GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Varie - page 6

Parigi, una settimana dopo

BreakingNews/EUROPA/POLITICA/Varie di

 Oggi è una settimana da quel tragico venerdì 13. Un venerdì sera che per Parigi era iniziato esattamente come gli altri, i bistrot pieni di gente che, complice una serata abbastanza mite, si godeva la sua bière o la sua cena nelle terràsse. Alle 21.30 di venerdì 13 Novembre mi trovavo ad un ristorantino in Place de la Bastille, festeggiando con un’amica la nuova esperienza di essere tornate a vivere nella città che amiamo di più dopo la nostra cara Roma.

Eravamo in “terràsse” a finire il nostro vin rosè quando ci si avvicina la proprietaria del locale e con una discrezione ed una calma apparente tale ci invita “ad entrare dentro il locale perché un terrorista ha sparato sulla folla in un ristorante abbastanza vicino”. Inizia l’incredulità, poi la paura. Ci facciamo coraggio, usciamo dal locale per andare lì fuori dove avevamo appuntamento con altre amiche italiane con le quali avremmo dovuto passare una serata in un discopub. Improvvisamente iniziano ad arrivare i messaggi dall’Italia, preso il Bataclan, terroristi in giro che sparano sulla folla.

Ci ritroviamo in Rue de Lappe, famosa per avere un locale accanto all’altro, uno dei centri del divertimento dei giovani parigini. Al nostro arrivo i locali stavano iniziando ad abbassare le serrande e chiudere dentro le persone su indicazioni della polizia. Il mio piccolo gruppo viene invitato ad entrare a casa di un conoscente che chiameremo “D. “. Lui tunisino di 29 anni vive da molti anni a Parigi, doveva andare alla “Belle Equipe” per festeggiare il compleanno di una cara amica di famiglia, ma per uno scherzo del destino non è andato, ha tentato di contattare i suoi amici e parenti lì, ma nessuno gli dava notizie.

Abbiamo passato il resto della serata in questa casa, con le notizie ed i messaggi preoccupati di amici e parenti, e senza avere un televisore, perché proprio quel giorno il nostro ospite aveva portato il decoder in riparazione. Ore di incertezza, poche notizie, telefoni scarichi e nessuna voglia di uscire di lì, il rifugio sicuro. Alle tre del mattino D. ha trovato un amico “tassista privato” che lavora con Uber, lui ci ha riaccompagnato tutte a casa, dopo molta incertezza sul da farsi se fosse sicuro o meno muoversi anche in macchina.

Arrivata a casa è subentrato il dolore, acceso il computer ho iniziato a vedere le immagini dei morti, il numero che aumentava, a chiedermi se tutte le persone che conosco qui stessero bene, vedere con i miei occhi quello che si è consumato a poche centinaia di metri dal nostro “rifugio sicuro”. Il primo pensiero è stato: “P­er un qualsiasi caso potevo essere lì anche io, sono solo fortunata a poterlo raccontare”. Poi la stanchezza delle ore di tensione ha ceduto il posto ad un sonno senza sogni. La mattina dopo eravamo tutti in stato di shock.

Abbiamo appreso, il mattino seguente, che al nostro ospite D. nella sparatoria sono morti quattordici dei suoi migliori amici e due sue cugine, vite spezzate così vicine a noi. Paura ad andare al supermercato, passare la giornata incollata al computer per vedere le notizie, per sapere se stava succedendo altro, se la follia avesse davvero avuto fine, per quel momento.

E questo è stato il clima per tutta la settimana. I parigini sono un popolo forte: dal lunedì hanno iniziato a riprendere le loro normali attività, con più silenzio, ma con la voglia di ricominciare, con il dolore ma con la volontà di non farsi vincere dalla paura. Anche con il blitz a St. Denis, gli elicotteri, i continui passaggi di vetture con sirene, alle quali ormai si fa meno caso, lentamente gli abitanti della Ville Lumière sono tornati alla loro vita.

Per noi Italiani è diverso: le continue chiamate degli amici e parenti preoccupati, una strana sensazione che, da una parte ti dice di tornare a casa, ma che dall’altra è fortemente ferma nel voler restare qui, lo status confusionale da stress post traumatico è destinato a restare dentro di noi ancora a lungo, ma i francesi sono diversi. I francesi sono un popolo coraggioso, che “si piega ma non si spezza”, unito, compatto nel dolore e nel rispetto di chi invece prova molta paura. In questi giorni ho riflettuto molto sull’essenza dParigi: la cronologia del blitz; infograficai questo popolo che ritenevo “scostante” e “superbo”, ma ho iniziato ad aver voglia di essere “un po’ più francese”. Per il coraggio che dimostrano nel ricominciare a vivere la vita. Nelle università e nelle scuole se ne parla; dovunque c’è qualcuno che ha perso un amico o un conoscente, si cerca di capire le cause di tutto ciò di spiegare come la violenza abbia preso il sopravvento sulla libertà, ma non si arriva mai all’odio indiscriminato.

Hanno perso la vita anche molti musulmani e questo i francesi lo sanno bene, sono da anni compagni di questa difficile convivenza in terra d’oltralpe. La metrò si ripopola, così come lentamente anche i bistrot, ma in un silenzio surreale. Il silenzio a Parigi, una settimana dopo, è il protagonista di una ferita talmente grande da togliere le parole, ma non la forza per ricominciare giorno dopo giorno, a guardare avanti.

Francia in guerra: aperture da G20 e UE

Difesa/Medio oriente – Africa/Varie di

Dal G20 in Turchia e dal Consiglio Difesa dell’Unione Europea sono arrivati importanti segnali di una possibile cooperazione a livello internazionale nel contesto geopolitico siriano. Pur ancora con divergenze di carattere militare, soprattutto sull’impiego delle truppe di terra, e di carattere politico, il futuro di Assad divide ancora Stati Uniti e Russia, la collaborazione sul campo è di fatto già iniziata.

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Infatti, continuano i raid francesi su Raqqa, dove sono stati colpiti le roccaforti dello Stato Islamico. Anche se i ribelli laici siriani riferiscono che i jihadisti “fuggono come topi” e “si nascondono tra i civili”. Ed è proprio il possibile coinvolgimento dei civili a dividere l’opinione pubblica europea. Insomma, mentre lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Hollande trova consensi sul fronte del controllo interno, lo stesso non si può dire su quello esterno.

Sempre in Siria, Stati Uniti e Russia sono di fatto già attivi nel fornire l’aiuto logistico alla Francia. Il colloquio telefonico tra Obama e Hollande ha stabilito già un piano di cooperazione, in cui sono coinvolte l’intelligence e le forze speciali americane. Mentre Mosca ha assicurato che l’incrociatore “Moskva” coopererà con le forze navali francesi.

Tornando al G20 di Antalya, il colloquio tra Obama e Putin prima e le aperture dei leader europei, Merkel e Cameron in testa, ad una necessaria collaborazione militare con il Cremlino contro l’Isis, segnano un parziale ricompattamento di Occidente e Russia. A questo, si aggiunge l’accusa del leader russo ad alcuni Paesi del G20, Arabia Saudita, Qatar e Turchia, di avere finanziato, attraverso i privati, proprio il Daesh.

Svolta anche a livello europeo, dove il Consiglio di Difesa Ue ha detto sì all’unanimità all’assistenza militare alla Francia nella lotta all’Isis, così come richiesto dallo stesso Hollande. L’alto rappresentante Mogherini ha annunciato che, per la prima volta, si farà ricorso alla clausola di difesa collettiva prevista dall’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona: in pratica, i Paesi Ue hanno l’obbligo di fornire aiuto militare, anche bilaterale, allo Stato (in questo caso la Francia) che subisce un’aggressione militare.

Sul fronte italiano, infine, le parole del premier Renzi segnano un’apertura a metà. Il lavoro “soft power” perché “non si vince con le sole armi” rivelano la linea attendista di Roma. Fino a due settimane fa, l’intervento militare più papabile sembrava quello in Libia. Gli attentati di Parigi, però, hanno rovesciato le priorità geopolitiche internazionali. I leader europei propendono per l’interventismo. Il rischio è che una reazione militare dettata da due fatti, la caduta dell’aereo russo nel Sinai e l’azione terroristica in Francia, portino a non prevedere un piano di ricostruzione postbellica, come avvenuto in Libia nel 2011.

Giacomo Pratali

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Francia attacca IS. USA-Russia cooperano?

Varie di

L’aviazione francese ha intensificato i bombardamenti su Raqqa all’indomani dell’attacco terroristico a Parigi. Nel G20 in Turchia, il bilaterale tra Obama e Putin lascia intravedere degli spiragli su una comune strategia in Siria.

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Lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Francoise Hollande ha già avuto un seguito. Non solo entro i confini nazionali. L’aviazione d’oltralpe, infatti, ha intensificato, nella notte del 15 novembre, i bombardamenti sulle postazioni strategiche in Siria. Il Ministero della Difesa ha dichiarato che sono 12 gli aerei totali impiegati, i quali hanno intensificato i raid presso Raqqa, capitale dello Stato Islamico, e preso di mira un centro di comando e un campo di addestramento.

Gli attacchi di Parigi hanno quindi portato ad una immediata reazione da parte dell’Eliseo. E, soprattutto, il governo non è spaventato dal fatto che, proprio i raid delle settimane scorse in Siria, sono stati una delle cause di quanto successo il 13 novembre. Gli attacchi aerei di queste ore sono, inoltre, il frutto della collaborazione tra Francia e Stati Uniti, già presenti sia sul territorio siriano sia su quello iracheni, che hanno fornito un supporto logistico e di intelligence.

Proprio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha intrattenuto un proficuo colloquio con il suo omologo russo Vladimir Putin nel corso del G20 di Antalya (Turchia). Negli oltre 30 minuti di faccia a faccia, alla luce degli attentati di Parigi, si sono riavvicinati, tanto che la Casa Bianca ha definito la discussione come costruttiva.

Al netto della questione ucraina e dei confini NATO in Europa, quanto avvenuto a Parigi potrebbe aprire lo scenario di una cooperazione militare in Siria, al fine di “risolvere il conflitto nel Paese”, si legge nella nota diffusa dopo il vertice. Pur con la questione del sostegno ad Assad ancora in ballo, la strategia del terrore dello Stato Islamico potrebbe avere un effetto contrario e ricompattare Occidente e Russia in nome della lotta al Califfato.
Giacomo Pratali

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Porte aperte sul baratro

BreakingNews/Varie di

La capitale francese torna ad essere suo malgrado protagonista dell’ennesimo violento attacco terroristico rivendicato da Isis.Non uno ma sette in contemporanea, orchestrati a dovere in luoghi certo pubblici ma avvertiti generalmente come sicuri, quali ristoranti e teatri, per paralizzare Parigi e diffondere il terrore tramite il numero delle vittime, 128 accertate, e dei feriti, 250 di cui 99 in gravi condizioni.

Al bilancio vanno aggiunti i quattro terroristi che hanno seminato morti e terrore nella sala concerto del teatro Bataclan, tre dei quali si sono fatti esplodere. Lo scorso gennaio, esattamente il 7, la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo è stata attaccata da due uomini muniti di Kalasnihinov, che hanno assassinato 12 persone ferendone altre 11.

Il giorno successivo un altro terrorista, Amedy Coulibaly, ha sparato ad una poliziotta, uccidendola. Poi, il 9 gennaio si è barricato in un negozio di alimentari kosher dove ha mietuto altre 4 vittime, prima di essere ucciso come i fratelli Kouachi, identificati quali autori della strage compiuta nella sede del periodico, dalle forze di polizia francesi. Il 2015 era appena iniziato e già si stava annunciando come un anno difficile e complicato.

All’epoca si parlò di profonda ferita per la Francia. Ora, a dieci mesi di distanza, quella ferita si può definire, in proporzione, un lieve graffio. Isis, con orgoglio, rivendica gli attentati, ne promette altri almeno fino a quando la Francia continuerà i raid aerei contro il Califfato in Siria, e mette in guardia la comunità mondiale, identificando prossimi obbiettivi, da Roma, resa ancora più appetibile dal mese prossimo con l’inizio del Giubileo, a Londra, fino a Whashington. La Francia dichiara tre giorni di lutto e annuncia una reazione “spietata contro le barbarie dello Stato Islamico”.

La comunità internazionale si stringe attorno alla capitale francese e promette supporto. Questo è il momento dei proclami, dei messaggi di cordoglio, dei commenti e delle convinzioni per ripetere, ancora una volta, quello che già da mesi è noto a tutti. Resta da chiedersi quanti altri dovranno morire ora per riuscire a invertire i rapporti di forza.

Quelli attuali propongono un rapporto impari, fatto di tante nazioni ufficialmente riconosciute e caratterizzate da precise identità politiche e sociali tenute sotto scacco da una entità autoproclamata che basa la sua esistenza sulla condivisione di un credo religioso portato all’estremismo, dietro cui si trincera per giustificare ogni nefandezza.

Una entità estremamente ramificata, cresciuta come una metastasi silente, che dispone di denaro, armi, mezzi, appoggi e sembra immune ad attacchi e infiltrazioni. Questo è ciò che Isis sta facendo credere, riuscendo perfettamente nel suo intento. Le porte si stanno spalancando di fronte ad un baratro in cui si fondono e confondono gli scenari bellici, in cui le cinture di esplosivo fanno coppia con la guerra del terrore divulgata attraverso il web. Forse ora, è davvero arrivato il momento di fare ordine.

La Francia di nuovo nel centro del mirino

POLITICA/Varie di

A meno di un anno dagli attentati terroristici al Charlie Hebdo, la Francia viene nuovamente colpita al cuore. Nella serata del 13 novembre, Parigi è teatro di diversi attacchi terroristici, causati la vita ad almeno 150 persone.

Diverse le location degli attacchi. Viene colpito lo Stade de France, dove era in corso l’amichevole di calcio Francia-Germania (alla presenza del presidente Hollande); tre terroristi, tre esplosioni. Repentine le misure di sicurezza per il Presidente, che viene immediatamente fatto evacuare e scortato all’Eliseo.

Attaccato anche il teatro Bataclan, che ospitava il concerto della band americana Eagles of Death Methal. Testimoni parlano di otto giovani ragazzi armati e a volto coperto. Tre di questi sarebbero morti facendo saltare in aria le proprie cinture esplosive. Un quarto, invece, colpito dalla polizia francese. Il bilancio è di circa 80 vittime e numerosi feriti.

Altre esplosioni e colpi d’arma da fuoco vengono riportati in alcuni bar e ristoranti del centro città, tra cui il Petit Cambodge e Le Carillon Bar.

Viene dichiarato lo Stato di emergenza, nonché la chiusura delle frontiere, con l’obiettivo di isolare momentaneamente la Francia: nessuno deve poter entrare e perpetuare la violenza ma allo stesso tempo si vuole evitare la fuga dei responsabili di tali atrocità. Aumentate inoltre le misure di sicurezza a Parigi, dove vengono dispiegate più di 1.500 forze, per sorvegliare scuole e palazzi. Il Presidente Hollande definisce tali violenze un “atto di guerra”, che trova le sue fondamenta nello Stato Islamico.

La rivendicazione del Califfato, infatti, non tarda ad arrivare. Secondo l’esperto della BBC Peter King, lo Stato Islamico avrebbe pubblicato una dichiarazione scritta in arabo e francese, nella quale viene elogiato l’attacco suicida degli otto fratelli contro la capitale francese. Su Twitter, inoltre, i sostenitori del Califfato pubblicano messaggi di supporto e foto accompagnate dell’hashtag #Parisinflame.

La nazione di Hollande, tuttavia, risponde ferma e resoluta. “La Francia si dimostrerà senza pietà nei confronti delle barbarie commesse da Daesh” (acronimo arabo dello Stato Islamico). “La Nazione sa come difendersi, come mobilitare le Sue forze e sconfiggere i terrorisiti” afferma il Presidente nel discorso ai cittadini. La Francia presenta una linea dura, dichiarandosi pronta a ricorrere a qualsiasi mezzo ed attaccare ovunque, all’interno e fuori la nazione. Non è soltanto un paese che si deve proteggere, sono i suoi valori e le sue idee, a cui i cittadini francesi non vogliono rinunciare. E lo dimostrano i tifosi francesi, intonando la Marsigliese durante l’evacuazione dallo Stade de France, così come le lunghe code di Parigini pronti a donare il sangue o l’hashtag #Opendoor su Twitter, per offrire un riparo a chiunque ne avesse bisogno. La Francia resta unita. La Francia è stata colpita, ma non cede.

Intanto messaggi di condoglianza e supporto arrivano dai leader di tutto il mondo, sottolineando l’atrocità di tali azioni e il bisogno di affrontare uniti la minaccia posta dallo Stato Islamico. “We will stand together. We will never bow. We will never break.”, queste le parole del vicepresidente statunitense Joe Biden. Dura anche la risposta del segretario generale NATO, Jens Stoltenberg: “We stand strong and united in the fight against terrorism. Terrorism will never defeat democracy”. La stessa Russia di Putin afferma l’importanza di creare un fronte compatto contro una minaccia terroristica reale e comune.

Inevitabile, infatti, l’allerta in tutta Europa, in particolare Londra e Roma, già oggetto di minacce sul web. Il PM inglese Cameroon, che negli ultimi anni ha già incrementato le misure antiterrorismo, ha convocato un meeting d’urgenza per discutere un possibile innalzamento della minaccia terroristica al livello “critico” (il primo della scala). A Roma, intanto, il Premier Renzi eleva il grado di allerta al secondo livello (quello che garantisce la possibilità di immediato intervento con reparti speciali e forze militari). La preoccupazione è legata, inoltre, all’imminente celebrazione del Giubileo 2016. Il portavoce del Vaticano, padre Lombardi, tuttavia, rassicura circa lo svolgimento dell’evento. “L’attacco di Parigi non riguarda solo il popolo francese. Ci sentiamo uniti nella responsabilità di questo mondo che viene colpito da questo odio folle. La condanna è la più decisa”. “Ora -aggiunge- c’è ancora più bisogno del Giubileo”.

La solidarietà c’è, la volontà di fermare questo orrore anche. Ora si tratta di metterle in pratica. Non mancheranno le ripercussioni internazionali, specialmente considerando le operazioni già in essere in Syria ed Iraq. Sarà, dunque, quanto accaduto il punto di svolta per un’azione più mirata, magari coinvolgendo truppe a terra o si sceglierà di proseguire con una strategia che per ora sembra aver dato ben pochi frutti? Si tratta indubbiamente di una scelta complessa, ma altresì impellente e necessaria per la sicurezza delle nostre Nazioni.

 

Paola Fratantoni

ISIS: rivendicazione e cause

Varie di

“La Francia manda i suoi aerei in Siria, bombarda uccidendo i bambini, oggi beve dalla stessa coppa”. E ancora: “13 novembre come l’11 settembre per gli americani”. È esplicita la rivendicazione degli attentati di Parigi da parte dello Stato Islamico. Rivendicazione, tuttavia, ancora da dimostrare secondo le autorità francesi e internazionali.
Nella lunga notte di terrore che ha sconvolto Parigi e tutta l’Europa, a cui hanno fatto seguito le dichiarazioni di sconforto e solidarietà da parte di gran parte dei leader mondiali, esiste l’altra faccia di questa medaglia.

I bombardamenti dell’aviazione francese delle postazioni strategiche dello Stato Islamico in Siria, le azioni in alcuni Stati africani, come Mali e Repubblica Centrafricana, dove peraltro la notizia dell’arrivo del Papa nei prossimi mesi ha provocato un alto allarme sicurezza per il Pontefice e le forze di sicurezza transalpine, hanno provocato la reazione degli uomini del Califfato.

Sul web sono stati diffusi hasthag (poi rimossi) come #Parigibrucia, fotomontaggi inneggianti alle azioni compiute nella capitale francese e l’annuncio che “il prossimo attacco sarà a Londra, Washington e Parigi”.

Gli attacchi terroristici hanno di fatto preso di sorpresa l’intelligence francese. Ma, già da diversi mesi, dopo i fatti di Charlie Hebdo del gennaio 2015, molti siti internet transalpini sono stati oggetto di attacco hacker, con la ricorrente scritta #Franceunderhacks.

Il coinvolgimento di adolescenti nei fatti del 13 novembre significa che i “foreign fighters” sono tuttora un’arma efficace per la propaganda del Daesh. Un’arma che mette a rischio la sicurezza di tutti i Paesi europei.

Seppure multiculturale da diversi decenni, la Francia, così come a catena gli altri partner europei, si scontrano con la difficoltà di reintegrare o combattere quella fetta di società, composta da immigrati o cittadini di seconda generazione, messa ancora più ai margini da due fattori: la crisi economica e l’emarginazione dovuta alla paura verso coloro che non sono davvero integrati nel tessuto sociale europeo.

 

Giacomo Pratali

 

Parigi sotto assedio: l’11 settembre europeo

BreakingNews/Varie di

Almeno 127 e 197 feriti, di cui almeno 80 in condizioni gravi. Sono questi i drammatici numeri, destinati a salire di ora in ora, della serie di attentanti al grido di “questo è per la Siria” o “Allahu Akbar” che hanno sconvolto Parigi venerdì 13 novembre. 7 le azioni compiute nel cuore della capitale francese rivendicate dallo Stato Islamico.
Il più importante al teatro Bataclan, dove circa 1500 persone stavano assistendo ad un concerto rock. Qui, tre terroristi sono entrati in azione, prendendo inizialmente in ostaggio un centinaio di persone, mentre 30 sono riuscite a scappare subito. Gli attentatori hanno poi fatto fuoco sulla folla. Il blitz della polizia a tarda notte ha portato alla loro uccisione, ma anche al drammatico ritrovamento di 118 cadaveri.

Questo l’episodio più grave. Ma il terrore è durato per molte ore, nel corso delle quali si sono temute ulteriori azioni. E lo stato d’allerta, a cui ha fatto seguito la mobilitazione di oltre 1500 unità dell’esercito francese, ha riguardato molti punti del centro parigino. E di conseguenza il sangue e il numero di vittime è salito. 18 al bar La Belle Equipe, 15 a bar Le Carillon e al ristorante Le Petit Cambodge, 5 alla pizzeria La Casa Nostra, 3 all’esterno dello Stade France, dal cui interno, nel corso della partita amichevole Francia-Germania, sono stati uditi tre forti boati causati da altrettante esplosioni. Sull’altro fronte, oltre ai tre terroristi uccisi al Bataclan, sette si sono fatti esplodere.

Il presidente francese Francoise Hollande, presente alla partita, è stato fatto subito uscire per motivi di sicurezza e ha convocato un Consiglio dei Ministri straordinario. Nel discorso a rete unificate, il Capo di Stato ha chiesto ai parigini di aprire le loro case e di non fare mancare la solidarietà verso chi è stato coinvolto in questa serie di attentati. Ha dichiarato lo stato d’allerta alfa e annunciato la parziale chiusura e l’intensificazione dei controlli alle frontiere (nella mattinata è stato chiuso il valico del Monte Bianco che collega Italia e Francia).

“Nel momento in cui vi parlo sono in corso attacchi terroristici senza precedenti nella zona di Parigi. E’ una terribile prova che ancora una volta ci colpisce. Dobbiamo dare prova di sangue freddo. La Francia di fronte al terrore deve essere forte e grande. Rinforzi militari convergono sulla regione di Parigi per evitare nuovi attentati” , ha dichiarato Hollande.

 

Giacomo Pratali

Turchia: ingresso nella UE per controllare i rifugiati

Medio oriente – Africa/Varie di

Fino ad ora offrire ospitalità ai rifugiati che ne oltrepassano i confini è costato alla Turchia circa 7 miliardi di dollari. Questo dall’inizio del conflitto siriano. I flussi migratori, con l’inasprirsi delle violenze nella zona medio-orientale, sono enormemente aumentati negli ultimi mesi travolgendo di fatto l’Unione Europea.

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La Turchia svolge anche in questo un ruolo difficilmente sostituibile come interfaccia fra un Medio Oriente dilaniato da crisi e terrorismo ed una Europa che fatica a recepire l’arrivo di migliaia di profughi, fiaccati e spaventati, in fuga da realtà difficili e assurdamente violente. In questo quadro si inserisce l’accordo che avrebbe unito le volontà europea e turca nella gestione dei flussi migratori anche se entrambe ne smentiscono l’ufficialità.

L’unica voce che al contrario conferma l’avvenuto patto è quella della Commissione europea che considera ciò che gli altri definiscono “una dichiarazione di buona volontà”, un accordo di fatto. Le condizioni offerte alla Turchia riguardano aiuti finanziari, un allentamento delle restrizioni sui visti per i turchi e la riapertura della candidatura del paese all’entrata in Europa. In cambio, la Turchia dovrebbe aumentare i suoi sforzi per contenere i rifugiati all’interno dei suoi confini turchi controllando le frontiere, limitando i flussi di rifugiati vero la Ue, dando loro lavoro, e lottando contro i trafficanti.

I primi tentativi di entrare nell’orbita UE sono stati portati avanti da Ankara nel 2000. Le condizioni prospettate dalla Turchia, nonostante fossero migliori rispetto ad oggi per quanto riguarda democrazia e stabilità interna, non erano apparentemente ancora mature, per essere valutate concretamente. In questi anni, molte cose sono cambiate.

La Turchia, con l’arrivo della minaccia islamica rappresentata da Isis, ha assunto per la sua posizione sia geografica, sia politica in quanto paese inserito in ambito Nato, un ruolo importante e, per alcuni versi, determinante. Erdogan sta facendo di tutto per poter sfruttare al meglio la situazione, colpendo i curdi, anzichè i terroristi Isis destinatari delle armi transitate dalle frontiere turche, senza ferire la sensibilità Nato offrendo, dopo lunghe trattative, l’autorizzazione di far partire i raid contro l’Isis dalla base aerea di Incirlik, nei pressi di Adana.

Ora, l’entrata nell’UE sembra essere una nuova merce di scambio oltre ovviamente ai 3 miliardi di dollari chiesti da Ankara per la gestione dei rifugiati. Il denaro in realtà sembra ancora essere in fase di negoziato sia per gli importi, sia per le modalità di versamento, probabilmente scaglionate su più anni. Al momento comunque, sembrano essere rimasti in sospeso tanto l’inserimento della Turchia nella lista dei ‘paesi sicuri’, quanto l’apertura di 6 capitoli del negoziato per l’adesione, sui quali grava il veto di Cipro e Grecia.
Monia Savioli

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Libia: accordo in bilico

Medio oriente – Africa/Varie di

Tobruk boccia il Consiglio di Presidenza, ma non si esprime sulla proposta del 9 ottobre. C’è attesa per la risposta di Tripoli. La formazione del governo di unità nazionale rischia di saltare. Tuttavia, il mandato di Leon in scadenza e la radicalizzazione del Daesh in alcuni centri nevralgici del Paese richiedono un cambio di rotta in tempi rapidi.

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L’ottimismo mostrato dal delegato Onu in Libia Bernardino Leon al termine delle positive trattative dello scorso 9 ottobre, in cui era stata stilata la bozza dell’accordo e i nomi del nuovo governo di unità nazionale, cozzano con la bocciatura del 19 ottobre del Parlamento di Tobruk dei nomi del Consiglio di Presidenza presentati dalle Nazioni Unite.

Non un voto formale contro l’accordo, dunque. Ma i 153 deputati dell’Assemblea hanno comunque lanciato un messaggio forte alle Nazioni Unite e a Tripoli. Un malcontento che conterebbe una settantina di rappresentanti, pronti, secondo quanto riportato dal Libyan Herald, a defilarsi rispetto alle posizioni del governo di Tobruk.

Adesso, c’è attesa per la risposta di Tripoli, anche se le premesse del 16 ottobre scorso, data della bocciatura dell’accordo di Skhirat da parte del Presidente del Congresso Nuri Abu Sahimin, l quale ha condanato “l’essere stato invitato a New York alla presenza del Ministro degli Esteri di Tobruk, sostenuto da un parlamento illegale poiché sciolto dalla Corte Costituzionale, di un delegato libico presso l’Onu rimosso dal Congresso e dei ministri degli Esteri di Egitto ed Emirati”.

Tuttavia, se uno spiraglio è ancora aperto, il mandato del Parlamento di Tobruk è ufficialmente scaduto proprio lunedì 19 ottobre (anche se poi è stato prorogato). Così come per Leon, a cui succederà il tedesco Martin Kobler e vicino al fallimento della sua missione libica. E il piano militare, economico e sociale a sostegno di un eventuale governo di unità nazionale e dei libici dell’Unione Europea, annunciato dall’alto rappresentante Federica Mogherini lo scorso 20 ottobre, appare utopistico se Tobruk e Tripoli non diranno sì alla bozza delle Nazioni Unite.

Oltre alla dichiarazione congiunta di molti Paesi Onu dei giorni scorsi, le reazioni delle ultime ore tendono a minimizzare quanto è accaduto a Tobruk: “Non ha né approvato né bocciato. È stato solo deciso di non sottoporre la proposta al voto della Camera dei Rappresentanti, ha affermato il ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni. Mentre Leon ha ribadito che “la minoranza non terrà in ostaggio il processo negoziale. La soluzione politica è l’unica possibile”.

Al netto delle dichiarazioni, tuttavia, le prossime ore appaiono decisive. Le varie scadenze istituzionali ma, soprattutto, la radicalizzazione del Daesh in una città strategica come Bengasi pongono come urgente una soluzione politica univoca per la Libia.

Giacomo Pratali

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La rete Europea contro l’Apolidia lancia il suo nuovo report

Varie di

logo_ENSLa ENS – European Network on Statelessness (Rete Europea per l’Apolidia) sta lanciando in queste ore  il suo nuovo rapporto “Nessun bambino dovrebbe essere Apolide” parte integrante della sua campagna mirata a mettere fine all’apolidia infantile in Europa. L’ente è una charity di diritto inglese, con sede a Londra, e come tale è da intendersi quale un ente non governativo, che è alla continua ricerca di partnership col mondo accademico, organizzazioni internazionali, ed esperti del settore asilo ed immigrazione.

Il rapporto offre una sintesi di studi di ricerca condotti dai membri ENS in otto paesi europei, come pure un’analisi delle leggi nazionali in tutti i 47 Stati del Consiglio d’Europa (che ricordiamo, non è né il consiglio Europeo, né il Consiglio dell’Unione Europea, come abbiamo già spiegato su europeanaffairs.media, ma un’organizzazione internazionale che comprende anche Stati non UE, che ha come principale obiettivo la salvaguardia dei diritti dell’uomo) . Il documento spiega perché molte ibelong-fb-cover-Boy_itamigliaia di bambini continuano a crescere senza cittadinanza, a causa di lacune nelle leggi europee in materia o per via di ostacoli burocratici che talvolta impediscono la regolare registrazione delle nascite. Il rapporto rivela che anche tra gli Stati che hanno aderito alle convenzioni internazionali, più della metà non hanno ancora dato corretta attuazione ai relativi obblighi, volti a garantire che i minori acquisiscano una nazionalità. La ricerca di ENS fa luce anche sui casi nuovi ed emergenti di apolidia infantile e si focalizza proprio sul rischio corso da coloro che vengono adottati, o riconosciuti da coppie dello stesso sesso o da bimbi che nascono da rifugiati e migranti o attraverso la maternità surrogata.

Secondo i relatori,il cui lavoro quò essere scaricato qui, l’apolidia infantile – che genera inevitabilmente notevoli difficoltà nell’accesso a diritti e servizi – può essere un problema del tutto risolvibile: la relazione si conclude infatti con una serie di raccomandazioni volte a guidare l’azione per affrontare in modo più efficace il fenomeno in Europa.

Segnaliamo che l’argomento è oggetto di un hashtag su Twitter, #StetelessKids, e che una discussione passaportionline sul social è stata lanciata tra le 16.00 e le 18.00 (ora dell’Europa Centrale) di lunedì 21 settembre. Sull’argomento si è anche espresso Nils Muižnieks, Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani, con delle dichiarazioni su cui ritorneremo. All’evento ed alle discussioni nel settore partecipa anche l’UNHCR, con una campagna denominata #IBelong, che mira all’eradicamento dell’apolidia entro un decennio.

Il motto dell’ENS? “Ognuno ha diritto ad una nazionalità”.

 

 

 

Domenico Martinelli
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