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POLITICA - page 12

Elezioni in Francia: Macron in testa, Marine Le Pen insegue

EUROPA/POLITICA di

Il primo turno delle elezioni in Francia per la scelta del nuovo presidente della République si è concluso con un risultato auspicato dall’Europa: esiste un candidato in grado di arginare i consensi verso il Front Nationale di Marine Le Pen. In questo caso il più convincente è stato Emmanuel Macron, il quale ha ottenuto il 23,9% di voti rispetto al 21,4%  della Le Pen.  Il “terzo classificato” in questa delicata corsa all’Eliseo è stato inaspettato: François Fillon, nonostante le dure polemiche che avevano visto incrinare la sua campagna elettorale, è riuscito a conquistare il 19.9% della popolazione francese avente diritto al voto. Come sappiamo Fillon è l’esponente di una destra conservatrice nella più classica delle accezioni, e nonostante questo, dopo aver appreso il suo risultato ha pronunciato un discorso nel quale invita i suoi sostenitori a votare Macron al secondo turno “perchè gli estremismi non devono vincere, per tutelare la libertà e la democrazia in Francia, che con un voto al Front Nationale – che ha una lunga e violenta storia- verrebbero messe in pericolo”. Più o meno sulla stessa falsa riga anche tutti gli altri candidati ( Mèlenchon, Hamon e Dupont)  si sono appellati ai propri elettori indicando Macron come una “scelta inevitabile”.

Lo scenario che si sta presentando in sintesi è uno solo: Marine Le Pen contro tutti, come da previsione. La tradizione democratica francese riuscirà a reggere anche questa volta? I recenti attentati a Parigi non hanno fatto altro che aumentare quella tensione da terrore che Hannah Arendt descriveva come una delle cause della “Origine del Totalitarismo”, ma il vero divario dei cugini d’oltralpe non è quello che si potrebbe imputare a “classi agiate” vs, “classi proletarie”, bensì quello degli abitanti delle città vs. gli abitanti delle campagne e dei piccolissimi centri di cui la Francia è costellata. La Le Pen nella sua corsa alla Presidenza  aveva puntato infatti più sulla popolazione rurale che sugli abitanti dei grandi centri ed i risultati elettorali le hanno dato sufficientemente ragione.

Adesso la vera sfida sarà quella di capire se il popolo francese darà inizio ad una spinta europeista nel vero senso della parola: per quanto i nostri “cugini” d’oltralpe si lamentano di alcune politiche europee – così come molte persone negli altri Stati Membri ( vedi al capitolo Brexit) – questo voto ha per certi aspetti un valore simbolico quasi referendario in materia di europeismo ed immigrazione.  La paura dell’ISIS  – stando almeno alla momentanea vittoria di Macron – ha perso contro la democrazia. I francesi sono un popolo forte, rigido e determinato, nel bene e nel male, ma mai come questa volta l’esito delle loro elezioni può condizionare in maniera netta le prospettive dell’Unione Europea intera.

Arabia Saudita: verso la diversificazione economica

SA

 

Nelle scorse settimane, l’Arabia Saudita è stata al centro di intense trattative diplomatiche, rivolte prevalentemente a stringere importanti accordi economici per il paese. Non è una coincidenza, infatti, che alcuni degli attori coinvolti in queste trattative siano proprio le tre più forti economie mondiali: Stati Uniti, Cina e Giappone. Infatti, mentre Re Salman bin Abdulaziz Al Saud ha intrapreso un viaggio di sei settimane in Asia, il suo Ministro dell’Energia Khalid Al-Falih si è recato a Washington, dove ha incontrato il Presidente americano Donald Trump.

Una così intensa attività va al di là delle normali “routine” diplomatiche, soprattutto se si considera che la visita del monarca saudita in Giappone rappresenta la prima visita di un sovrano del Medio Oriente negli ultimi cinquant’anni. Cosa si cela, perciò, dietro questa agenda ricca di appuntamenti? Sicuramente il petrolio. Per decenni, la vasta disponibilità di petrolio unita alle rigide regolamentazioni imposte dalla monarchia saudita -che hanno ripetutamente scoraggiato gli investimenti stranieri nei mercati del regno- hanno fatto del petrolio l’unica e sola fonte di entrate del regno.

Tuttavia, il recente crollo del prezzo del petrolio ha preoccupato Riad. E le previsioni del Fondo Monetario Internazionale non hanno rincuorato particolarmente: si prevede, infatti, un calo della crescita economica della monarchia dal 4% allo 0,4% nel corso del anno corrente. Di conseguenza, l’Arabia Saudita sta esplorando nuovi sentieri economici, non ultimo attirare capitali stranieri e sviluppare diversi settori industriali. La strategia di breve termine prevede, infatti, investimenti e sviluppo delle infrastrutture, in particolare elettricità e trasporti. Nel lungo termine, invece, il progetto “Vision 2030” presenta obiettivi e aspettative basati su tre pilastri principali: mantenere un ruolo di leadership nel mondo arabo e musulmano, diventare un centro di investimenti a livello globale e un ponte di collegamento tra Asia, Europa e Africa.

Date queste premesse, diventa più comprensibile l’intenso sforzo condotto dalla monarchia saudita per diversificare la propria economia. Tuttavia, è bene analizzare anche le implicazioni politiche che tali visite diplomatiche e accordi commerciali possono avere.

Iniziamo dal Giappone, la prima tappa di re Salman. Come accennato prima, l’arrivo del re saudita nell’isola giapponese non è un evento così frequente, malgrado i paesi godano di buoni rapporti e la monarchia saudita sia il maggiore fornitore di petrolio del paese. Questa volta re Salman ha, però, deciso di recarsi personalmente a Tokyo, dove ha incontrato il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe. I due leader hanno, così, firmato l’accordo “Saudi-Japan Vision 2030”, un progetto governativo che mira a rafforzare la cooperazione economica tra i due paesi.

L’implementazione del progetto porterà Arabia Saudita e Giappone ad essere partner strategici eguali, e assicurerà alle compagnie nipponiche una zona economica protetta nel regno saudita, in modo da facilitare i flussi in entrata nel regno e le partnership commerciali. I progetti di sviluppo presentati nel documento sono legati sia al settore pubblico che privato.

Quest’ultimo vede coinvolti nomi importanti. Toyota sta valutando la possibilità di produrre automobili e componenti meccaniche in Arabia Saudita; Toyobo, invece, collaborerà nello sviluppo di tecnologie per la desalinizzazione delle acque. Diverse banche -tra cui la Mitsubishi Tokyo UFJ Bank- promuoveranno investimenti nel regno, mentre il Softbank Group prevede la creazione di un fondo di investimenti nel settore tecnologico del valore di 25 miliardi di dollari.

Il Giappone si pone, dunque, come attore chiave per la diversificazione economica della monarchia saudita. Tuttavia, a supportare queste più intense relazioni tra i due paesi vi sono anche motivazioni politiche. Il governo nipponico cerca, infatti, di sostenere la stabilità economica e politica dell’Arabia Saudita, in quanto fattore chiave per mantenere la stabilità nella regione. La competizione tra Arabia Saudita ed Iran per la leadership nel Medio Oriente sta deteriorando la sicurezza e la stabilità della regione ormai da decenni. Il Giappone possiede relazioni amichevoli con entrambi i paesi e invita gli stessi ad intraprendere un dialogo produttivo che possa portare ad una pacifica soluzione delle loro controversie. Aiutare l’Arabia Saudita a rafforzare la propria economia, specialmente in un momento così critico per il mercato dell’oro nero, è essenziale al fine di mantenere una sorta di equilibrio tra le due potenze mediorientali, considerando, inoltre, come i rapporti con gli Stati Uniti -storico alleato e colonna portante della politica estera saudita- abbiano recentemente attraversato un periodo piuttosto difficile.

Proseguendo verso ovest, re Salman ha raggiunto la Cina, com’è noto secondo maggior importatore del petrolio saudita e terza maggiore economia mondiale. Come per il Giappone, la monarchia saudita è la fonte primaria per il fabbisogno energetico della Repubblica. Le due nazioni hanno ampliamente rafforzato i propri rapporti firmando accordi economici e commerciali per un valore di circa 65 miliardi di dollari. All’interno di questa partnership troviamo investimenti nei settori manifatturiero ed energetico, nonché nelle attività petrolifere. Inoltre, tali accordi includono anche un Memorandum of Understanding (MoU) tra la compagnia petrolifera Saudi Aramco e la Cina North Industries Group Corp (Norinco) per quanto riguarda la costruzione di impianti chimici e di raffinazione in Cina. Sinopec e Saudi Basic Industries Corp (SABIC) hanno stretto un accordo per lo sviluppo dell’industria petrolchimica sia in Arabia Saudita che in Cina.

Bisogna sottolineare che una più stretta relazione economica tra la monarchia saudita e la Cina giochi a beneficio di entrambi i paesi. Da un lato, infatti, l’Arabia Saudita può intravedere nuove opportunità di commercio in settori diversi da quello petrolifero, pur confermando il suo ruolo di maggior partner energetico della Cina; dall’altro lato, il mercato cinese può godere degli ulteriori investimenti arabi, nonché della posizione strategica dell’Arabia Saudita nel Medio Oriente. Infatti, l’influenza politica, religiosa ed economica della monarchia saudita nel mondo arabo è fattore fondamentale per l’iniziativa cinese “One belt, one road”, che mira a rafforzare la cooperazione tra Eurasia e Cina.

Anche l’Arabia Saudita, però, ottiene i vantaggi strategici desiderati. Limitatamente alla sua sicurezza nazionale, la monarchia ha sempre fatto un forte affidamento sull’alleanza con la potenza americana e la presenza militare di questa nel Golfo. Tuttavia, durante l’amministrazione Obama, i rapporti tra i due paesi si sono progressivamente incrinati. Motivo principale la mancanza -ad occhi di Riad- di determinazione nel gestire i tentativi dell’Iran di potenziare le proprie capacità nucleari, mettendo, così, ulteriormente a rischio la stabilità della regione. In passato la Cina ha sempre evitato di interferire nelle dinamiche mediorientali, cercando di mantenere una posizione neutrale tra i due rivali -Arabia Saudita e Iran- e sottolineando la necessità di un dialogo tra questi. Tuttavia, ci sono stati alcuni cambiamenti.

Nel 2016, la Cina ha offerto la propria cooperazione militare al regime di Bashar al-Assad e supportato il governo yemenita contro i ribelli Houthi, sostenuti a loro volta dall’Iran (l’Arabia Saudita è, inoltre, a guida di una coalizione militare a favore del governo). Infine, il governo cinese ha recentemente firmato un accordo per la creazione di una fabbrica di droni “hunter-killer” (cacciatore-assassino) in Arabia Saudita, tra l’altro la prima in Medio Oriente.

Vedremo, dunque, progressivamente la Cina rimpiazzare gli Stati Uniti in Medio Oriente? Ancora presto per dirlo, soprattutto dati gli ultimi avvenimenti in Siria. In ogni caso, sembra evidente che Pechino abbia tutto l’interesse ad assumere un ruolo preponderante nella promozione della sicurezza e della stabilità della regione, forte delle capacità militari ed economiche che consentono di poterlo fare.

E giungiamo dunque, all’ultimo grande pezzo di questo puzzle: gli Stati Uniti. Come citato precedentemente, l’amministrazione Obama ha messo a dura prova i rapporti tra la potenza occidentale e la monarchia saudita. Il nodo centrale delle tensioni riguarda la firma con l’Iran dell’accordo multilaterale sul nucleare, che consente alla Repubblica Islamica di vendere petrolio potendo controllarne più liberamente il prezzo, nonché di attirare investimenti nel settore energetico, alimentando, così, la competizione con il maggiore esportatore, ovvero l’Arabia Saudita. È vero, altresì, che la nuova presidenza ha mostrato da subito un approccio piuttosto diverso verso l’Iran, imponendo immediatamente sanzioni contro alcune entità coinvolte nel programma nucleare.

La visita del ministro saudita a Washington sembra, infatti, aprire una nuova fase nei rapporti USA-Arabia Saudita. Il Ministro dell’Energia Khalid Al’Falih e il vice principe ereditario Mohammed bin Salman hanno incontrato il Presidente Trump alla Casa Bianca. Come ribadito dal ministro saudita, le relazioni tra USA e la monarchia sono essenziali per la stabilità a livello globale, e sembrano ora ad un ottimo livello, come mai raggiunto in passato. Infatti, i due paesi sono allineati sui temi di maggiore importanza, come affrontare l’aggressione iraniana e combattere l’ISIS, ma godono, inoltre, dei benefici derivanti dai buoni rapporti personali che intercorrono tra il presidente e il vice principe ereditario.

A livello economico, si prospettano nuovi investimenti nel settore energetico, industriale, tecnologico e delle infrastrutture. Secondo quanto riportato dal Financial Times, l’Arabia Saudita sarebbe pronta ad investire fino a 200 miliardi di dollari nell’infrastruttura americana, pilastro fondamentale dell’agenda politica di Trump. “Il programma infrastrutturale di Trump e della sua amministrazione-spiega Falih- ci interessa molto, in quanto allarga il nostro portfolio di attività e apre nuovi canali per investimenti sicuri, a basso rischio ma con un cospicuo ritorno economico, esattamente ciò che stiamo cercando”.

 

Queste sono soltanto alcuni degli accordi e trattative commerciali che l’Arabia Saudita sta al momento conducendo, ma aiutano a capire il nuovo corso economico del paese. Tali accordi rappresentano, infatti, un “piano B” contro il crollo del reddito derivante dal petrolio, nonché la possibilità di rafforzare e diversificare le capacità economiche del paese, che può contare non solo sul greggio, ma anche su altre risorse, tra cui il fosfato, l’oro, l’uranio ed altri minerali. Sviluppare nuovi settori permette, inoltre, di attirare investimenti stranieri e di creare opportunità di lavoro per la popolazione locale giovane ed ambiziosa.

Uno dei maggiori rischi di un così vasto network di trattative economiche è chiaramente la reazione che i diversi partner posso avere in relazione ad accordi stipulati con altri paesi. È risaputo che gli accordi commerciali abbiano ripercussioni anche a livello politico. Di conseguenza, una delle maggiori sfide per i leader sauditi consiste proprio nel perseguire i propri obiettivi in campo economico, cercando, tuttavia, di mantenere una posizione di equilibrio nei rapporti con i suoi alleati e nazioni amiche, soprattutto lì dove alcuni di questi partner non godono di relazioni troppo amichevoli.

Un chiaro esempio è la Cina. Nonostante il decennale mancato interesse per le questioni mediorientali, la Cina si pone ora come attore chiave nella regione, come mostra il supporto offerto in Yemen e Siria, ma anche il tour condotto da una nave da guerra cinese nelle acque del Golfo (gennaio 2017). Ovviamente, l’Arabia Saudita accoglie in modo positivo un tale supporto, in quanto può aiutare a contenere l’influenza dell’Iran. È, tuttavia, importante non creare attriti con lo storico alleato USA. La nuova amministrazione ha mostrato, infatti, un approccio totalmente opposto ai problemi della regione -Siria ed Iran- e potrebbe essere un grave errore strategico avvicinarsi eccessivamente ad un nuovo alleato. Un simile atteggiamento potrebbe dare l’impressione che un nuovo garante della sicurezza della regione abbia rimpiazzato gli Stati Uniti, un cambiamento che il Presidente Trump potrebbe non accettare facilmente.

 

In conclusione, la diversificazione dell’economia saudita è senza dubbio una mossa intelligente e necessaria. Tuttavia, essa si proietta al di là della mera sfera economica, andando a definire la posizione politica della nazione, come potenza regionale ma anche nei suoi rapporti con gli altri attori stranieri coinvolti nelle vicende politiche del Medio Oriente. Sembra che Riad stia cercando di stringere i legami proprio con quei paesi che hanno maggiore interesse -ma anche capacità economiche e militari- a contribuire alla stabilità regionale, cercando, altresì, di ottenere da questi il maggior supporto possibile contro il nemico numero uno, l’Iran. Cina e Stati Uniti sono in primo piano, ma non bisogna dimenticare la Russia, che negli ultimi anni ha ampliamente sviluppato i suoi rapporti con l’Arabia Saudita e possiede, inoltre, forti interessi politici e strategici in Medio Oriente Da monitorare, infine, lo sviluppo della guerra in Siria, soprattutto dopo il lancio del missile americano Tomahawk sulla base aerea siriana, particolarmente gradito da Riad.

È probabile che la futura strategia economica del Regno seguirà le necessità politiche e strategiche del paese, confermando ancora una volta la forte correlazione tra la dimensione economica e politica, ma anche l’importanza che un’economia forte ed indipendente ha nel mantenere un ruolo leader nella regione.

 

Paola Fratantoni

Focus sull’Estonia: Capitolo 3

EUROPA/POLITICA/Varie di

Le celebrazioni del 60° anniversario della fondazione dell’UE ci danno l’oportunità di parlare nuovamente dell’Estonia – come abbiamo promesso in precedenza – da un punto di vista europeo.

Come abbiamo già detto, l’Estonia deterrà la Presidenza del Consiglio dell’Unione europea nella seconda metà del 2017, a partire da luglio, ereditando qesto compito da Malta. Questo significa che l’Estonia sarà responsabile della definizione delle posizioni del Consiglio, dovendo tenere contestualmente conto degli interessi degli Stati membri e rimanendo neutrale.

L’Estonia agirà in qualità di primo Stato del suo “trio” , in partnership nel 2018, con la Bulgaria e con l’Austria. Abbiamo descritto il “trio” in altre occasioni. Questo compito europeo dell’Estonia terminerà mentre la nazione starà per festeggiare il centesimo anniversario dalla sua fondazione (in effetti, gli Estoni considerano il periodo di appartenenza all’Unione Sovietica come un’occupazione militare; e una buona parte della comunità internazionale riconosce che la loro storia, in qualità di Stato indipendente, non si è mai interrotta durante quel periodo).

c-justus lipsius ilustracka_mensiaMentre l’attività legislativa è normalmente avviata dalla Commissione europea, essa viene negoziata ed adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’UE, che rappresenta i governi degli Stati Membri: i singoli ministri nazionali di ciascun paese si incontrano presso il Consiglio per prendere decisioni a livello politico. La regola più importante è che gli incontri sono presieduti dal Ministro appartenente allo Stato che detiene la Presidenza, e che tale procedura funziona anche a livello di gruppi strategici e di sottogruppi tecnici (i così detti “corpi preparatori“).

Durante la Presidenza, l’Estonia sarà responsabile della conduzione di circa 200 gruppi di lavoro che si riuniranno sia a Bruxelles che a Tallinn, dovendo contestualmente organizzare il lavoro del Consiglio e dei suoi corpi preparatori, sviluppando gli ordini del giorno degli incontri, tentando di raggiungere posizioni condivise tra le differenti opinioni dei delegati, e presiedendo meeting e negoziati. In quanto Stato a capo del Consiglio, inoltre, l’Estonia dovrà difendere la posizione dello stesso Consiglio dinnanzi al Parlamento ed alla Commissione durante appositi negoziati.

Tutte le questioni su cui si focalizza una Presidenza  vengono sempre dal passato; tuttavia ciascuna Presidenza prova generalmente ad aggiungere qualcosa in più, qualcosa di specifico che possa essere ricordato a livello politico e legislativo.

Da fonti ufficiali, apprendiamo che la repubblica baltica si focalizzerà sui singoli mercati digitali, sull’energia, e su una più stretta integrazione con i partner dell’Est Europa. Vorrebbero anche proporre e diffondere soluzioni digitali lungo l’Unione e supportare l’IT nelle differenti politiche dell’UE (come abbiamo detto nel nostro primo intervento, l’Estonia è il paese più evoluto in Europa dal punto di vista dell’information technology).

E’ stato previsto che circa 20 incontri di altro livello si terranno in Estonia, durante il semestre (compresi quelli relativi alla gisutizia, gli affari interni, la sicurezza e la difesa). Inoltre, mentre la maggioranza degli incontri e le riunioni dei gruppi di lavoro avranno luogo a Bruxelles, l’Estonia ospiterà almeno 200 eventi diversi, di differente livello, con un numero atteso di visitatori che si aggira tra le 20mila e le 30mila unità. Così, è un fatto che questo futuro e temporaneo leader dell’Europa incrementerà la sua visibilità nei campi della cultura, dell’economia, dell’information technology, del turismo, della education e della ricerca, sostenendo nel contempo tutte le questioni di interesse, che sono importanti per il popolo estone.The Estonian Permanent Representation to EU

Organizzare la Presidenza significa anche incrementare la capcità dello Stato di dire la sua e di far affermare i propri interessi ed obiettivi in Europa e dovunque nel mondo. Il Governo ha già dichiarato che il semestre non costituirà uno sforzo valido per un’unica occasione, auspicando che il lavoro fatto, ed i relativi investimenti, possano apportare benefici a lungo termine per il Paese.

Questo lavoro strategico parte da lontano. Dal 2012, il Governo di questo paese smart e high tech ha istituito una commissione preparatoria per la Presidenza, presieduta dal Segretario di Stato, cominciando ad assumere e ad addestrare il personale necessario, ed organizzando i citati incontri ministeriali informali e gli altri eventi di alto livello.

Unitamente al Comitato per il Centenario, evento che non è formalmente connesso con la Presidenza, gli estoni hanno preparato il semestre con l’intento di risparmiare tempo, denaro e sforzi, per implementare congiuntamente un programma internazionale per far consocere l’Estonia e la cultura estone nei Paesi stranieri.

Approssimativamente 100 funzionari supporteranno lo staff già insistente presso la Rappresentanza Permanente dell’Estonia presso l’UE a Bruxelles.

Questo dimostra che questo paese altamente tecnologico e specializzato, precedentemente appartenente all’Unione Sovietica, sta giocando adesso un ruolo importante nella sua stessa storia e nelle questioni europee.

Quello che abbiamo tentato di dimostrare con questi articoli di approfondimento è che l’Estonia rappresenta un paese ormai moderno, disponibile ad ospitare istituzioni ed organizzazioni internazionali, aperto ad esperienze politche fondamentali come la Presidenza del Consiglio dell’UE e le celebrazioni del suo centenario dalla fondazione.

Nel prossimo articolo ci concentreremo sulla NATO in Estonia e sulla “NATO estone” vista dalla Russia.

Yemen: la crisi dimenticata

Medio oriente – Africa/POLITICA di

Fallite le 48 ore di cessate il fuoco in atto dal 19 al 21 novembre scorso tra il gruppo ribelle Houthi e le forze fedeli al Presidente Hadi in Yemen. Molteplici sono state le violazioni da entrambe le parti sin dall’inizio della tregua, motivo per cui ne è stata esclusa un’estensione. Lo stesso cessate il fuoco previsto per la notte del 17 novembre scorso era andato in fumo in seguito a una serie di scontri verificatesi nella città di Taiz, che avevano portato all’uccisione di più di venti persone.

Se è vero che siamo lontani dalla cessione delle ostilità sul campo, ancora più remota è un’intesa politica, che dovrebbe porre fine ad un conflitto che logora il paese da ormai 20 mesi. Nelle scorse settimane sono stati intensi i colloqui e gli incontri tra il Segretario di Stato americano John Kerry, l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ismail Ould Cheikh Ahmed e paesi mediatori come l’Oman per trattare con le parti in conflitto e concordare un piano per ripristinare stabilità e sicurezza nel paese.

Molteplici le proposte rifiutate, tra cui l’ultima presentata da Kerry, in base al quale il Presidente Hadi avrebbe dovuto cedere il potere ad un nuovo vice presidente in cambio del ritiro dei ribelli dalle maggiori città del paese e la cessione degli armamenti di questi a parti terze neutrali.

Ad oggi, nessun accordo risulta, dunque, stabilito, data la riluttanza di entrambi gli attori a cedere quella parte di potere e di controllo che hanno sul paese. Da un lato, infatti, il Presidente Hadi rifiuta di cedere il passaggio dei propri poteri, dall’altro gli Houthi premono per mantenere il proprio arsenale militare. Ciò, infatti, garantisce loro un certo potere nella politica nazionale, rendendo il movimento un plausibile nuovo Hezbollah in Yemen, oppositore politico rilevante ma anche militarmente forte.

Sebbene l’attenzione internazionale sia attualmente riposta su altri temi, il conflitto in Yemen diventa giorno dopo giorno sempre più rilevante nei giochi politici regionali e internazionali.

Facciamo un passo indietro e torniamo alle origini dello scontro, nel novembre 2011, quando in seguito alle sollevazioni popolari l’allora Presidente Ali Abdullah Saleh è costretto a cedere in potere a Abdrabbuh Mansur Hadi. Il nuovo presidente, tuttavia, non riesce a gestire diverse problematiche capillari dello stato, come la disoccupazione, la corruzione, la fame e il terrorismo, lasciando così la popolazione in balia di piaghe che eliminano ogni speranza di ripristinare la stabilità nel paese.

Nel settembre del 2014, con il supporto dell’ex presidente Saleh, il gruppo ribelle denominato Houthi, movimento politico-religioso di matrice zaidita (ramo dello Sciismo), assume il controllo della regione settentrionale del paese ed entra nella capitale Sana’a. L’allora presidente Hadi viene messo agli arresti domiciliari e costretto alla fuga verso la città di Aden nel mese successivo.

Si formano, così, due fazioni: gli Houthi, alleati di Saleh, che controllano la capitale Sana’a e il governo internazionalmente riconosciuto del Presidente Hadi, con base ad Aden. In questo scenario si inseriscono sostenitori e alleati da entrambe le parti. Nel marzo del 2015 una coalizione militare a guida saudita inizia una campagna aerea contro le postazioni ribelli, nell’ottica di restaurare il governo Hadi. Da allora più di 10.000 persone sono rimaste uccise nel conflitto e le condizioni di vita nel paese sono peggiorate drasticamente, determinando uno stato di crisi umanitaria.

Dall’altro lato, invece, per quanto ripetutamente negato, pare esserci il sostegno politico e militare dell’Iran, con un gioco simile a quello già visto in Libano con Hezbollah. Secondo il Brigadiere Generale Ahmad Asseri, portavoce della coalizione saudita, esisterebbe proprio un legame tra il gruppo terroristico Hezbollah e gli Houthi. Esponenti del gruppo libanese sarebbero, infatti, stati rintracciati tra i militanti sciiti in Yemen.

Completano il quadro i gruppi terroristici di Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) e lo Stato Islamico (ISIS), che sfruttano l’instabilità della regione per portare avanti la propria agenda politica, riuscendo a prendere il controllo di alcuni territori nelle province meridionali (area controllata dal governo Hadi) e rendendo sempre più complessa la possibilità di ripristinare la sicurezza nel paese.

Risulta, dunque, evidente come il conflitto in Yemen non si limiti esclusivamente alle parti direttamente in campo, ma coinvolga numerosi attori esterni e sia collegato alle dinamiche di potere dell’intera regionale mediorientale. Ancora una volta, infatti, si ritrova la coppia Arabia Saudita-Iran, in lotta per l’egemonia nella regione e si ripropone la divisione tra una componente sciita, attualmente in controllo del Nord del paese, e una sunnita, facente capo al governo Hadi.

Oltre ad essere teatro della proxy war tra Riyadh e Teheran, lo scontro in Yemen rappresenta un fattore destabilizzante anche per il commercio internazionale. L’arsenale missilistico degli Houthi garantisce, infatti, ai ribelli gli strumenti necessari per colpire le navi in transito nello stretto di Bab el-Mandeb, una delle rotte più trafficate del commercio mondiale. Circa 4 milioni di barili transitano giornalmente in questo tratto di mare: è evidente come la sicurezza in questa zona diventi una condizione necessaria non solo per gli attori regionali ma anche per ulteriori stakeholder, come i paesi europei e gli Stati Uniti, fortemente dipendenti dalle riserve energetiche proveniente da questa regione.

Diventa, dunque, più comprensibile il motivo per cui le trattative con gli Houthi includano la cessione delle armi ribelli a delle unità neutrali; altrettanto chiaro è il perché questi ultimi abbiano dichiarato di voler mantenere almeno le armi leggere, garantendosi, così, uno strumento per mantenere potere nelle dinamiche nazionali, regionali e globali.

Le consultazioni continueranno nella speranza di raggiungere un accordo il prima possibile. Resta, tuttavia, da vedere quale sarà l’atteggiamento assunto dalla nuova amministrazione americana nei confronti del problema. In base alle dichiarazioni rilasciate da Donald Trump, infatti, gli Stati Uniti dovrebbero restare fuori da conflitti che non minacciano direttamente gli interessi nazionali e la guerra in Yemen non rappresenterebbe una priorità.

 

Paola Fratantoni

Elezioni usa: incognite e attese all’alba dell’era Trump

AMERICHE/POLITICA di

La vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane ha suscitato, negli Usa e nel mondo, sensibili preoccupazioni, data la totale “verginità” politica del neoeletto e gli argomenti “politicamente scorretti”, a più riprese utilizzati durante la corsa verso la Casa Bianca.    Abbiamo assistito, nelle ultime settimane, alle manifestazioni di protesta popolare che si sono svolte negli Stati Uniti, un fenomeno cui non eravamo abituati, in quelle dimensioni e con quell’intensità di esasperazione, nei confronti dell’elezione di un Presidente di quel grande paese.    Anche in Europa si avverte il timore diffuso di una nuova era della politica americana che possa compromettere il rapporto di collaborazione e di alleanza strategica che finora si è sviluppato tra le due sponde settentrionali dell’Atlantico.    Incombe lo spettro di un tendenziale disinteresse verso il destino dell’Unione Europea.    Al tempo stesso, taluni osservatori ipotizzano la rinuncia ad un certo interventismo nelle crisi più gravi che minacciano il pianeta e un rapporto preferenziale con la Russia di Putin.

Tanto nelle cancellerie degli stati, quanto negli establishment dei partiti, l’outsider, l’uomo nuovo, estraneo agli schemi consueti della politica, incute sempre una certa diffidenza ed inquietudine, soprattutto quando linguaggio e programmi si rivelino decisamente stonati, rispetto alle posizioni comunemente espresse dalle leadership “professionali”.    E verso Trump non  si registra, peraltro, solo la normale perplessità che suscita il nuovo ed il “diverso”, il neoeletto ci ha sicuramente messo del suo, nel corso della campagna presidenziale e un po’ anche dopo, per evidenziare una “controtendenza”, nei confronti di posizioni e di schemi ormai consolidati.    L’allungamento del muro con il Messico, il respingimento dei clandestini, il processo alla sua rivale Hillary, la promessa abrogazione dell’Obamacare, il contrasto delle pratiche abortive, una certa diffidenza verso gli islamici sono temi che dividono inevitabilmente l’opinione pubblica  e suscitano allarme e repulsione in vasti settori della stessa, negli Stati Uniti e fuori.      La stessa immagine personale del tycoon neoeletto è stata pesantemente compromessa da battute poco edificanti sul genere femminile, riemerse negli ultimi giorni della campagna elettorale.    Ma i più “allarmati” devono tenere comunque conto che l’assetto costituzionale degli Stati Uniti prevede forme di controllo e di contrappeso che non consentono a un Presidente di discostarsi sensibilmente dall’operato dei predecessori, soprattutto su valori fondamentali della convivenza derivanti dai principi della democrazia e dello stato di diritto.     Occorre pur sempre una vigilanza costante dell’opinione pubblica e dei media, perché, in alcuni frangenti di panico e di emergenza, si possono sempre annidare tentazioni “elusive” delle conquiste di civiltà e del rispetto dei diritti umani e delle minoranze.    Questi rischi si corrono soprattutto, quando la cultura, la tensione etica che ha favorito e promosso queste conquiste, venga posta in discussione o relegata in una condizione di marginalità.    Ecco, su questo Trump dovrà dare dei segnali chiari, rasserenando quella parte di America che appare profondamente turbata dalla sua elezione.    Già in queste settimane successive all’election day, l’approccio del Presidente eletto sui temi principali del suo programma politico sembra un po’diverso e più cauto, rispetto ai toni di una campagna elettorale fin troppo aggressiva e conflittuale.   Ci sono poi i contrappesi (Congresso, Corte Suprema, in particolare) che costituiscono una solida garanzia.    Ma i segnali di moderazione, negli obiettivi e nella scelta dei collaboratori, sarebbero utili a rassicurare l’opinione pubblica interna e la comunità internazionale.

Questo vale per le politiche migratorie, la riforma sanitaria – lasciando comunque una forma di copertura per i più poveri -, la sicurezza e il rispetto di etnie, culture e religioni, Islam in particolare, distinguendo nettamente tra la professione di questa fede e i fenomeni eversivi e terroristici che, arbitrariamente, nel suo nome scatenano violenze efferate e conflitti.       Il voto a Trump è stato soprattutto un voto “contro”, di protesta nei confronti dell’establishment dominante, ha evidenziato la frustrazione della classe media, legata alla crisi economica, alla riduzione dei salari e dei posti di lavoro, anche a causa della delocalizzazione produttiva.   Un voto ispirato dall’insofferenza verso la vecchia classe politica – repubblicana e democratica – più che da fondate aspettative nei confronti del vulcanico candidato “outsider” e delle sue promesse.    Ma è stato anche un voto di accorata esortazione verso il cambiamento !!   Gli obiettivi di politica economica del tycoon catapultatosi in politica sollecitano l’ansia di riscatto di quell’America che non si sente più rappresentata dalle élites tradizionali: investimenti nelle infrastrutture (strade, ponti, aeroporti), la promozione e l’agevolazione degli insediamenti produttivi sul territorio nazionale, una certa dose di protezionismo, dalla Cina o da altri  “giganti” economici stranieri.    E, soprattutto, un consistente taglio di tasse, non semplice da realizzare con una maggioranza del suo stesso partito, nei due rami del Congresso, che però sembra preferire i tagli di bilancio.  Difficile conciliare una politica espansiva di investimenti, con la riduzione delle entrate fiscali e con l’orientamento repubblicano per i tagli di spesa.    Vedremo, in questi anni, se la ricetta funzionerà, anche a dispetto di queste criticità.     Di fronte ai fenomeni nuovi che si impongono nello scenario storico-politico, occorre sempre abbinare  ad un sano e controllato scetticismo una certa dose di fiducia e di ottimismo, confidando nelle risorse della democrazia, del pluralismo, delle forme possibili di controllo popolare.    A volte, le apparenze iniziali e i pregiudizi ingannano.      Forse non c’è un’evidente analogia, ma la vittoria di Trump mi ha ricondotto, con la memoria, a quella di Ronald Reagan su Jimmy Carter, nel 1980.   Certamente altri tempi e altra storia, molte differenze, Reagan era già un politico a pieno titolo, ex Governatore dello Stato più popoloso dell’Unione, la California e non così  “politicamente scorretto” nel linguaggio, come si è rivelato Trump, nella campagna elettorale.  Ma anche lui era considerato troppo conservatore – si era appena concluso il decennio dei “Settanta”, segnato dall’egemonia culturale di una certa sinistra intellettuale -, anche lui un poco “outsider”, per i suoi trascorsi di attore, anche lui non era molto amato dall’establishment del Partito Repubblicano – il suo partito, come nel caso di Trump – ed era ritenuto poco esperto nel campo della politica internazionale, forse perché l’approccio appariva, in qualche misura, semplicistico e approssimativo.    Eppure, nel corso dei suoi due mandati (1981-1989), si rivelò uno dei più grandi presidenti, tanto in politica interna, quanto nelle strategie internazionali e la stessa caduta del comunismo nell’Europa orientale (“Mr. Gorbaciov, tear down this wall !”), quanto la fine della Guerra Fredda possono ritenersi un effetto indotto delle sue scelte politiche.    E ancora oggi è la vera icona, l’uomo – simbolo, di quel Partito Repubblicano che all’epoca non sembrava del tutto persuaso del suo valore.       Riguardo a Trump…, staremo a vedere…, fiduciosi e senza inutili pregiudizi, rispettando il risultato elettorale.

Di fondamentale importanza deve ritenersi la scelta dei componenti dello staff, collaboratori, consiglieri, ministri.    Questo vale soprattutto per un Presidente privo di esperienza politica.  E’ all’interno della squadra che, in genere, maturano le decisioni importanti.

Nello scenario internazionale, sarà necessario, a mio giudizio, assegnare la priorità alla ricostituzione degli Stati falliti – Siria e Libia, in particolare –, fonte di tensione e di instabilità.   E, soprattutto, chiudere il conflitto siriano, con la catastrofe umanitaria che quotidianamente produce, in termini di vittime, sofferenze e migrazioni di massa.      La maggiore apertura verso Putin dovrebbe spingere Trump verso una “distensione costruttiva”, superando il clima di revival di Guerra Fredda che si è determinato negli ultimi anni e realizzando una forma di cooperazione finalizzata soprattutto alla pacificazione della Siria.   Una cooperazione che includa a pieno titolo un’Europa  che appare oggi priva  della necessaria coesione e, soprattutto, di una leadership forte e rappresentativa delle diverse sensibilità, nella trepidante attesa dell’esito delle urne in Francia e Germania.     Ma la sfida deve essere raccolta, rilanciando la politica estera e di sicurezza comune.   Le divisioni e contraddizioni potrebbero, infatti, diventare il pretesto per una marginalizzazione della costruzione comunitaria, stretta tra i due “giganti” – non particolarmente “europeisti” – dello scenario mondiale.

Hillary Clinton vince il primo dibattito presidenziale

AMERICHE/POLITICA di

Il primo dibattito presidenziale tra Hillary Clinton e Donald Trump si è svolto il 26 settembre all’Hofstra University di Hempstead, New York, a partire dalle 9 di sera. La candidata democratica Hillary Clinton ed il repubblicano Donald Trump si sono sfidati in un acceso dibattito su importati temi di politica interna ed estera. Questo primo dibattito ha rappresentato per gli statunitensi l’opportunità di conoscere meglio le proposte politiche e la personalità dei due candidati alla Casa Bianca. Le elezioni presidenziali sono programmate per il prossimo 8 novembre ed il consenso verso i due candidati dipenderà in parte dalla loro performance nel corso dei tre dibattiti in programma.

Il dibattito è durato 90 minuti ed è stato suddiviso in tre principali aree tematiche: la prosperità, la direzione che seguirà il Paese e la sicurezza. Per quanto riguarda la prima area tematica, i candidati sono stati invitati ad esprimere la loro posizione sul tema del lavoro. Clinton ha proposto al riguardo di creare un’economia che sia in grado di avvantaggiare tutte le classi sociali e non soltanto i più ricchi. L’idea è creare nuovi posti di lavoro investendo in infrastrutture, innovazione, tecnologia, energie rinnovabili e piccole imprese. Inoltre, Hillary ha sostenuto la necessità di rendere la società più equa alzando il salario minimo, promuovendo il diritto alla retribuzione dei giorni di malattia, i permessi familiari retribuiti e l’università gratuita. D’altra parte, Donald Trump ha sostenuto che il principale problema relativo al lavoro negli Stati Uniti è la fuga delle imprese all’estero. Ciò si verifica a causa delle tasse elevate che le imprese pagano nel Paese. Successivamente, ai due candidati è stato chiesto di esporre i loro programmi relativamente alla tassazione. Donald Trump ha quindi proposto di tagliare le imposte alle imprese in modo consistente dal 35% al 15%, in modo da attrarre imprese nel Paese e creare nuovi posti di lavoro. La Clinton, invece, ha espresso una visione opposta sul prelievo fiscale, affermando che il suo programma prevede un incremento delle imposte sulle classi abbienti ed una riduzione delle imposte per le piccole imprese e le classi sociali più svantaggiate. Il suo scopo è permettere l’affermarsi di una più consistente classe media e ridurre le disuguaglianze. A questo punto del dibattito, è stata sollevata la questione della mancata pubblicazione da parte di Trump delle imposte da lui pagate. Pur non trattandosi di un obbligo, i precedenti Presidenti degli Stati Uniti hanno adottato una prassi relativa alla pubblicazione dei documenti relativi al pagamento delle imposte, in modo da dare prova della loro correttezza di fronte agli elettori. Trump ha risposto all’accusa affermando che renderà noti tali documenti quando Hillary pubblicherà le sue email.

Con riferimento alla seconda area tematica, i due candidati sono stati interrogati sulla delicata questione razziale esistente nel Paese. Hillary Clinton ha evidenziato come la prima sfida sarà ristabilire fiducia tra le collettività statunitensi e la polizia. Tale sfida richiede, a suo avviso, una riforma della giustizia e l’introduzione di restrizioni al possesso di armi. Diversamente, Trump ha affermato la necessità di ristabilire legge ed ordine rafforzando i poteri della polizia e promuovendo metodi come lo “Stop and frisk”. Si tratta di una pratica usata dalla polizia che consiste nel fermare persone ritenute sospette e sottoporle a perquisizione. Tuttavia, la Clinton ha ricordato che tale metodo è stato dichiarato incostituzionale.

In relazione alla terza area tematica, relativa alla sicurezza, i candidati hanno affrontato il tema degli attacchi informatici diretti a sottrarre informazioni riservate al Paese. La Clinton ha evidenziato come la sicurezza informatica sarà una priorità per il prossimo Presidente degli Stati Uniti ed ha accusato espressamente la Russia di essere responsabile di un recente attacco informatico. Trump, invece, ha chiarito che non è stata provata la responsabilità della Russia nell’attacco, che potrebbe esser stato orchestrato da un altro Paese. Successivamente, é stato approfondito il tema dell’home grown terrorism e dell’ISIS. Anche su questo punto i candidati hanno espresso posizioni diverse. Trump ha sostenuto che la nascita dell’ISIS è stata il prodotto dei maldestri interventi in Medio Oriente realizzati dai precedenti governi USA. Ha, inoltre, criticato una politica estera fondata sugli interventi militari all’estero e l’alleanza della NATO, considerata un peso economico considerevole per il Paese. D’altra parte Hillary Clinton ha espresso il proprio supporto alla politica estera del Presidente Obama, ricordando che sono state ottenute importanti vittorie senza l’uso delle armi, come l’accordo con l’Iran. Ha inoltre ricordato l’importanza della NATO per garantire la sicurezza degli Stati Uniti, così come la validità degli altri trattati internazionali stipulati dagli USA con i suoi alleati.

Una volta conclusosi il dibattito, un sondaggio ha rilevato che il 62% dei telespettatori ha preferito Hillary Clinton, mentre solo un 27% ha votato per Donald Trump. Hillary Clinton è apparsa al pubblico molto più preparata sul programma politico ed allo stesso tempo ha saputo gestire gli attacchi rivolti contro la sua persona da Trump sorridendo e mantenendo la calma nelle risposte. Al contrario, Trump ha reagito alle provocazioni di Hillary Clinton in modo più spontaneo ed irrequieto, arrivando anche ad alzare il tono della voce. I prossimi dibattiti tra i due candidati, in programma per il 9 ed il 19 di ottobre, saranno fondamentali per capire chi sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti.

Brexit: un test sull’Europa?

EUROPA/POLITICA di

La campagna già intensa ed accesa sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea ha assunto connotati di cupa tragedia, con il barbaro delitto di cui è rimasta vittima la giovane deputata laburista ed europeista Jo Cox.   Il sangue innocente di una coraggiosa paladina dell’ideale europeo alimenta, da un lato, la carica emotiva che accompagna la consultazione referendaria, dall’altro dovrebbe indurre i sostenitori delle opzioni contrapposte a recuperare serenità di analisi e di giudizio.   Credo che, innanzitutto, debba essere sgomberato il campo dalle tinte fosche e dagli atteggiamenti ritorsivi che, pure, hanno contrassegnato, in ambito internazionale, la polemica sulla Brexit.

Come ci ha recentemente ricordato un esperto del calibro di Enzo Moavero Milanesi (Corriere della Sera del 17 giugno scorso), la Gran Bretagna ha sempre rivestito una sorta di “status” particolare, all’interno dell’Unione Europea.   Patria dell’euroscetticismo, è rimasta fuori dall’Unione monetaria, dal sistema Schengen sulla libera circolazione, da taluni vincoli in materia di diritti fondamentali e di giustizia. La sua resistenza alle forme più stringenti di integrazione non le ha tuttavia impedito di concorrere ai notevoli passi in avanti compiuti dai paesi europei nella prospettiva dell’unione politica, nell’ultimo quarto di secolo. E, come la campagna referendaria ha reso evidente, buona parte della sua popolazione, che forse giovedì si rivelerà la maggioranza, crede nella prospettiva dell’integrazione europea.   Pur dosando con attenzione il suo consenso, rispetto alle decisioni comuni e caratterizzandosi, in genere, nel contrasto delle politiche più restrittive delle sovranità nazionali, la Gran Bretagna partecipa alla politica estera e di sicurezza dell’Unione e costituisce una risorsa essenziale, ai fini di consolidare il ruolo dell’Europa nei delicati scenari globali.   Trovo dunque condivisibili gli appelli diffusi contro l’opzione Brexit, ma non gli accenti vagamente ritorsivi ed intimidatori che sembrino precludere nuovi accordi e trattati con il Regno Unito o gravi ripercussioni economiche e commerciali.

Proprio così si rafforzano nell’opinione pubblica britannica, a mio giudizio, le inclinazioni più ostili all’Europa.   Come rileva puntualmente Moavero nell’articolo citato, in caso di vittoria dei fautori della Brexit, la successiva adesione del Regno Unito allo Spazio Economico Europeo (SEE) e la rinnovata sottoscrizione degli accordi commerciali di cui ora è parte, quale membro UE, attenuerebbero sensibilmente i rischi di ricadute economiche negative.   Ancorché drammatizzare e intimidire, occorrerebbe sottolineare gli effetti benefici della permanenza del Regno nell’Unione.   Per l’uno e per l’altra.   Perché, se è vero, come ha rilevato il premier Cameron, che il suo paese perderebbe taluni benefici e opportunità – soprattutto in termini di welfare -, è altrettanto vero che, per la prima volta, in caso di Brexit, un Paese membro lascerebbe l’UE, creando un precedente che potrebbe rivelarsi contagioso.

In uno scenario in cui si rafforzano i populismi e i neonazionalismi antieuropei e sembra crescere l’insofferenza verso vincoli e oneri derivanti dall’appartenenza all’Unione – basti pensare al tema della gestione dei flussi migratori – si potrebbe innescare una deriva disgregativa dagli esiti imprevedibili.   Ci ritroveremmo un’Europa “a porte girevoli”, in cui si entra e si esce, a seconda delle opportunità e del gradimento delle politiche comunitarie.   Tale condizione favorirebbe, forse, la tendenza a promuovere le cosiddette “cooperazioni rafforzate” e a stimolare nuclei ristretti di paesi di più sicura “osservanza” europeista a realizzare modelli di più stringente integrazione, soprattutto su temi centrali, sotto il profilo politico, come le relazioni internazionali, la sicurezza e la difesa, i flussi migratori, la giustizia, i diritti civili, il welfare. Ma le “porte girevoli” determinerebbero anche una condizione di permanente precarietà del processo di integrazione, la possibilità di disertare in qualsiasi momento le intese intercorse e le obbligazioni assunte, poteri decisionali sempre più sbilanciati a favore degli Stati nazionali – , pronti magari a minacciare l’uscita, in caso di dissenso dalle politiche comuni – rispetto a quelli delle istituzioni comunitarie.

In definitiva, un cammino più incerto e discontinuo che potrebbe allentare il vincolo tra i paesi membri e indurre una condizione di complessiva debolezza dell’Europa nel suo complesso e, forse, dell’intero occidente, rispetto ai giganti emergenti, in particolare la Cina, come ha rilevato in questi giorni il Premio Nobel Shimon Peres.   Più che a un modello di federazione politica, rischieremmo di tendere verso quello della CSI, sorta per conservare una solidarietà tra le repubbliche ex sovietiche e ben lontana, nel suo concreto sviluppo storico, dal disegno di integrazione dei padri fondatori dell’Europa comunitaria.   Per questo il referendum su Brexit, nell’immaginario collettivo, al di là del quesito in se stesso, ha ingenerato la sensazione di una sorta di giudizio universale sulla tenuta dell’Unione.

Russia, varata nuova legge antiterrorismo

Asia/POLITICA di

Da quando il conflitto è alle porte la Federazione Russa ha pensato di costituire uno schermo di tipo giuridico anti-terroistico, che però si sta rivelando essere solo un altro dei tentativi per centralizzare e rafforzare il potere dello Stato. La Duma si propone di inasprire le sanzioni per il terrorismo e l’estremismo, e, inoltre, vietare l’espatrio a coloro che possono essere sospettati di aver compiuti atti riconducibili al terrorismo. In effetti la minaccia alla quiete pubblica nelle ultime settimane, come ad esempio l’attacco degli estremisti a Stavropol’, ha fatto sì che fosse necessaria un’iniziativa del genere.
Il giorno 11 aprile 2016 sono stati presentati al parlamento due disegni di legge che andrebbero ad incidere norme contenute nel Codice Penale. Tali modifiche sono state proposte da un deputato della Duma Irina Yarovaya e dal Presidente del Comitato del Consiglio della Federazione sulla difesa e la sicurezza Viktor Ozerov.

Le modifiche sono svolte non solo nella direzione di una più severa pena per le attività affini al terrorismo. Esse andrebbero a colpire immediatamente un certo numero di sfere di vita dei cittadini, enti pubblici e strutture commerciali. L’estremismo può essere considerato anche un post su un social network, se si trova ad essere secondo il nuovo Art. 280 del codice penale affine a quelle attività considerate estremiste. Si innalza il tempo della detenzione e vengono maggiorate le multe. Sono state prese delle misure in materia di revoca della cittadinanza per coloro che sono sotto processo per atti di terrorismo e l’estremismo e impedito loro l’espatrio. E’ stata ridotta la soglia di responsabilità per i minori che dai 16 scende ai 14 anni. Inoltre le nuove sanzioni prevedono da 3000 a 5000 rubli per i cittadini che non si conformano all’obbligo di notificare al Roskomnadzor  le informazioni riguardanti l’organizzazione o lo scambio di dati tra gli utenti in rete, così anche  come violazione del dovere di memorizzare i dati per 6 mesi.

Gli autori di un nuovo pacchetto di iniziative anti-estremista vogliono in particolare limitare l’uscita dal Paese per “Ribellione armata” (Art.279 codice penale) o “Attacco contro persone o istituzioni che godono di protezione internazionale” (art. 360 del codice penale). Sono stati proposti degli articoli anche per il “terrorismo internazionale”, con la pena da 15 anni all’ergastolo, senza possibilità di libertà condizionale, e senza un termine di prescrizione e “Promozione di attività estremista”.

Oltre all’inserimento degli articoli ex novo sono state proposte anche delle puntualizzazioni come ad esempio nelle materie sulla cittadinanza della Federazione Russa. Ne può essere effettuata la revoca qualora il soggetto rientri nella sfera di giurisdizione di quegli articoli che ne provino l’affiliazione ad attività estremiste, con una puntualizzazione che esclude i casi di revoca “se una persona non ha altra cittadinanza o garanzie della sua acquisizione.”
La particolarità di queste leggi è che possono essere rivolti a chiunque. Il fatto che l’imputato o l’indagato rimarrà sul territorio della Russia, non influenzerà la sicurezza dei cittadini. Allo stesso modo, non ha alcuna importanza il fatto che per l’appartenenza a un gruppo armato illegale la responsabilità sia scesa a  14 anni. Gli autori avevano in mente la minaccia rappresentata dall’ISIS, ma i meccanismi di queste nuove leggi possono indurre in suoi abusi, grazie alle linee larghe che non hanno logica organica ma un insieme di azioni volte a rafforzare le misure di controllo. Anche il deputato della Duma di Stato Dmitry Gudkov ha puntualizzato come articoli come quelli che trattano la responsabilità la “promozione dell’attività estremista” possono considerarsi dirette all’eliminazione dell’opposizione del governo.  

La piattaforma Talk.rublacklist.net ha raccolto commenti inerenti a tale disegno di legge. Ne è risultato che la revisione è vista come un nuovo criterio per classificare le attività terroristiche sotto forma di “attività che destabilizzano le autorità”. Si estende il controllo delle comunicazioni di rete dei cittadini. Hosting provider, proprietari di siti web e altre persone (comprese le risorse estere), saranno  costretti a memorizzare i dati sull’ammissione, il trasferimento, il trasporto, la manipolazione varie informazioni elettroniche per sei mesi. Si parla anche dei pagamenti elettronici: saranno limitati quelli non personalizzati, ossia pagamenti effettuati senza identificare il cliente. Questo potrebbe rappresentare una lesione delle libertà personali che concernono sopratutto l’unione di più gruppi e la condivisione degli interessi dei consociati.

Così con il proposito di svolgere delle attività “anti-terroristiche”, i nuovi emendamenti risolvono contemporaneamente alcuni problemi rilevanti per La Federazione Russa come il rafforzamento dei poteri dell’FSB e della Banca Centrale,  Il rafforzamento del controllo sulle comunicazioni di rete dei cittadini, rafforzamento del controllo sulle operazioni finanziarie dei cittadini, con l’ausilio di mezzi elettronici di pagamento, rafforzamento del controllo sulle attività delle ONG.

Yauheniya Dzemianchuk

Alessandro Conte

Egitto: il caso Regeni e gli strascichi libici

La questione dei diritti umani. Il comportamento ambiguo della Francia. La Libia. L’uccisione di Giulio Regeni e lo scontro diplomatico tra Roma e Il Cairo sulle dinamiche legate alla morte del ricercatore italiano si legano ad altre questioni geopolitiche.

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“Abbiamo una visione diversa dei diritti umani rispetto all’Unione Europea. Non potete immaginare cosa succederebbe al mondo intero se questo Paese cadesse. Ciò che sta avvenendo in Egitto è un tentativo di spaccare le istituzioni dello Stato. Siamo sempre pronti a ricevere gli inquirenti italiani affinché si assicurino di tutte le misure che stiamo attivando a questo proposito”.

Queste le parole del presidente egiziano Al Sisi nel corso della conferenza stampa congiunta del 17 aprile con il suo omologo francese Francois Hollande al termine del bilaterale tra i due Paesi. Parole di facciata, volte a ricucire lo strappo con l’Italia, a seguito delle imbarazzanti indagini sulla morte di Regeni, e a rifarsi un’immagine compatibile con l’opinione pubblica internazionale, viste le continue violazioni dei diritti umani in Egitto svelate dalle varie ONG e messe in evidenza proprio dopo le torture subite dal dottorando italiano.

I rapporti tra Italia ed Egitto sono al minimo storico. Lo dimostra il richiamo dell’ambasciatore Maurizio Massari, lo dimostrano i pochi stralci messi a disposizione della Procura di Roma, incredula di fronte al fatto che la Procura Generale de Il Cairo stia insistendo sull’omicidio ad opera della banda criminale.

“In base a tali sviluppi, si rende necessaria una valutazione urgente delle iniziative più opportune per rilanciare l’impegno volto ad accertare la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni”, si legge nel comunicato pubblicato dalla Farnesina venerdì 8 aprile.

Parole che fanno seguito alle tante denunce fatte in particolar modo da Amnesty International, che smentiscono le parole di Al Sisi e la versione fornita dalle autorità egiziane: “Secondo gli ultimi dati forniti dall’organizzazione egiziana “El Nadim”, che il Governo ha per altro minacciato di chiudere, dall’inizio di quest’anno i casi accertati di tortura in danno di cittadini egiziani sono stati 88 e in 8 casi c’è stato il morto – afferma il portavoce italiano di Amnesty International Riccardo Noury in un’intervista a La Repubblica -. Ora, è vero che in questo momento non esistono prove in grado di sostenere che Giulio Regeni sia stato torturato da apparati dello Stato per ordine delle autorità di quello Stato. Ma è altrettanto vero che questo sospetto esiste, è legittimo, è sostenuto dagli esiti dell’autopsia sul cadavere di Giulio, dagli elementi indiziari emersi sin qui dall’indagine e dunque bisogna che questo sospetto il governo egiziano ce lo tolga”.

Una battaglia, quella sui diritti umani e sulla tragica morte di Regeni, fatta propria dal New York Times: “Appoggiamo la battaglia dell’Italia. Gli abusi dei diritti umani in Egitto sotto il presidente Al Sisi hanno raggiunto nuovi picchi, e nonostante ciò, i governi che commerciano con l’Egitto e lo armano hanno continuato a fare affari come se niente fosse”.

Una dura reprimenda e un riferimento non celato alla Francia. L’incontro della scorsa settimana tra Hollande e Al Sisi, infatti, è servito a rinvigorire i legami commerciali tra i due Paesi, stimabili in 2,5 miliardi l’anno. Mentre le flebili denunce sui diritti umani da parte del presidente francese nel corso della conferenza stampa finale sembrano essere state fatte per salvare le apparenze.

Il gelo tra Italia ed Egitto potrebbe essere sfruttato a proprio vantaggio non solo dalla Francia, ma anche dalla Germania e dalla Gran Bretagna, nonostante il governo britannico abbia accolto la petizione di numerosi accademici e studenti e abbia chiesto “più trasparenza nelle indagini sulla morte di Giulio Regeni”.

Non solo motivi economici, ma anche risvolti geopolitici attinenti alla Libia. Se fino ad ora l’appoggio egiziano al generale Haftar e al governo di Tobruk a discapito del nuovo governo di Serraj era cosa palese, più fonti italiane ed internazionali rilanciano l’idea che anche la Francia appoggi segretamente l’esecutivo della Cirenaica a causa della presenza, in quella regione, di numerosi pozzi petroliferi.

La riconquista delle ultime ore di Bengasi da parte dell’esercito di Haftar pone ancora di più agli occhi delle potenze occidentali il tema delle alleanze trasversali internazionali al primo punto. L’Egitto, in questo senso, potrebbe divenire il pomo della discordia tra i partner internazionali impegnati a ricucire l’assetto istituzionale libico in nome della lotta al Daesh.
Giacomo Pratali

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Germania divisa sull’immigrazione

EUROPA/POLITICA di

“Un giorno difficile” per il partito, così si è espressa la Cancelliera tedesca Angela Merkel all’indomani delle elezioni regionali tedesche, tenutesi il 15 marzo scorso. Il CDU (Christlich Demokratische Union) perde, infatti, la maggioranza in due stati federali su tre, Baden-Wuttemberg e Renania-Palatinato. Un risultato significativo: seppur il CDU resti la forza di maggioranza, vediamo emergere nettamente le posizioni dell’Alternative für Deutschland (AfD), partito di estrema destra guidato da Frauke Petry. Tema della discordia: le politiche sull’immigrazione.

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In risposta alla crisi dei rifugiati provenienti dalla Siria e da altri paesi del Medio Oriente, la Cancelliera Merkel da mesi sostiene la politica dell’open-door, in base alla quale la Germania garantisce asilo ai rifugiati e ai migranti provenienti dalle zone di guerra. Nel corso del 2015, più di un milione di persone hanno attraversato la frontiera tedesca. Una politica “umanitaria”, che si distanzia, tuttavia, dalle posizione prese da altri paesi europei, come la Slovenia che ha optato per la chiusura delle frontiere, o l’Austria, che ha imposto controlli più severi ai confini e un tetto massimo di rifugiati da accogliere.

Diametralmente opposta la posizione dell’AfD, fautore della chiusura delle frontiere. “Asylchaos beenden” -il motto del partito- esprime chiaramente un senso di preoccupazione per la stabilità interna del paese. L’AfD sostiene una linea politica conservatrice, votata alla difesa dei valori tradizionali cristiani. L’afflusso costante e corposo degli immigrati musulmani viene percepito come una minaccia a questi valori: un atteggiamento xenofobo, dunque, che pare trovare sempre maggior appoggio tra la popolazione tedesca.

Tra i voti a favore dell’AfD, infatti, non vi sono solo quelli dell’estrema destra tradizionale. Si uniscono al coro anche molti conservatori, tradizionalmente più vicini alle posizioni del CDU ma disillusi dalle politiche centriste promosse dalla Merkel. L’alternativa populista offerta dal partito della Petry sembra, invece, avvicinarsi maggiormente alle esigenze e alle idee di questa componente.

Ci troviamo di fronte ad un elettorato tedesco fortemente polarizzato. Da un lato, chi ha sostenuto e continua a sostenere le politiche di apertura della Merkel, per la quale la paura più concreta non è l’afflusso dei rifugiati, bensì la chiusura delle frontiere. Così facendo, si metterebbero in pericolo i principi cardine dell’Unione Europea, come la libera circolazione delle persone, il libero commercio e la moneta unica. Dall’altro lato, invece, l’estrema destra xenofoba punta su un approccio più radicale, volto a difendere l’integrità e la sicurezza nazionale a scapito dei valori comunitari come, appunto, la libera circolazione.

Copione già visto: in Francia con l’ascesa del partito estremista della Le Pen ed ora negli Stati Uniti con i successi di Trump. Sembra crescere, dunque, nei paesi occidentali l’insofferenza verso politiche troppo permissive circa l’arrivo di stranieri. E il senso di insicurezza dovuto alle continue minacce e agli attentati compiuti in diverse capitali europee di certo non favorisce una linea di pensiero più aperta.

Sullo sfondo di questo contrasto interno troviamo, inoltre, le trattative condotte dalla Bundeskanzlerin in ambito UE con la Turchia, nell’ottica di siglare un accordo sugli immigrati. La nazione di Erdogan ha recentemente richiesto altri tre miliardi di finanziamenti in aggiunta ai tre già previsti, proponendo un meccanismo di scambio tale per cui per ogni profugo siriano riammesso, l’UE ne accolga uno già residente in Turchia. Richieste “comprensibili”, secondo la Germania; diversa, invece, la reazione di altri leader europei, come il premier belga Charles Michel che definisce l’accordo come una sorta di ricatto.

Tuttavia, né l’esito delle elezioni, né i pareri diversi in seno all’UE hanno fatto cambiare idea alla Merkel: nessuna inversione di rotta nella open door policy, mentre l’accordo con la Turchia rimane l’unica strada possibile per risolvere la crisi.

Probabili, dunque, le ripercussione sia a livello nazionale che europeo. In Germania, la CDU non rischia soltanto di vedere crescere l’estrema destra, ma mette a repentaglio la stabilità interna del partito. Lo stesso Horst Seehofer, leader della CSU, partito gemello della CDU in Bavaria, ha pesantemente criticato le scelte della Merkel, affermando che di fronte a simili risultati elettorali l’unica risposta accettabile sia una cambiamento della linea politica. A livello europeo, la distanza tra una Germania in prima linea nell’Unione e gli altri Membri mette ancora una volta in dubbio la credibilità e la stabilità dell’istituzione nonché l’efficacia di un qualunque accordo con la Turchia. Considerando che sono molti i paesi europei ad avere interessi in gioco, una risposta europea deve obbligatoriamente tenere in considerazione le diverse esigenze. E se la Merkel vuole continuare a mantenere la leadership non può chiudere gli occhi sulle posizioni altrui.

 

Paola Fratantoni

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Paola Fratantoni
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