GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Peshmerga, la prima linea di difesa del Kurdistan Iraqeno

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In questi giorni viene annunciata la liberazione di gran parte della città di Mossul. Combattendo strada per strada tra le rovine di un citta che ospitava nel 2014 circa 1.500.000 di abitanti, le truppe iraqene insieme ai Zerawani e i Peshmerga curdi stanno ripulendo la città dai terroristi di Daesh.

Una battaglia durata due lunghi anni durante i quali la popolazione civile ha subito il governo tirannico e sanguinoso dei terroristi neri.

Inizialmente accolti come liberatori e vendicatori dei soprusi del governo centrale sciita, le truppe di Daesh hanno accolto tra le loro fila ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein che erano stati epurati dopo la caduta del dittatore e saccheggiato facilmente gli arsenali dell’esercito Iraqeno della zona, pieni di nuovi armamenti forniti dagli americani al nuovo esercito iraqeno.

In poco tempo Sinjar, Dalafar, Mosul diventano parte dei territori conquistati dall’ISIS portando il califfato nero, fino a quasi Baghdad.

L’applicazione letterale della Sharia, le persecuzioni ai cristiani, agli ebrei e ai mussulmani sciiti hanno reso la vita dei cittadini di Mossul un vero incubo. Uccisioni di massa, arresti e giudizi sommari hanno scandito la quotidianità di questa città.

A questa barbarie gli unici che si sono opposti immediatamente diventando la prima linea del fronte anti Daesh sono stati i peshmerga, male armati e senza grandi nozioni di tattica e strategia si sono difesi con coraggio unico.

La Regione autonoma del Kurdistan Iraqeno è stata riconosciuta nel 2003, con capitale Erbil è il territorio dove risiedono i curdi dell’Iraq. Sin dall’inizio i confini della regione autonoma sono stati fulcro dei dissidi con i governo centrale che non ha voluto includere tutti i territori dove sono presenti i curdi. Naturalmente i territori esclusi dagli accordi sono molto ricchi di risorse energetiche, come Kirkuk.

È il petrolio a segnare la nascita di questa regione autonoma, è la prima fonte di sostentamento del governo regionale e della popolazione, una ricchezza che fa gola a molti, il governo centrale, i vicini Turchi e Iraniani e disgraziatamente anche ai terroristi di Daesh.

Nel 2014 con una campagna lampo ha conquistato larga parte dell’Iraq sunnita, ovvero il nord del Paese. Quando la bandiera nera del califfato spunta nei villaggi del Nord dell’Iraq nessuno sembra in grado di opporsi, l’esercito regolare iraqeno si dissolve, se mai c’è stato veramente in quelle zone, gli unici che si oppongono con coraggio e fierezza sono i Peshmerga curdi che oppongono il loro coraggio alla potenza militare ormai acquisita dai terroristi saccheggiando i depositi dell’esercito iraqeno.

Un altro attore di questa guerra sono le milizie sciite irachene filo iraniane (al-Hashd al-Shaabi), nate nel 2014 e supportate dall’Iran. Queste milizie sono nate a seguito di un decreto di al-Sistani, guida spirituale irachena e denominate PMF: Popular Mobilization Forces.

Queste milizie sono state protagoniste di fatti di sangue piuttosto cruenti nella lotta all’ISIS come le atrocità documentate a Ramadi

Queste milizie oggi partecipano alla liberazione di Mossul ma sono molto meno impegnate su fronte rispetto alle forze iraqene procedendo con lentezza verso il confine turco.

Il Ministero dei Peshmerga ha dichiarato di aver subito 1600 perdite circa non dall’inizio dell’offensiva, bensì dall’inizio della “minaccia-Daesh” (2014). Fonti vicine ai vertici militari stimano che le perdite al fronte nella battaglia per Mossul sono vicine al 65%.

Nella battaglia le minacce principali sono le autobombe che da ovest hanno attraversato i ponti finche hanno potuto, oggi neutralizzata dal fuoco aereo e dai droni americani, i cecchini che ormai si annidano tra le rovine dei palazzi e i tunnel attraverso i quali i terroristi superstiti si muovono al coperto sotto tutta la città.

Fonti vicine allo stato maggiore Peshmerga indicano la necessità di ulteriori sei mesi di tempo per ripulire completamente la città dalla presenza terroristica.

ALL’ALBA DELL’ERA TRUMP: SCENARI E STRATEGIE DELLA NUOVA PRESIDENZA AMERICANA

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Martedi 17 gennaio, presso la sala del Senato di Piazza Santa Maria in Aquiro a Roma, il Centro Studi Roma 3000, specializzato nell’ analisi della politica internazionale, ha riunito, grazie all’apporto della Senatrice Anna Cinzia Bonfrisco, un panel di studiosi, esperti e ed analisti per approfondire e discutere i trend della nuova presidenza americana.

 

L’alba di Trump è stata infatti preceduta, come ha argomentato l’on. Alessandro Forlani, da una campagna elettorale combattuta come forse nessun’altra se ne ricorda nel dopoguerra.

Gli avversari si sono affrontati senza esclusione di colpi, con una virulenza inedita nel linguaggio politico americano.

Il grande sconfitto è il sistema politico e partitico.

In entrambi i campi infatti si è registrato uno scontro senza precedenti tra i candidati alla presidenza e l’establishment di partito.

In campo democratico si è assistito ad una candidata poco amata dal partito e dalla base: Hilary Clinton è stata percepita come troppo compromessa  con i poteri forti e la crisi economica del 2007/08.

Una candidata debole, contrastata con efficacia dalla narrazione alternativa di Bernie Sanders, troppo facilmente liquidato come estremista.

Dall’altro lato Donald Trump, che fin dalle primarie ha corso dichiaratamente contro il partito Repubblicano, il quale non ha mancato di contrastarlo in tutti i modi possibili, cercando di scaricarlo anche quando la corsa alla presidenza era entrata nel vivo.

The Donald non se ne è curato poi troppo, è andato per la propria strada e ha vinto.

Sarà interessante vedere come il sistema politico si adatterà ad una presidenza che nello stile e nella sostanza si preannuncia indipendente e in contrasto con Capitol Hill.

Così come è importante, per capire cosa è successo e cosa succederà, andare alle radici del comportamento dell’elettorato americano.

Il dato elettorale  attesta che la percentuale dei votanti, pari al 55%, è in linea col trend delle tornate precedenti. Perché allora questo esito imprevisto? I motivi sono tanti, ma uno, secondo Paul Berg, Ministro Plenipotenziario dell’Ambasciata Americana a Roma, è di particolare interesse. Gli elettori votano infatti i candidati che sentono piu’ vicini, non solo in base alla promesse elettorali.

Cosa hanno in comune allora un miliardario newyorchese con un disoccupato della Rust Belt?

Il puritanesimo può essere una chiave di lettura. Come forma religiosa non esiste più in America, ma ha plasmato a fondo l’anima del paese, che nel proprio DNA ne porta ancora i tratti. E al di là della ricchezza, delle mogli e dell’edonismo, molti americani hanno visto in Trump un uomo che ha ampliato le proprie fortune lottando contro l’establishment di cui pure faceva parte, un uomo completamente dedito alla propria causa, che dorme poche ore a notte e non ha avuto paura di dire le cose come stanno.

Tutto cil in un paese in cui stanno prevalendo sentimenti di ritirata verso l’interventismo militare e verso alleati che si avvalgono della pax americana senza pagarne il prezzo, e dove cresce una forte avversione  contro una globalizzazione che ha arricchito pochi mentre  molti ne hanno pagato il prezzo.

Un’America che si ritira è al tempo stesso un’opportunità e un rischio per l’Europa che oggi si trova di fronte alla piu’ grande crisi della propria storia, ha commentato l’Ambasciatore Pietro Massolo. Delegittamente politicamente, divisa e debole economicamente, l’Europa nata all’interno del cordone di sicurezza garantito dalla Nato dovrà trovare la forza di reinventarsi ed assumere, pena l’irrilevanza e un ulteriore arretramento dagli affari del mondo, una postura chiara e decisa.

Anche di fronte all’altro grande protagonista della politica di questi ultimi anni, la Russia di Putin.

Trump cambierà i rapporti con la Russia, portandoli ad una normalizzazione e alla ricerca di soluzioni comuni. L’intervento americano nelle aree di crisi (medio oriente e nord africa in primis) sarà molto difficile, secondo la storica tendenza che vede le amministrazioni repubblicane più inclini ad applicare una politica di peace through strenght: grande forza militare da impiegare il meno possibile.

E’ quindi ipotizzabile che, al di la dei toni bellicosi, su questo campo la politica di Trump viaggi su binari noti.

Tutto come prima dunque? No, secondo il giornalista Mario Sechi, che pronostica la nuova Presidenza quale fattore di cambiamentoi profondi.

La globalizzazione guidata dalla Silicon Valley ha portato nel mondo una grande crescita economica, ma ad averne goduto i benefici sono stati in pochi, pochissimi. L’1% della popolazione si e’arricchito sempre di piu’, mentre la working class ha ceduto il passo in termini economici, di sicurezza e di identità. Ed allora con Trump questo scontento ha trovato finalmente un campione in grado di rappresentarlo: è tornato l’acciaio, ha sintetizzato Sechi. La old economy, fatta di fabbriche, industrie, operai vuole riprendersi la scena. Con Trump le aziende americane dovranno tornare a produrre e, soprattutto, pagare le tasse negli Stati Uniti.

Una rivoluzione, secondo il giornalista, uno di quei momenti in cui la Storia cambia strada: in questo caso per riportare in America produzione e ricchezza.

Uno shock per l’ideologia imperante negli ultimi anni ma che, secondo il giornalista e analista internazionale Andrew Spannaus, era evidente già da diversi anni.

Almeno dalla grande crisi del 2007, secondo l’autore del volume “Perchè vince Trump” in America e in Europa era possibile osservare nella società una crescente ondata di sentimenti contrari allo status quo e alle classi dirigenti alla guida del processo di globalizzazione. Se avesse vinto la Clinton probabilmente il mondo avrebbe vissuto un prolungamento della fase precedente, e le conseguenze avrebbero potuto essere ancora più destabilizzanti.

Ma questo è già passato,  l’ascesa di Trump all’esecutivo presenta sia elementi di continuità che di rottura con il recente passato della storia politica americana e saranno i fatti e le decisioni ha determinare il destino del 45° Presidente e le sorti mondiali.

Peaceful demonstration in support of the Minister of Education

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In the night in San Martin Square in Lima there was a demonstration in support of the Minister of Education, Saavedra, and its reform, the demonstrators had the support of some Members of the Frente Amplio, the Left Party in opposition. The demonstration was peaceful and without clashes. In these days there is a strong debate around the education reform,desired by Minister Saavedra, and opposed by the right-wing party Fuerza Popular that in Parliament has managed to push through the motion of disconfidence against Saavedra.

Cooperation between OPEC and non-OPEC countries to stabilize and raise oil prices

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“Close cooperation among OPEC and non-OPEC countries is key to stabilize and raise oil prices,” has said the Iranian President Hassan Rouhani.
The countries should work together to secure implementation of the deals in the first half of next year. The Iranian President specified the position of Latin American countries in the Islamic Republic’s foreign policy and said the Islamic Republic has always attached great importance to its relations and cooperation with these countries, including Venezuela. The OPEC members agreed in November to reduce output by around 1.2 million bpd from January 2017, a move that bolstered crude prices.

Airstrike near Damascus confirmed by Syrian news agency

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The official Syrian news agency on Wednesday confirmed there was an airstrike near Damascus overnight, and blamed Israel, saying the attack was an attempt to bolster the moral of rebel fighters as they suffer the successes of regime forces. Arabic-language media had reported earlier that Israeli aircraft struck a Syrian military target as well as a Hezbollah weapons convoy. As with past claims of Israeli strikes, Israel did not immediately confirm or deny news of the purported attacks.

La rappresaglia saudita: raid aerei colpiscono Sana’a

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Il 20 settembre scorso, le autorità saudita autorizzano attacchi aerei contro le postazioni dei ribelli Houthi nella capitale yemenita Sana’a. Circa una dozzina tra bombe e missili hanno colpito la sede del Dipartimento di Sicurezza Nazionale (National Security Bureau) – è la prima volta dall’inizio del conflitto- il ministero della difesa, un checkpoint nella periferia nord-ovest della città e due campi militari dei ribelli nel distretto sud-orientale di Sanhan.

L’attacco nasce come risposta ad un missile lanciato dai ribelli nella serata di lunedì. Secondo l’Arabia Saudita, il missile, modello Qaher-1, aveva come obiettivo la base aerea King Khalid, 60 km a nord del confine yemenita, nella città di Khamees Mushait. La monarchia saudita sostiene che il missile sia stato intercettato dalle difese aeree del regno prima di poter causare danni alla base stessa o alle zone limitrofe, mentre la Saba News Agency, controllata dai ribelli, dichiara che il missile abbia effettivamente colpito il bersaglio.

La monarchia saudita ha immediatamente reagito, causando -secondo le testimonianze raccolte- almeno una vittima tra i civili e alcuni feriti. Non è la prima volta che il conflitto provoca morti civili , dando adito ancora una volta alle pesanti critiche sollevate in diverse occasioni circa l’elevato numero di morti civili registrato dall’inizio della campagna aerea guidata dall’Arabia Saudita.

 

Gli scontri tra i ribelli Houthi e le forze governative risalgono già al 2004, ma è soltanto nel 2014 che scoppia una vera e propria guerra civile. Nel settembre del 2014, infatti, gli Houthi -un gruppo ribelle conosciuto come Ansar Allah (Partigiani di Dio) che aderisce alla branchia dell’Islam shiita chiamata Zaidismo- prende il controllo di Sana’a, capitale yemenita, costringendo il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi e il governo a rifuggiarsi temporaneamente a Riyhad.

Le forze di sicurezza del paese si schierano in due gruppi: chi a sostegno del governo di Hadi, riconosciuto internazionalmente, chi a favore dei ribelli. Lo scenario è aggravato ulteriormente dall’emergere di altri due attori. Da un lato, al-Qaeda nella penisola Arabica (AQAP), che guadagna terreno nella zona meridionale e sud-orientale del paese. Dall’altro, un gruppo yemenita affiliato allo Stato Islamico, che si contrappone allo stesso AQAP per il predominio sul territorio.

Il conflitto si intensifica a partire da marzo 2015, quando la monarchia saudita e i suoi alleati lanciano un’intensa campagna aerea in Yemen, con lo scopo di ripristinare il governo Hadi. Da allora, più di 6.600 persone sono rimaste uccise nel conflitto, mentre il numero degli sfollati ha raggiunto i 3 milioni.

Ad oggi, gli scontri continuano e la situazione in Yemen rimane instabile. Le Nazioni Unite hanno più volte pubblicato dati allarmanti in riferimento alle morti civili, recentemente accusando l’Arabia Saudita di aver provocato i 2/3 delle casualità, mentre gli Houthi sarebbero responsabili di uccisioni di massa legate all’assedio della città di Taiz.

Inoltre, molti paesi stranieri -seppur con modi e mezzi differenti- hanno progressivamente preso parte al conflitto. La coalizione internazionale vede schierati Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Egitto, Marocco, Giordania, Sudan e Senegal. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia sostengono la coalizione in termini di armi e formazione delle milizie saudite, con la potenza americana impegnata altresì nei bombardamenti aerei contro ISIS e AQAP. Dall’altro lato, l’Iran è stato ripetutamente accusato di fornire armi ai ribelli Houthi, sebbene Tehran abbia sempre negato ogni tipo di coinvolgimento.

E’ bene sottolineare come lo scontro in Yemen non possa essere ridotto meramente ad una guerra civile o ad un teatro di scontro tra terroristi; bensì, si tratta del prodotto di dinamiche molteplici e conflittuali, che coinvolgono diversi attori e interessi spesso contrastanti. Infatti, al di là della guerra civile e della minaccia terroristica, lo Yemen è il teatro della guerra per procura in corso tra le due maggiori potenze del Medio Oriente, Arabia Saudita ed Iran, trascinando così sulla scena alleanze e giochi di potere che contribuiscono ad esacerbare tensioni ed alimentare l’instabilità nella regione.

 

Paola Fratantoni

 

 

 

Storico accordo tra FARC e governo colombiano firmato all’Havana

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Il 23 giugno scorso è stato firmato all’Havana uno storico accordo sul cessate il fuoco tra le FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) ed il governo colombiano del Presidente Juan Manuel Santos. I negoziati, iniziati all’Havana nel novembre 2012, hanno portato ad uno storico risultato: la pacificazione di un conflitto iniziato più di 50 anni fa.

La cerimonia si è svolta all’Havana, capitale del piccolo Paese caraibico che ha dato un grande contributo all’esito dei negoziati. La mediazione tra un gruppo rivoluzionario armato ed un governo non poteva esser svolta in modo migliore che dal Paese rivoluzionario per eccellenza dell’America Latina, il cui governo è erede di un gruppo guerrigliero che ha preso il potere nel 1959. Cuba è allo stesso tempo un Paese che ha costruito una propria solidità istituzionale aggiunta ad un’affidabilità sul piano delle relazioni internazionali, tale da poter essere considerata un interlocutore valido da parte dei principali Paesi della comunità internazionale. Un ruolo decisivo nei negoziati è stato svolto anche dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che oltre ad esser stata un importante mediatore, svolgerà anche importanti funzioni nella fase di attuazione del contenuto dell’accordo. All’incontro del 23 giugno era, infatti, presente anche il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon.

L’accordo si articola in tre parti: la prima riguarda il cessate il fuoco, la fine delle ostilità ed il disarmo; la seconda si riferisce al contrasto delle organizzazioni criminali e la sicurezza delle organizzazioni politiche; la terza, invece, afferma l’impegno delle parti a rivolgersi alla Corte Costituzionale affinché indichi il meccanismo di partecipazione popolare che ritenga idoneo ad approvare l’accordo (si pensa ad un referendum). La prima parte dell’accordo è la più importante poiché definisce le modalità attraverso cui sarà garantita la fine delle ostilità ed il disarmo dei guerriglieri. Si prevede, infatti, la creazione di zone apposite in cui i guerriglieri potranno trasferirsi privi di armi per iniziare un processo di reintegrazione nella vita della società civile. In collaborazione con il governo saranno organizzati corsi di formazione professionale o di educazione a seconda delle necessità. Altro punto importante prevede l’impegno dei guerriglieri a consegnare le armi, le quali passeranno sotto il controllo dell’ONU. I rappresentanti dell’organizzazione provvederanno poi a destinare le armi alla costruzione di 3 monumenti che saranno ideati di comune accordo dal governo colombiano e le FARC. Per garantire l’osservanza degli impegni presi sarà, infine, istituito un meccanismo di controllo e verifica formato da rappresentanti delle FARC, del governo colombiano e dell’ONU. La seconda parte dell’accordo riguarda, invece, l’impegno del governo a contrastare le organizzazioni criminali e a garantire a tutti i movimenti politici e sociali la partecipazione in sicurezza alla vita politica del Paese. Questo è un presupposto necessario per l’inclusione delle FARC nel dialogo politico, in modo che possano in futuro esprimere le proprie rivendicazioni con mezzi pacifici. In cambio, i membri delle FARC si impegnano ad abbandonare definitivamente l’uso delle armi per scopi politici.

Il presidente Juan Manuel Santos ha dichiarato che si apre un nuovo capitolo della storia colombiana, fatto di pace, ma che allo stesso tempo è opportuno rimanere realisti, perché la questione non è ancora del tutto risolta. Ora, infatti, il popolo colombiano dovrà approvare l’accordo raggiunto con un referendum e nonostante la maggioranza della popolazione abbia accolto con gioia la notizia, vi è una parte politica più conservatrice che non ritiene che con le FARC si debba negoziare. Queste forze politiche capeggiate dall’ex-Presidente Álvaro Uribe ritengono che le FARC vadano combattute con le armi. Inoltre, si contesta al governo di lasciare aperta la questione con gruppi armati minori come l’ELN (Ejército de Liberación Nacional), che ha chiesto l’apertura di negoziati separati.

Tuttavia, non si può negare il grande valore dell’accordo raggiunto, la sua forte carica simbolica unita al suo pragmatismo hanno riacceso la speranza nel popolo colombiano di veder risolto il sanguinoso conflitto che affligge il loro Paese dagli anni ’60.

AREA DI CRISI – LA CRISI SIRIANA, EPICENTRO DI INSTABILITA’ DEL MEDITERRANEO

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Nella seconda puntata di AREA DI CRISI insieme all’avvocato Forlani analizziamo la situazione della crisi siriana e il suo impatto geopolitico nel quadrante.

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CREDITS

AREA DI CRISI – settimanale di european affairs –

CONDUCE: alessandro conte, direttore european affairs magazine –

REDAZIONE: giacomo pratali, paola fratantoni, paola longobardi, giada bono – SEGRETERIA DI REDAZIONE: giacomo pratali –

MUSICA SIGLA: per gentile concessione di francesco verdinelli –

REGIA: tino franco –

IMMAGINI: nel blu studios –

MONTAGGIO: daniele scaredecchia –

REALIZZATO IN COLLABORAZIONE CON :

EUROPEAN AFFAIRS MAGAZINE – www.europeanaffairs.media

NEL BLU STUDIOS – www.nelblustudios.com –

EDITO DA: Centro Studi Roma 3000 – www.roma3000.it

 

Gli “Occhi della guerra” vincono gli INMA AWARDS a Londra

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Un nutrito team di giovani, esperti , reporter inviati nelle aree di crisi più rischiose, ecco cosa sono “Gli occhi della guerra” .

Dal 2013 sono stati realizzati circa quaranta reportage con il supporto dei lettori che li hanno finanziati con il crowdfunding un idea innovativa per il mercato editoriale Italiano ed europeo.

Innovazione che ha permesso alla testata italiana di ottenere un prestigioso riconoscimento da INMA, associazione internazionale per il giornalismo di innovazione, il premio per il migliore lancio di un brand.

Ne abbiamo parlato a lungo con Andrea Pontini Amministratore Delegato de “ Il Giornale.it” testata giornalistica online de “Il Giornale” e presidente dell’associazione per la promozione del giornalismo, anima dell’iniziativa.

L’idea nasce nel 2013 per fronteggiare la continua e metodica carenza di presenza di reporter nelle aree di crisi, dalla necessità di documentare cosa stesse accadendo in quei luoghi, cosa sempre più difficile a causa della crescente crisi del mercato editoriale italiano e della carente diffusione di informazioni internazionali.

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Una scelta coraggiosa, ci racconta Andrea Pontini, che inizialmente non trova grande entusiasmo sia dal direttore Sallusti che dall’editore che reputa il mercato non interessato a questo tipo di iniziative.

Il progetto però parte lo stesso, nonostante lo scetticismo, con due iniziali reportage di Fausto Biloslavo, che in poco tempo contrariamente a quanto predetto ottengono i fondi necessari per partire, da quel momento la raccolta fondi cresce giorno per giorno, i sostenitori diventano una comunità che cresce e si rafforza.

Oggi i reporter sono molti e i reportage in due anni sono circa quaranta, alcuni in corso anche in questo momento a testimonianza del successo dell’iniziativa.

Il premio ricevuto a Londra quest’anno ne è la dimostrazione, L’International News Media Association (INMA) è il principale fornitore al mondo di best practice a livello mondiale per i media e le testate giornalistiche che cercano di aumentare i ricavi e naturalmente il pubblico.

Il riconoscimento di livello internazionale è stato assegnato in una competizione dove hanno partecipato illustri testate internazionali e ha un valore importante per il Team de “Gli Occhi della guerra”, premio che spingerà tutta la redazione a fare ancora di più.

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L’Italia festeggia il 70° anniversario della Repubblica

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La parata del 2 giugno tradizionalmente festeggia la proclamazione della repubblica, una festa alla quale partecipa tutto il paese con manifestazioni organizzate dalle istituzioni.

A Roma sicuramente la più importante, la parata che si svolge in via dei Fori Imperiali e che coinvolge le forze Armate, di sicurezza e civili.

Sono sfilati davanti alle tribune delle autorità e alla consueta folla di cittadini che hanno voluto dimostrare il loro affetto verso i giovani che si impegnano con grande passione alla difesa e allo sviluppo del paese.

ParacadutistiInsieme ai 1000 soldati delle forze armate come di consueto hanno partecipato alla sfilata la rappresentanza delle associazioni d’arma che rappresentano chi con grande passione ha prestato servizio nelle forze armate e dedica parte del suo tempo al mantenimento delle tradizioni e in molti casi ad attività di protezione civile sul territorio, ufficiali, sottufficiali e militari in congedo.

Quest’anno i reparti che hanno rappresentato idealmente l’intera Forza Armata sono state le Bande/Fanfare dell’Esercito, della Brigata “Sassari” (attualmente in Libano), della Brigata “Aosta”, della Brigata “Taurinense”, dell’8° reggimento bersaglieri, due compagnie con gli allievi dei quattro Istituti di formazione dell’Esercito (Scuola Militare “Nunziatella” di Napoli e la Scuola Militare “Teuliè” di Milano, Accademia Militare di Modena e Scuola Sottufficiali di Viterbo), il 152° reggimento fanteria “Sassari”, il 1° reggimento “Granatieri di Sardegna”, il reggimento “Lancieri di Montebello” (8°), il 5° reggimento “Aosta” (appena tornato dall’Afghanistan), il 186° reggimento paracadutisti “Folgore”, il 9° reggimento alpini (di recente rientro dal Libano), l’8° reggimento bersaglieri.

Hanno sfilato gli uomini e le donne della Croce Rossa Militare che nonostante le difficoltà che incontrano in questi mesi a causa della trasformazione del corpo in associazione civile hanno voluto mantenere saldo il morale partecipando con grande emozione all’evento.

SassariPer la prima volta hanno sfilato anche 400 sindaci in rappresentanza degli 8000 comuni d’Italia a testimonianza della sempre più stretta vicinanza tra le istituzioni.

Nello schieramento sono stati presenti anche i gli atleti del Gruppo Sportivo Paralimpico Militare che si sono distinti nei recenti Invictus Game di Orlando in Florida USA e che costantemente partecipano all’attività sportiva con grandi successi, tra loro il Colonnello Paglia e il Tenente Colonnello Roberto Punzo.

La sfilata rappresenta un momento importante di coesione nazionale, nella quale si uniscono in un unico passo nuove e meno giovani generazioni con un ideale passaggio di testimone di amore verso la patria.

Alessandro Conte
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