile medioevale saccheggi, estorsioni, commercio di petrolio e donazioni. La fonte primaria resta però il petrolio. Controllando numerosi stabilimenti di estrazione e raffinerie, l’ISIS fa dell’oro nero un utile alleato nel finanziamento sia dei combattenti sia degli agglomerati sociali che va conquistando. Organizzato su base territoriale con corti, polizie e province realizza un vero e proprio modello di stato sociale esigendo tributi ed occupandosi del sostentamento delle famiglie dei soldati, comprando armi e munizioni e raccogliendo attraverso il reclutamento anche estero le competenze necessarie a mantenere la macchina governativa.

E’ pur vero che l’odierno ISIS può usufruire di una serie di esperienze pratiche sul territorio che derivano dalle diverse provenienze dei membri che lo compongono, soprattutto quelle derivanti dallo smembramento dell’esercito iracheno, che hanno permesso a questo fenomeno di esplodere in maniera così evidente. Le componenti dell’esercito dell’ISIS sono infatti un miscuglio di combattenti ed agenti provenienti dalla polizia, ex militari, ex membri dei servizi e sono, proprio come in un regolare esercito, divisi tra ufficiali e truppa. D’altro canto l’esercito dello Stato Islamico, evolutosi sia grazie alle vittorie sul terreno riportate contro le forze governative sia  grazie a quelle riportate contro le altre organizzazioni fondamentaliste, si costituisce come una compagine all’esterno apparentemente compatta, all’interno ricca di complessità e sfaccettature. I suoi membri, prima ancora che occidentali convertiti, simpatizzanti o musulmani, sembrano avere in comune il desiderio di qualcosa di diverso dal modello governativo in cui sono cresciuti e che spesso non è chiaro nemmeno nelle loro menti (ne è la prova il fatto che alcuni, una volta avuta coscienza della scommessa fatta desiderino rimpatriare). La macchina di propaganda elaborata dall’ISIS permette di vendere all’esterno una seducente ed efficiente immagine dello stesso. Il fenomeno migratorio di occidentali arricchisce le fila dell’esercito islamico, e di questo ne sono ben consapevoli i suoi comandanti: dall’estero infatti giungono soggetti con provenienza culturale diversa ed un grado d’istruzione sicuramente più elevato della media dei combattenti locali. Questo permette di selezionare una classe nuova, con competenze, cui spesso vengono affidati ruoli anche abbastanza delicati: dal reclutamento all’addestramento alle cariche ministeriali piuttosto che di governo sul territorio, tutto è gerarchicamente e severamente regolato e gestito. Dal reclutamento di chi si sente emarginato o si auto emargina (una delle motivazioni che spingono i cosiddetti foreign fighters ad abbracciare la causa del Califfato) e quindi grazie all’indottrinamento fai da te piuttosto che ad una conversione classica costruisce un immaginario più o meno reale di quello che lo aspetterà, a chi semplicemente ritiene che la condotta militare sia la vera via di ogni degno musulmano e che quindi naturalmente prefigura per sé una condotta di stampo fondamentalista. Questa conversione a distanza frutto dell’utilizzo massiccio dei media, crea giusti timori e perplessità alle forze dell’ordine che sono chiamate ad intervenire, poichè svela la mancanza di controllo e gestione da parte dello Stato Islamico che in alcuni casi si nasconde dietro il percorso personale del futuro soldato di Allah. Mentre infatti la configurazione di al Qaeda – che non a caso significa la Base, la Regola – era per alcuni aspetti rudimentale (anche perchè costituiva il primo serio passo verso la nascita di un califfato) ma sviluppata su una struttura rigida e controllata, con un centro di comando e varie postazioni logistiche nel mondo, ora si prospetta un rapporto differente tra l'”esterno” e l'”interno” del nuovo Califfato. La rete di decine di stati che costituivano il brodo di coltura della classe di combattenti che avevano in Bin Laden la loro guida, aveva la caratteristica classica di un’organizzazione solida e ramificata, dai cui centri di Londra, Ginevra, New York e non solo venivano gestite le operazioni sul territorio finalizzate alla creazione di cellule dormienti, arruolamento per l’indottrinamento e l’invio in campi di addestramento. La presenza fisica del reclutatore piuttosto che del curatore d’affari era un aspetto importantissimo che doveva necessariamente essere condotto sul territorio, quasi come si trattasse di un processo di selezione (come in effetti era) in cui la presenza di un “uomo” dell’organizzazione era indispensabile. Poco insomma veniva lasciato alla fantasia. Questo è vero anche perchè Bin Laden conduceva le sue attività inizialmente non dall’Afghanistan e quando ci si è stabilito era nell’impossibilità oggettiva di organizzare un esercito ed una comunità esposti e pronti a sfidare apertamente i nemici dell’Islam radicale. Al Qaeda, insomma, resta un’importante step ma al contempo era confinato nella sua condizione di gruppo terroristico che non era riuscito a fare quel salto di qualità che invece si rileva nell’ISIS. L’asimmetria con cui combatte l’ISIS (e che si riconosce più al di fuori dei confini stabiliti da al Baghdadi soprattutto nella figura dei cosiddetti lupi solitari, soggetti che agiscono in maniera autonoma) è invece, a suo modo, più arbitraria e quindi più pericolosa. Al di fuori delle aree controllate dalle formazioni dello Stato Islamico (anche qui andrebbe considerata l’estrema dispersione del territorio al centro degli scontri, in buona parte desertico, privo di centri urbani) continua a regnare un caos più o meno regolamentato.

L’afflusso massiccio avvenuto in questi ultimi tempi, le direzioni di provenienza dei combattenti stranieri e le modalità di azione dello Stato Islamico svelano una nuova caratteristica che oggi incorpora l’ISIS (un domani sarà sicuramente parte integrante di qualunque altro movimento fondamentalista) di cui invece al Qaeda non poteva godere o disporre in queste forme. Oggi l’ISIS non deve obbligatoriamente andare nel mondo attraverso soggetti fisici per acquistare legittimazione, seppur il reclutamento continui a costituire un fenomeno importante. Può agire direttamente da casa aspettando che, per l’incuria di alcuni governi o per meriti dei reclutatori, le nuove reclute si uniscano ai ranghi di combattenti quasi come se si trattasse di un semplice ritorno a casa. Il Califfato anche nella sua dimensione spaziale e geografica più o meno circoscritta dai confini dei territori sotto il controllo dell’ISIS, rappresenta un richiamo ben definito che non ha bisogno di esporsi ma che deve solo attendere che nuovi membri giungano.

Inoltre, sebbene il proselitismo sembri non essere più così diffuso attraverso i canali classici cui ci aveva abituati Bin Laden come le moschee, resta ancora molto attivo il canale delle carceri. Sicuramente, però, a perdere il controllo dell’odierno Stato Islamico non sono stati solo i governi che ne hanno appoggiato le operazioni (alcuni sostengono che finanziamenti governativi siano giunti da Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) quanto alcuni leader che in passato avevano svolto ruoli importanti di mediazione e che ora ne denunciano la condotta in maniera aperta. E’ vero, però, che mai come oggi il sistema che rende così appetibile l’aggregarsi di giovani attorno all’ideale di al Baghdadi ha una diffusione vasta al punto da poter fare a meno di un così massiccio uso della figura del reclutatore. Il ruolo dei lupi solitari in questo campo ha una valenza che supera quella del semplice potenziale attentatore. Essi svolgono più ruoli che direttamente o indirettamente ne rendono l’ISIS beneficiario. Prima di tutto descrivono un simbolo ed un sintomo di come il messaggio messianico riesca ad arrivare e ad avere presa anche oltre oceano. In questo essi rappresentano sia un’arma al servizio della causa, sia un metro di paragone nell’evoluzione dello stesso fuori dal califfato.

Possiamo quindi evidenziare alcuni punti importanti a partire proprio dalla situazione politica ed etnica, dalla debolezza del governo al Maliki oltre che la disillusione portata prima dall’intervento americano nelle operazioni contro Bin Laden e Saddam Hussein e poi dalla sua graduale ritirata, che ha permesso all’organizzazione di al Baghdadi di fomentare scontri interetnici al fine di creare disgregazione sociale e sfruttare l’acuirsi delle rivalità settarie. Inseritisi in quest’amalgama hanno adottato una politica di compromesso a livello locale in cui, sebbene sia chiaro l’intento omicida di ognuno dei suoi componenti, la loro abilità di offrire servizi sociali alla popolazione e di garantirne la continuità li rende un’alternativa migliore ai governi che si sono succeduti in questi ultimi anni. Ancora, la metamorfosi della struttura di al Baghdadi e il distaccamento dall’originaria visione caratterizzata da percorsi paralleli tra al Qaeda ed al Qaeda in Iraq (AQI) è un sodalizio che si è spezzato per due ragioni: il cambio di politica seguito al cambio dei leader interni; le continue vittorie riportate contro gli attuali rivali sul fronte interno. Questo ha causato: un cambio di rotta politica e militare, di gestione interna ed esterna; un riposizionamento sul campo di una forza alleata inizialmente con gruppi siriani di opposizione al regime Asad (al Nusra) ed ora intenzionata alla conquista e sottomissione di tutti i territori appartenenti ai vecchi califfati.

 

Internet come chiave di lettura del proselitismo e dell’adesione alla causa dell’Isis e del Califfato in Italia

Il fenomeno del reclutamento di cittadini occidentali da parte dell’Isis ora, di al Qaeda prima e di cellule a loro collegate è piuttosto complesso e di lunga durata. Per quanto concerne il caso italiano, la parola chiave per capire questo processo è “internet”. La massimizzazione del suo utilizzo nel corso degli ultimi anni, soprattutto attraverso i social network, ha provocato una sorta di corto circuito, diventando primaria rispetto all’opera di proselitismo che avviene nelle moschee e nei centri religiosi islamici presenti nel nostro Paese.

Secondo i dati riportati dal ministro degli Interni Alfano a fine agosto 2014, gli italiani reclutati dall’Isis per la Guerra in Siria sarebbero molte decine, mentre coloro che sono già rientrati per curare la base logistica in Italia sarebbero circa 200. Un fenomeno circoscritto, soprattutto se guardiamo il primo dato e lo confrontiamo con i numeri, nell’ordine delle migliaia, del resto d’Europa. Ma il punto, che si tratti di italiani o di immigrati di seconda generazione, è la tecnica e il linguaggio utilizzati non solo per la conversione all’Islam, ma per l’appoggio incondizionato alla Sharia.

Il reclutamento attraverso internet è fatto attraverso la manipolazione psicologica dell’individuo. Una manipolazione che tocca non tutti, ma in particolar modo quelle persone ai margini del contesto sociale in cui vivono: parliamo, pertanto, di chi è più vulnerabile. E per sfruttare ciò, i contenuti ad alto tasso di violenza (video di esecuzioni o trailer di videogiochi) vengono fatti circolare in modo ripetitivo, creando un loop con coloro che siedono davanti al pc. Questo permette di creare un processo d’identificazione e una reazione emotiva che, paradossalmente, porta a simpatizzare con il cattivo. È un processo che in psicologia viene definito di “regressione”: il nemico da combattere divengono così gli Stati Uniti e l’Occidente.

Diversi sono stati i casi di italiani o italiani seconda generazione che hanno deciso di arruolarsi tra le fila di al Qaeda prima e dell’Isis poi, o che più semplicemente condividono gli ideali e i metodi violenti perpetrati dai combattenti in Siria e Iraq. Nel libro di Lorenzo Vidino, “Il jihadismo autoctono in Italia”, ed. Ispi, si distinguono due fasi di questo proselitismo. La prima, negli anni ’90, quando nel nostro Paese si assiste ad un fervente attivismo e Milano diventa il punto di partenza per la Guerra Santa nella ex Jugoslavia, soprattutto Bosnia, e in altri paesi. La seconda, invece, è databile ai primi anni 2000 e vede una situazione più tranquilla rispetto ad altre realtà europee: infatti, malgrado un evento spartiacque come l’11 settembre, la scarsa presenza di quartieri ghetto sfavorisce la nascita di cellule organizzate.

Le due fasi raccontate da Vidino hanno come protagoniste soprattutto al Qaeda che, tra fine anni ’90 e inizio millennio, raggiunge il suo apice organizzativo a livello mondiale. La terza fase, quella contemporanea, vede la nascita di un altro soggetto l’Isis e due prospettive geopolitiche che, attraverso la propaganda sui social network citata prima, divengono dirompenti: la guerra in Siria e la costituzione del Califfato in Iraq.

Tra i casi di italiani che hanno scelto la causa della Guerra Santa, quello più famoso riguarda Giuliano Del Nevo. Arruolatosi per sei mesi tra i ribelli siriani, nell’estate 2013 si perdono le sue tracce. Attraverso una ostinata ricerca del corpo e dei suoi oggetti da parte della madre, vengono alla luce un diario (l’originale è nelle mani della Procura di Genova) e le testimonianze dei colleghi del figlio. Negli scritti di Ibrahim (il nome dopo la conversione), si fa parla di un netto contrasto tra la suggestione della guerra e della lotta in nome di Allah e la crudeltà della realtà sul campo. Ma quello che più avvicilisce Giuliano è il fatto che, come in Occidente, anche nella jihad c’è disparità: infatti, mentre la maggior parte dei combattenti resta sul terreno di battaglia, i capi rimangono al sicuro in albergo.

La presunta morte di Del Nevo per mano di un cecchino viene raccontata dalla madre, dopo aver raccolto le testimonianze di alcuni suoi amici jihadisti: “Un cecchino si divertiva a ferire e ad infierire sulle vittime. Mio figlio, stanco di vedere un suo compagno ridotto in fin di vita, è uscito a soccorrerlo ed è rimasto ferito. Dopo, è stato ricoverato in ospedale e adesso è morto o si trova in una delle prigioni di Assad”.

Del Nevo, convertitosi anni fa all’Islam, è diventato protagonista diretto della jihad, sposando la causa dei ribelli siriani. Ma ci sono altri italiani, convertiti a loro volta, che restano nel nostro Paese, pur simpatizzando, in alcune occasioni, con il Califfato iracheno. Stefano Porcelli, dipendente della Regione Lazio, musulmano dal 1990, minimizza l’immagine dell’Isis dipinta dai media occidentali e azzarda un originale paragone storico: “Non bisogna avere paura dell’Isis perché un movimento di liberazione dalla dittatura sanguinaria in Siria, che si è naturalmente propagato in Italia e in Europa. È un movimento paragonabile a quello della Resistenza che ha liberato il nostro Paese dal fascismo”.

Ancora più forti sono le parole di Livio Umar Tomasini, friulano convertitosi cinque anni fa dopo un viaggio ad Istanbul: “La vittoria del Califfato è solo questione di tempo. Noi credenti abbiamo il dovere di consolidarlo. Per quanto riguarda i crimini, è normale che in guerra avvengano massacri, ma la propaganda occidentale li esaspera”.

Queste frasi cariche di esasperazione, rivelano un problema dell’islamismo in Italia. L’ambiguità di fondo tra i contrari ala deriva fondamentalista e alle violenze e chi simpatizza o addirittura si arruola nella jihad. Questo aspetto viene sollevato in maniera lucida nell’articolo “Il califfo italiano”, di Cristina Giudici, apparso su “Il Foglio” il 2 novembre 2014. L’analisi proposta, infatti, rivela che esistono due galassie parallele: la prima, quella delle moschee e dei centri ufficiali di preghiera; la seconda, quello delle moschee abusive, soprattutto di matrice salafita, moltiplicatesi in maniera esponenziale negli ultimi tre anni.

Nel corso dell’articolo, vengono citati i distinguo, rispetto alle violenze in Siria e in Iraq, da parte dei rappresentanti di alcune delle moschee più importanti in Italia. Ma è un distinguo fatto in ritardo e non da parte di tutti e che, come rivela Abdellah Redouane, Segretario della Moschea di Roma, “può rivelarsi un boomerang per i musulmani non fondamentalisti che vivono in Italia”. La nascita di questi nuovi centri abusivi ha fatto scattare l’allarme negli investigatori: “Più che cellule dormienti, per ora sembrano cellule addormentate – rivelano a “Il Foglio” -. Li seguiamo, ma non riusciamo ancora a capire se e come si muoveranno. Con la nascita del Califfato in Iraq, abbiamo dovuto ricominciare da capo perché non esiste ancora un filiera, simile a quella creata da al Qaeda, sulla base di una gerarchia e di un processo graduale: il proselitismo e il reclutamento avvengono in tempi brevissimi”.

Il proselitismo, oltre che negli italiani, fa presa negli immigrati di prima e seconda generazione. Ma, quello che più risalta, è il fatto che ciò avvenga all’improvviso, in contesti sociali non contraddistinti dall’odio, dove la parte da leone la fa ancora una volta internet. Il mutamento di comportamento non è solo finalizzato al reclutamento sul campo in Siria. Ma anche finalizzato ad azioni dimostrative in Italia o semplicemente alla creazione di basi italiane delle cellule che operano in Medio Oriente.

In questo senso, possiamo citare il caso di Mohamed Jarmoune, marocchino di 20 anni residente in Italia, sorto agli onori della cronaca per la propaganda rap attraverso i social network, arrestato nel marzo 2012 perché aveva progettato un attacco terroristico ai danni della comunità ebraica di Milano. Oppure, Anas el-Abboubi, anch’egli marocchino, accusato di avere cercato di creare una base per la cellula terroristica Sharia4, con l’intento di colpire a Brescia, cioè la città dove abita. Dopo l’assoluzione, si è arruolato con i combattenti dell’Isis in Siria.

Ma ci sono anche le cronache, molto spesso dimenticate dai giornali, di famiglie spezzate. Di padri che dall’oggi al domani cambiano, sposando la causa del Califfato, portando con sé i propri figli a combattere, lasciando le madri a piangere sugli oggetti e le foto rimaste a casa. Ci sono poi casi di alcuni ragazzi che modificano improvvisamente le loro abitudini, suggestionati da internet e dai loro coetanei convertiti alla causa della Guerra Santa.

Nei casi, invece, degli italiani di seconda generazione che dicono sì alla jihad, l’età media va dai 16 ai 30 anni. Molto spesso parlano poco arabo e vivono nel Nord Italia. Sono convertiti e sempre connessi alla rete. Oppure fanno parte delle nuove moschee, non autorizzate, sorte con regolarità dallo scoppio della guerra in Siria nel 2011. Partire è facile, grazie ai voli low cost per Gaziantep, nella Turchia Meridionale. La vera difficoltà sta nel trovare la cellula di combattenti in Siria perché il rischio è di essere scambiati per spie.

Il computo totale dei musulmani presenti in Italia ammonta a un milione e 200 mila persone (il 2% della popolazione). Come visto, internet in primis e centri di preghiera abusivi poi costituiscono i mezzi attraverso cui avviene il reclutamento di alcuni di loro. Il fenomeno della partenza per andare a combattere in Siria è ancora ridotto rispetto a chi sceglie di rimanere in Italia. E, anche se l’Isis ha occupato le prime pagine dei giornali nel corso degli ultimi tre anni, è ancora forte anche l’influenza di al Qaeda. La differenza, nella comunicazione e nella campagna sia di conversione sia di indottrinamento, sta nell’utilizzo intensivo dei social network da parte dei primi e l’avere imparato che solo un linguaggio di tipo occidentale può fare veramente breccia anche in quegli italiani, o europei, di seconda generazione cresciuti con i costumi europei.

Oltre ai contesti siriano e iracheno, ha influenza, sul nostro Paese, la crisi di ormai lunga durata presente in Libia. La decapitazione di due giovani, 19 e 21, attivisti per i diritti umani (rapiti il 6 novembre) per mano dell’Isis a Derna è l’ultima parte di una cronaca fatta di guerra civile e della rivendicazione, da parte di questa organizzazione terroristica, della conquista della Cirenaica.

E, in questo senso, le parole del ministro della Difesa Pinotti, danno il senso di come in Italia l’adesione alla causa della Guerra Santa possa crescere: “Ci preoccupa molto la situazione in Libia, dove il conflitto fra le fazioni in campo non sembra riuscire a trovare una composizione, malgrado gli sforzi di tanti attori internazionali e delle Nazioni Unite. Percepiamo distintamente il pericolo che in Libia il conflitto si aggravi e che entrino nelle sue dinamiche ulteriori elementi perturbatori, in particolare il radicamento di componenti fondamentaliste con la capacità di proiettare le loro azioni terroristiche anche verso i Paesi europei”, ha riferito la titolare del Dicastero in una conferenza interparlamentare.

 

Antropologia della comunicazione globale dell’ISIS – cultura di massa e reclutamento di terroristi 2.0 in Occidente

Mezzi comunicativi

Il 30 maggio 2014, armato di kalashnikov e pistola, Mehdi Nemmouche, un francese di 29 anni, è stato arrestato alla stazione ferroviaria marsigliese di Saint-Charles dai servizi doganali. Era ricercato per l’eccidio al Museo Ebraico di Bruxelles il 24 maggio scorso dove sono morti una coppia di israeliani, una volontaria francese e un impiegato belga. Nemmouche è francese, nato a Roubaix, nord della Francia.

Ecco come si combatte la nuova jihad: non è più necessario asservirsi di militanti organizzati, cellule gerarchiche con una organizzazione interna precisa, strutturata: bastano degli individui  intenzionati a colpire per immettere paura e insicurezza nel cuore dei paesi occidentali, a volte, i loro paesi d’origine.

Il rischio principale, il tallone d’Achille dei Servizi di Sicurezza, sta nell’imprevedibilità di attivisti “isolati”, come nel caso riportato. Fanatici reclutati prevalentemente sul web dai terroristi 2.0, veri esperti di nuove tecnologie della comunicazione. Esistono, di fatto, numerosi siti del filone Sharia4UK, Shari4Holland, Sharia4America e così via.

La giustizia europea si muove freneticamente alla ricerca, scoperta e smantellamento di cellule di reclutamento con base ne paesi dell’UE. Il 16 giugno scorso, le autorità spagnole hanno scovato quella diretta da tal Lahcen Ikarrien, ex detenuto di Guantanamo. Le  modalità di sorveglianza e le misure di sicurezza adoperate in caso di sospetta attività terroristica, sono agevolate nei paesi in cui è previsto il reato di “associazione a delinquere finalizzato al terrorismo”.

Tuttavia, il successo mediatico dell’ISIS nel mondo supera ogni ipotesi semplificata in relazione ai video delle efferate decapitazioni. Va ben al di la dell’apologia alla guerra santa. Vediamo i due aspetti che ne delineano l’azione: la strategia del terrore e il reclutamento continuo di nuovi militanti.

Osama Bin Laden otteneva la sua visibilità tramite video periodici mandati in onda in mondo visione: primo piano fisso, sfondo assettico, discorso, fine. Oggi, ogni terrorista, è in possesso di uno smartphone, un account Twitter, proprio come chiunque, in modo da poter raggiungere chiunque. Niente di più efficace.

La strategia comunicativa dell’ISIS pare sia stata messa a punto da Ahmad Abousamra, un 32-enne di Boston. Oltre ai video delle decapitazioni, v’è stata una evoluzione nella strategia comunicativa, una intuizione raffinata che si ravvisa nella rappresentazione virale delle “gioie del combattente”. Che sia un selfie, una piscina lussuosa, una sguardo fiero, foto o video, andrà condiviso sulla rete social. E il gioco è fatto. Propaganda studiata a tavolino. Twitter, hashtags (#Baghdad_is_liberated), Youtube, App, hacker in grado di sbloccare divieti.

Intercettazione dei soggetti da reclutare

Scatenare reazioni emotive forti quali l’indignazione, il senso di impotenza nella vita quotidiana, frustrazione e senso di ingiustizia porta a identificarsi con chi si ribella contro tutto questo. Diventare “martire” viene rappresentato come un riscatto della propria misera vita.

E la violenza? La pura violenza? Senza che sia necessario essere un soggetto socialmente fragile, per motivi economici, psicologici, famigliari etc, v’è una categoria di individui, principalmente giovani, a volte, molto giovani, i quali, facendo riferimento alle cronache, “per noia” esercitano violenza o vorrebbero esercitarla. Musica e videogame intercettano questa estrema “volontà di potenza” esaltandone l’eccitazione.

Ultimamente se ne ravvisa un terzo filone della comunicazione: “Is, da un mese, ha incominciato a produrre brochure e volantini bellissimi per far vedere come sia bello andare a vivere nello Stato Islamico. Non ci sono fucili: ci sono campi di grano, fiumi che scorrono e panetterie che sfornano pani fumanti. Servono ad attrarre le famiglie. Sono tre linee comunicative in parallelo, strategicamente organizzate, che Is sta utilizzando per organizzare al meglio e stabilizzare al meglio il suo “califfato”. I media fanno parte del gioco, vengono spesso utilizzati – i media occidentali – per le loro caratteristiche, dalle strategie mediatiche del terrorismo (Fonte: Marco Lombardi, professore di Sociologia e comunicazione presso l’Università Cattolica e direttore del centro per lo studio del terrorismo dell’ateneo milanese.)

Secondo le autorità britanniche, sarebbero oltre 500 i cittadini partiti per combattere in Siria.

Secondo l’Economist, sono 3000 gli europei convertiti e in preparazione per la jihad.

ISIS e la Società dello Spettacolo

Chiaro che la “guerra santa”, oggi, non è esclusivamente araba. L’ISIS comunica in arabo, inglese, tedesco. Come la cultura occidentale non è più esclusivamente tale. I foreign fighters sono occidentali e militanti ISIS e parlano di jihad globale.

Comunicazione spettacolare perfettamente in sintonia con la “Società dello Spettacolo” (Autore G. Debord) più attuale e totalizzante che mai. Gli esperti di comunicazione studiano la comunicazione dell’ISIS, i media studiano la comunicazione dell’ISIS, non considerando che è l’ISIS ad aver studiato e assorbito pienamente loro.

Secondo Der Spiegel, la strategia di reclutamento dell’ISIS si appella, non solo a soldati pronti a morire nella jihad, ma specificamente a tecnici, ingegneri. Sono 400 i cittadini tedeschi arruolati, ad oggi, nelle fila dello Stato Islamico. Ricordiamo che tali appelli vengono fatti in tedesco. Altro esempio efficace a comprendere la complessità della strategia di reclutamento di occidentali, è la canzone “Let’s go for jihad”, cantata in tedesco e sottotitolata in inglese. Niente arabo.

In definitiva, il fascino subito dagli occidentali nei confronti dell’ISIS, ha un carattere complesso. Avendo studiato e perfezionato e fatte proprie le opportunità della comunicazione globale; continuando sistematicamente a dare in pasto al mondo la profezia della concretizzazione del Califfato, lo Stato Islamico  opera con un mix di esercizio del terrore, della spettacolarizzazione della violenza e della narrativa epica (martiri celebrati in video).

Lo fa con un linguaggio altrettanto globale, lo fa rappresentando la profezia, facendola vedere. Parla di Stato, autorità costituità, ma svuotandolo delle categorie del diritto comuni nei paesi occidentali. Parla di ricchezza (com’è finanziato l’ISIS?), ma combatte il liberalismo.

Può tutto questo influenzare l’audience globale e, soprattutto, riesce questo a garantire regolari adepti, non solo dal mondo arabo, all’ISIS?

Ad oggi, la risposta è sì. Come e quanto durerà la propaganda del sogno del Califffato sarà nelle mire degli analisti, ma un segno profondo è stato lasciato. L’ISIS oggi è un brand.

“Big corporations wish they were as good at this as ISIS is” (Le grandi corporations vorrebbero essere bravi almeno quanto lo sono quelli dell’ISIS), sostiene J.M Berger, il più importante osservatore delle tecniche di comunicazione dei gruppi terroristi in medio-oriente.

 

di
Francesco Danzi
Giacomo Pratali
Sabiena Stefanaji

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Alessandro Conte
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