GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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L’arma più terribile del momento: lo stupro

SICUREZZA di

La violenza sessuale è diventata in alcuni contesti una vera e propria arma e tattica di combattimento, rientrando così nella categoria dei crimini di guerra e contro l’umanità. A denunciarlo è il report pubblicato il 5 ottobre 2017 dall’ONG Human Rights Watch che, commentando le interviste in RCA del periodo 2015-2017, punta il dito contro i comandanti delle forze armate, colpevoli troppo spesso di aver tollerato se non ordinato le violenze a danno di civili. Precedentemente, nel contesto congolese, era stato il chirurgo D. Mukwege, soprannominato l’uomo che ripara le donne, a condannare quest’arma pericolosamente conveniente ed efficace che distrugge non solo le donne ma anche il tessuto sociale.

Nelle zone di conflitto, le battaglie si combattono sul corpo delle donne. Ad affermarlo è il ginecologo chirurgo D. Mukwege, fondatore e direttore dell’ospedale Panzi a Bukavu nella Repubblica Democratica del Congo. La guerra sembra connaturata in questa zona dell’est: oro, diamanti, coltan attirano vari interessi e armano gruppi ribelli senza scrupoli. Dal 1999, il dottore con il suo staff ha curato più di 50.000 vittime di violenza sessuale. Le cure fornite non riguardano soltanto l’ambito medico ma anche il campo psicosociale e legale.

È necessario sottolineare che, in Africa, le donne sono perno della famiglia e dell’economia. Colpire le donne e distruggerle fisicamente e psicologicamente significa quindi dilaniare il tessuto sociale ed economico e generare ulteriore povertà.

I violentatori vogliono punire e terrorizzare la popolazione civile, indurla a fuggire; il tutto tramite stupri collettivi e pubblici che a volte comprendono l’uso di oggetti contundenti, granate, vetri inseriti crudelmente nelle parti intime. Il dottore, vincitore del Premio Sacharov per la libertà di pensiero 2014, ha sottolineato in varie occasioni che i crimini in questione sono ben pianificati e mirano a mettere in fuga comunità intere.

Non si spiegherebbero altrimenti violenze sessuali così sistematiche di cui sono vittime donne di ogni fascia d’età, minori di entrambi i sessi e addirittura neonati.

Uno scenario simile è presente anche nella Repubblica Centrafricana come denuncia il report HRW. 5 anni di conflitto, 2 gruppi armati principali: i Seleka, di matrice musulmana, e gli Anti-balaka di stampo cristiano-animista.

Le interviste a 296 sopravvissute raccontano casi di stupro e di schiavitù sessuale a danno di ragazze e donne, di età compresa tra i 10 e i 75 anni, che abitano nella capitale Bangui e in altre città come Alindao, Bambari, Boda, Mbrès. Solitamente le vittime sono catturate mentre vanno a scuola o al mercato oppure nei campi dove lavorano.

Ma le violenze si consumano anche in casa, davanti ai mariti e ai figli, costretti a vedere il macabro spettacolo e torturati, mutilati, se non violentati a loro volta. I casi di stupro documentati dall’organizzazione sono 305 ma si tratta ovviamente di un numero indicativo e di una ricerca mirata: l’Onu, ad esempio, denunciò 2.500 casi di violenza sessuale in RCA solo nell’anno 2014.

Delle 296 intervistate solo 145 hanno ricevuto cure mediche adeguate: mancanza di ospedali, costi, paure di stigmatizzazione alla base di tale abbandono. Solo 66 hanno ricevuto un supporto psicologico. Tutte le altre affrontano da sole – perché spesso abbandonate dalla famiglia per la vergogna – gravidanze non desiderate, depressione, DPTS, HIV. I responsabili girano liberi per le città tra deboli istituzioni, pochi tribunali e polizia assente. Eppure si tratta di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità diffusi e sistematici come condannati nell’art. 7 dello statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

In Ruanda e in ex-Jugoslavia, il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR) e il rispettivo per i Balcani condannarono le violenze sessuali commesse in quei luoghi come crimine di guerra. La Corte penale speciale di Bangui quando emetterà una simile sentenza? E la Corte Penale Internazionale quando si spingerà oltre le indagini in corso?

Giulia Cataneo – Centro Studi Roma 3000

 

BookReporter 4 puntata

BOOKREPORTER di

4 puntata per quelli di BookReporter con una lunga intervista ad Andrea Adorno autore del romanzo autobiografico ” Nome in codice Ares” , la biografia del presidente dell’Afghanistan preparata da Aurora, in compagnia di Laura laportella che ci parla del film “The imitation game”. Gran Finale con Alfredo Bosco, fotoreporter in zone di guerra, che ci racconterà dei suoi reportage in Dombass.

Buon Ascolto!!!

 

Uno sguardo Internazionale in Festival

BOOKREPORTER/EUROPA di

La città emiliana ha ospitato l’XI edizione del festival dell’Internazionale, il settimanale che raccoglie testimonianze ed articoli di giornalisti da tutto il mondo. Dal 29 settembre al 1 ottobre quest’anno sono stati invitati ben 250 ospiti provenienti da 40 paesi e 4 continenti. All’insegna della “prospettiva”, per combattere i moti xenofobi ed i populismi che nell’ultimo periodo hanno attaccato gli scenari politici e sociali; gli incontri organizzati avevano l’obiettivo di informare innanzittuto e coinvolgere anche coloro che per pura curiosità si erano avvicinati ad ascoltare, dai più ai meno giovani. La città era gremita di persone così come di incontri e proiezioni, che spesso era difficile scegliere a quale partecipare. Andiamo ora a scoprire gli incontri concernenti la questione del Medio Oriente e gli eventi rivoluzionari più vicini ma anche quelli più lontani, dalla Brexit ai flussi migratori.

Per iniziare.. Can Dündar, scrittore arrestato nel novembre del 2015, sotto il regime di Erdogan, per aver pubblicato delle documentazioni circa l’invio di armi segrete da parte dell’intelligence turca ai combattenti siriani, vive oggi esiliato in Germania e ha vinto il premio della stampa internazionale per la libertà. Il cinema Apollo di Ferrara lo ha ospitato per testimoniare la sua esemplare esperienza; ai populismi che stanno prendendo piede in più parti del mondo, Dündar risponde che si deve combattere uniti, resistendo alla minaccia. Descrive poi Erdogan come un abile prestigiatore di personalità: può essere il miglior nemico così come il miglior amico e denunciando gli errori che ha commesso, sostiene che la Turchia risentirà, e già ne risente, delle conseguenze.

Nel primo pomeriggio Timothy George Kelly, giovane regista australiano che ha voluto intraprendere una nuovo progetto con il popolo inglese: ha prodotto un documentario fatto da 49 interviste in cui gli stessi inglesi spiegavano il loro voto del referendum del giugno scorso circa il futuro dell’Inghilterra all’interno o all’esterno dell’UE. In 92’ si spazia da persone con idee chiare e realmente convinte di ciò che pensano a persone, di ceti sociali minori, che giustificano il loro voto con pensieri che sfiorano il ridicolo, spesso a causa della loro ignoranza. L’ignoranza è proprio il fattore che denota la sottovalutazione di un voto che avrebbe invece modificato radicalmente la storia del loro paese; accanto ad essa si affianca la confusione che alcuni interventi dimostrano circa il significato di UE e cosa davvero significhi essere europei o meno. Il documentario mostra poi come l’origine della famiglia influenzi profondamente il pensiero di una persona, dal contadino la cui unica preoccupazione è di allevare le pecore e che dunque non è afflitto minimamente da una questione del genere, alla ragazza con i genitori immigrati per cui l’UE è stato invece un aspetto fondamentale della loro integrazione. Interessante in questo documentario anche le scelte del regista per quanto riguarda l’inquadratura e l’uso del bianco e nero.

Ci spostiamo poi in “Altre Afriche, racconti di paesi sempre più vicini” un libro di Andrea de Georgio con Hassane Boukar con la prefazione di Lucio Caracciolo; il cortile di Palazzo Crema ha ospitato un’interessante dibattito circa la situazione attuale del Sud Africa, in particolare il Niger, che è sempre più vicina all’Occidente per molteplici fattori. Innanzitutto i flussi migratori stanno mettendo sempre più in contatto la nostra cultura con la cultura africana; l’atteggiamento di alcuni paesi, la Francia in primis, che perseverano una pressione inadeguata nei confronti di questi popoli: l’uso del franco CFA ne è una chiara dimostrazione. Lo scrittore nigerino ha testimoniato come al giorno d’oggi queste questioni vadano spesso ad oscurare la vera realtà delle società, dove le decisioni delle istituzioni nascondono le necessità primarie dei popoli, che sono ancora tutto tranne che liberi.

L’Unione Europea è la protagonista del dibattito di Romano Prodi e Ilvo Diamanti. Prodi esordisce, commentando con gran naturalità i risultati delle elezioni tedesche, ammettendo che non poteva che aspettarsi la vittoria della cancelliera, alla quale riconosce il merito di aver messo in pratica un programma progressista che ha accompagnato lo sviluppo del paese, ed è stato uno tra i motivi che le ha permesso di essere rieletta. Alla questione Unione Europea, Diamanti risponde citando non tanto l’allargamento quanto la mala gestione all’interno della società internazionale che continua a causare incomprensioni e sollevamento di questioni che anzichè risolvere, bisognerebbe evitare che sorgano. A ciò connesso è senza dubbio la crisi della democrazia rappresentativa che sta attraversando praticamente ogni angolo del mondo; i due ospiti riflettono sul problema del delegare al “solo” il potere, a volte persino incostituzionalmente come nel caso di Polonia ed Ungheria, non rispecchiando quindi la volontà generale dei popoli elettori.

La crisi non giustifica la disumanità: apre così il dibattito Erri de Luca, gran sostenitore dei rifugiati e testimone attivo dei viaggi che li vedono protagonisti nella ricerca disperata di raggiungere le coste italiane. Testimone attivo perché è salito su una nave di Medici Senza Frontiere: ciò che più lo colpisce è la serietà con la quale i giovani volontari lavorano per portare a salvo più persone possibili, la grande forza con la quale si prende questo incarico, influenzando persino chi lì lavora per un contratto. E’ la fraternità il primo valore portato avanti, ma anche soppresso in poco tempo a causa dell’eliminazione del diritto di appello per i migranti prevista dal governo italiano. Da qui il dibattito inizia a prendere toni polemici e di protesta nei confronti delle decisioni prese nei mesi precedenti dalla politica italiana (dalle diffamazioni alle ONG, alla pubblicazione del codice di regolamento, in cui MSF ha dichiarato fin dall’inizio non aderire), con la partecipazione anche del presidente italiano di Medici Senza Frontiere Loris de Filippo.

La giornata di sabato ha visto altrettanti attori della scena moderna internazionale e mondiale..Tra cui: “Ripartire da sinistra”. Si assiste progressivamente alla perdita dei valori tradizionali della sinistra, di quei modelli che hanno costruito le vere menti fondatrici di una scuola di pensiero che risale oramai a molti anni fa. Ciò che critica soprattutto l’ex ministro della giustizia del governo Valls,Christiane Taubira, è la mancanza di comunicazione con e fra le classi della società, utilizzando il termine “depoliticizzazione”. Le classi tuttavia hanno perso quasi completamente il significato di cui godevano una volta, non si può più parlare di classe media infatti e il bisogno ricade inevitabilmente nell’individuazione di un rappresentante. La crisi di cui sentiamo parlare sempre più spesso è diventata un modo di gestire il sistema, insidiando così paura e mancanza di fiducia nei cittadini. L’obiettivo deve essere quello di poter tornare a parlare di solidarietà nazionale: terrorismo, immigrazione, ecologia devono rappresentare proprio il punto di partenza, essendo i problemi che accomunano la maggior parte degli attori internazionali e proprio quelli che li possono unire.

“Love & Revolution”. Un dibattito fuori dalle righe per i temi e i protagonisti che ne hanno preso parte: il giovane scrittore Saleem Haddad, lo scrittore egiziano Ayman El Amir insieme a sua moglie Nada Riyadh e la giornalista inglese, nata in Canada, Shereen El Feki che hanno discusso sul significato dell’amore e di un aspetto intimo quale quello dell’omosessualità in Medio Oriente. Shereen El Feki ha svolto un’inchiesta sul sesso nel mondo arabo, per comprendere a fondo cosa passa nella mente di un individuo di una realtà un pò diversa dalla nostra, ma pur sempre con istinti umani. Nel linguaggio arabo si distaccano in particolar modo i due termini “habram” e “haib”, in cui il primo sta a significare tutto ciò che va contro la religione, mentre il secondo significa vergogna, il timore di non fare pur di non essere giudicato; da qui si delinea come la vita al letto è strettamente connessa con la vita esterna. A volte è la sola paura del pregiudizio a non liberare sentimenti che appartengono da sempre all’essere umano, sia esso uomo o donna.

E per concludere.. la Corea. In Corea del Sud 30 anni fa finiva la dittatura e si può dunque definire la democrazia una democrazia piuttosto giovane. A raccontarci questa realtà sono stati Chang Kyung-Sup, dell’università di Seoul, Kim Young-ha, scrittore e giornalista e Anna Fiefield del Washington Post. Fino al 2007 il popolo coreano era l’unico a stare sui libri per più di 2000 ore all’anno e il tasso di suicidi era davvero fuori dal normale ma altresì la produzione molto alta lo faceva posizionare tra i posti più alti per la prosperità economica: un quadro molto vario dunque. L’influenza americana e l’abitudine oramai divenuta quotidianità fa sì che la Corea del sud sia comunque dinamica nel relazionarsi, nel trovare più spazio all’impegno piuttosto che al tempo libero, la vita è paragonabile ad una macchina in continuo movimento e l’industrializzazione da questo punto di vista ha certamente contribuito molto. L’ultima elezione della presidente è avvenuta, secondo il sociologo presente, per la paura dei cittadini di non sapere dove si sarebbe andati a finire se il potere fosse stato affidato ad altri. Per quanto riguarda poi la minaccia della Corea del Nord, che forse spaventa più l’occidente che la Corea stessa, viene descritta come un muro, al di là del quale non si vuole oltrepassare, o meglio neanche ci si vuole immaginare cosa possa esserci; a livello di pericolo effettivo le dichiarazioni provenienti dal nord si ripetono da così tanto tempo che hanno perso la loro credulità.

Alla prossima edizione..

Laura Sacher

Iraq: conclusi i lavori di verifica del ponte sulla diga di Mosul.

ASIA PACIFICO/SICUREZZA di

Si concludono le attività di verifica dei lavori presso la diga di Mosul. Nei mesi precedenti, infatti, 500 militari della Task Force “Praesidium”,in collaborazione con il corpo di ingegneri dell’esercito statunitense, hanno operato in una complessa operazione di verifica della ricostruzione di un ponte su una diga, la più grande di tutto l’Iraq, a pochi chilometri da Mosul, dove sta operando con dei lavori all’infrastruttura idraulica la ditta italiana Trevi SPA. In questo ambito i militari della Task Force garantiscono la sicurezza dei cantieri.

Il ponte era stato danneggiato nel 2014 e successivamente riparato. Le caratteristiche della struttura e l’altezza da terra avevano però impedito una completa verifica della parte inferiore non permettendo l’omologazione definitiva. Qui il fondamentale intervento degli alpinisti della Task Force che, insieme ad alcuni tecnici militari USA, hanno realizzato un complesso passaggio aereo a doppia corda lungo oltre 30 metri. Ciò ha permesso la completa verifica dei lavori di ricostruzione del ponte. Se le tecniche utilizzate dal team del terzo reggimento Alpini di Pinerolo, subentrato il 14 agosto a quello del primo Bersaglieri di Cosenza, corrispondono a quelle tipiche da montagna, il contesto ambientale era diverso.

Questo fatto conferma la completa adattabilità delle procedure militari, dimostrandone una duplicità di impiego. Il lavoro dell’esercito a Mosul rientra nell’operazione “Inherent Resolve”, a cui l’Italia partecipa con la Missione Prima Parthica. L’operazione è di contrasto al terrorismo internazionale e vede 1500 militari, appartenenti a tutte le forze armate italiane, dispiegati nelle sedi di Baghdad e Erbil, con l’obbiettivo di addestrare le forze di sicurezza curde ed Irachene.

Herat, solidarietà italiana per bambini e disabili

ASIA PACIFICO/SICUREZZA di

Nell’ambito delle attività di cooperazione civile e militare portate avanti dal Train Advise Assiste Command West sono stati consegnati materiali didattici, sportivi e ludici nella Sezione Femminile del Carcere di Herat e nella Fondazione “PIR Herat Charity”, che si occupa di assistenza a persone disabili di ogni età, in un Paese in cui il sostegno alle persone in difficoltà è tuttora molto limitato.

L’iniziativa è stata portata avanti in collaborazione con le ONLUS “Ampio Raggio” di Boscoreale nell’ambito del progetto “Ponte della solidarietà Italia Afghanistan patrocinato dal Consiglio Regionale della Campania e dell’Accademia Bonifaciana, in collaborazione con il “Centro Servizi Volontariato” di Napoli e l’Associazione Nazionale Autieri d’Italia, in sinergia con enti, istituzioni, gruppi di Protezione Civile e associazioni.

Nel carcere femminile di Herat sono infatti ospitati anche i figli delle detenute ed a loro sono stati donati i materiali didattici e una ludoteca con giochi e arredi per bambini tra 1 e 6 anni. La fondazione “PIR Herat Charity” ha ricevuto invece canestri, numerosi palloni e completi da pallacanestro per la squadra di basket in sedia a rotelle, che nel percorso riabilitativo partecipa a competizioni in Afghanistan e all’estero.

Nel corso della donazione, presieduta dal Comandante del TAAC West Generale Massimo Biagini, la direttrice del carcere femminile, Colonnello Sima Pazhman, ha ringraziato il contingente italiano per il supporto fornito all’Associazione “Ampio Raggio”, la cui donazione permetterà ai piccoli figli delle detenute di vivere insieme alle madri in un ambiente un po’ più sereno. Toccanti sono state le parole del Presidente della Herat Charity Foundation, Mr. Abdul Ali Barakzai, che ha confermato come consideri il suo Centro come “un pezzo di Italia, grazie al continuo supporto ricevuto nel corso degli anni dai soldati e dal popolo italiano. Siete nostri amici e rimarrete per sempre nostri amici”.

Croce Rossa Italiana all’ONU per il trattato sul nucleare

EUROPA/SICUREZZA di

Può esistere un mondo senza il nucleare? E’ la domanda che in molti si stanno facendo e proprio in questi giorni a New York si discute il trattato di messa al bando del nucleare approvato da 120 paesi ma ancora ostacolato da molte potenze occidentali, nonostante gli evidenti rischi per la stabilità di certe aree come testimonia l’attuale crisi in Corea del Nord.

Tra i promotori di questo importante trattato anche la Croce Rossa che sin dalle sue prime fasi ha voluto fortemente promuovere una soluzione di questo tipo ed è per questo che è presente all’Assemblea Generale dell’ONU il Vice Presidente della Croce Rossa Italiana Rosario Valastro che ha partecipato in questo consesso a due importanti discussione, Nucleare e vittime tra gli operatori umanitari nelle aree di crisi.

Abbiamo raggiunto telefonicamente il Vice presidente a New York durante i lavori per sapere come si stanno svolgendo i lavori.

AC: “Dottor Valastro, la Croce Rossa Italiana oggi è all’ONU a New York per discutere due temi molto importanti. Il primo è il trattato sulla messa al bando del nucleare al livello mondiale e l’altro tema è purtroppo l’uccisione degli operatori umanitari durante le operazioni di soccorso. Per quanto riguarda il primo punto quanto è importante questo trattato per il futuro dell’umanità?”

V: “Si tratta di un trattato storico, direi, importante e vitale. Il comitato internazionale della croce rossa ha molto spinto sull’informazione relativa a questo trattato, che, salvo qualche notizia a luglio, è passato sotto silenzio, perché gli effetti delle bombe atomiche incidono sulle vite decine di migliaia di persone e si tutte le future generazioni. Quindi la croce rossa sotto il suo focus dell’attenzione all’ umanità e dell’assistere tutte le persone vulnerabili ha fatto leva sugli stati affinché se ne discutesse. A luglio c’è stata l’approvazione a due terzi, quindi il trattato è una trattato di cui si è aperto il processo di ratifica. Chiaramente tra tutti gli assenti pesano tanto le assenze di quelli che sono molti stati dell’unione europea oltre di quelle che sono le cosiddette potenze nucleari. Il lavoro è lungo; però riuscire a raggiungere un obiettivo di umanità è sicuramente una lotta che necessiterà del suo tempo ma noi non disperiamo.”

AC: “Qual è il polso della situazione secondo lei su queste assenze molto importanti. C’è speranza che queste nazioni prendano coscienza e aderiscano in un prossimo futuro ?”

V: “Ma guardi sicuramente c’è speranza, si tratta a mio avviso di un lavoro che va fatto su un duplice piano. Va fatto innanzitutto informando la cittadinanza su quelli che sono gli effetti dei danni nucleari e sul contenuto di questo trattato. E l’altro è un lavoro che riguarda le cancellerie, i ministeri degli Esteri di questi paesi che naturalmente potranno e dovranno agire nella maniera in cui possano raggiungere un accordo. Non è una cosa facile ma non era neanche facile ad esempio l’affermazione di umanità nelle convenzioni di Ginevra quando esse vennero firmate. Si tratta di una cosa che sta iniziando, vedremo nel prossimo futuro quali di questi 122 paesi inizieranno il processo di ratifica del trattato internazionale perché sicuramente se la risposta su questa sarà una risposta importante ci sarà allora la possibilità che altri si uniscano.”

AC: “Tra i grandi assenti anche l’Italia; come mai?”

V: “Quasi tutti i paesi dell’Ue hanno preso una posizione attendista su questo argomento. Noi contiamo di fare, come già qualche società di croce rossa in altri paesi ha fatto, contiamo di fare un’operazione di informazione, di incontro e di confronto per spingere il governo e il parlamento ad affrontare il tema. Comprendo anche che ci sono tutta una serie di rapporti fra stati che pesano molto su questa firma; però l’obiettivo dei 122 stati raggiunto a luglio, che ha aperto il processo di firma, è comunque un obiettivo importante che deve far riflettere tutte le nazioni.”

AC: “Certo questo è un momento particolare, perché con le frizioni del sud est asiatico, la paura del nucleare è tornata alla ribalta in maniera prepotente.”

V: “Si non c’è dubbio, così come non c’è dubbio che ci sono paesi che non vogliono ratificare il trattato perché per loro il nucleare esiste come un’arma di deterrenza verso chi minaccia di usarlo; come in un circolo viscoso che naturalmente spaventa un po’ tutti o comunque dà adito a non muoversi dalle proprie posizioni.”

AC: “L’altro tema invece sono le moltissime vittime tra gli operatori umanitari nelle zone di guerra mentre  portano soccorso; questa discussione come sta andando avanti all’Onu?”

V: “È un discussione che si inserisce in un dibattito più ampio che è iniziato oggi e si consoliderà domani, su quella che è la politica dell’Onu per combattere il traffico degli esseri umani. Si tratta di un argomento che sfocia in un documento che riafferma quelle che sono le politiche umanitarie anche in tal campo e all’interno di questo, quella che è la posizione della federazione internazionale della croce rossa dell’attenzione verso le persone migranti che sono molto spesso vittime della tratta così come le categorie più vulnerabili come donne e bambini e anche chiaramente di quella che è la situazione in cui restano gli operatori umanitari in generale, che spesso proprio per portare aiuto ai più vulnerabili, rischiano o hanno perso la loro vita.”

Il dibattito sul nucleare non si esaurirà molto presto purtroppo soprattutto in questo momento che ci vede spettatori di diverse crisi internazionali, sia nel quadrante del medio oriente che in quello dell’asia pacifico dove si fronteggiano le grandi potenze di questo secolo in cerca di un adeguato posizionamento nella geopolitica mondiale.

Onu: al via la riforma delle attività di peace-keeping

POLITICA/SICUREZZA di

In occasione della seduta n. 8051ST di mercoledì scorso, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, riaffermando con convinzione la responsabilità primaria degli Stati membri per la risoluzione pacifica delle controversie internazionali e sottolineando altresì il contributo fondamentale dell’Onu nelle operazioni preventive destinate a evitare lo scoppio di nuovi conflitti armati, ha richiamato l’attenzione sulla necessità di una più stretta collaborazione tra l’Organizzazione ed i singoli governi nazionali, nonché di una riforma strutturale del Segretariato delle Nazioni Unite che sia funzionale al rafforzamento dell’architettura interna del sistema Onu in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

Quest’ultima, intervenuta con l’approvazione a votazione segreta della risoluzione 2378(2017), oltre a riconfermare il primato della politica e della diplomazia (e quindi l’importanza delle attività di mediazione, monitoraggio del cessate-il-fuoco e supporto all’implementazione degli accordi di pace), ha anche rinnovato il mandato e le procedure già esistenti in materia peace-keeping introducendo importanti elementi di novità tra cui iniziative di diversa natura tese al miglioramento dell’organizzazione e della pianificazione delle operazioni dei caschi blu, l’incremento di competenze utili per aumentare l’efficienza delle missioni Onu nelle principali aree di crisi e la richiesta di un maggior impegno delle Organizzazioni regionali (con particolare riferimento a quelle del continente africano) nel garantire la sicurezza dei popoli ed assicurarsi le risorse di tipo logistico-finanziario indispensabili per espletamento delle loro funzioni. È, appunto, con l’Unione africana (UA) che, secondo i membri del Cds, il Segretario Generale dovrebbe rafforzare la collaborazione per individuare ed attivare canali che favoriscano la comunicazione tra il Segretariato, la Commissione ed i due Consigli.

Le Nazioni Unite dovrebbero inoltre impegnarsi a sviluppare nuove partnerships che aiutino l’Organizzazione di New York ad affrontare le molteplici minacce alla pace e alla sicurezza internazionali provenienti dal terrorismo di matrice jihadista, dai conflitti aperti in Medio Oriente, come anche dal quadrante Asia-Pacifico.

Diverse delegazioni, comprese quelle di Svezia, Regno Unito e Giappone, hanno poi sottolineato la necessità di favorire un graduale processo di inclusione delle donne nelle missioni di peace-keeping condotte dall’Onu, incoraggiando la loro promozione a posizioni di maggior rilievo, mentre il Ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha ricordato, insieme al Segretario generale António Guterres l’importanza del dialogo e del processo negoziale per favorire una risoluzione dei conflitti che non richieda l’intervento dei caschi blu. Infatti, secondo il politico portoghese, nonostante le missioni di peace-keeping rappresentino uno dei più efficaci strumenti per la pacificazione di aree lacerate da guerre e crisi incancrenite, esse dovrebbero sempre affiancare e mai sostituire l’attività diplomatica e disporre, inoltre, di equipaggiamenti più appropriati rispetto a quelli attuai ed unità d’intelligence meglio coordinate e ben addestrate.

di Marta Panaiotti

Kurdistan Iracheno, in attesa del risultato referendario

ASIA PACIFICO/POLITICA di

Erbil, il referendum annunciato dopo la consapevolezza che il percolo Isis era ormai sotto controllo è in atto. La città di quattro milioni di persone è interamente coinvolta e partecipe, le bandiere della regione autonoma del Kurdistan sventolano dalle finestre e dalle auto nel traffico della ring road locale, mentre in tutta la regione sono 5,6 milioni i curdi chiamati al voto.

Per il referendum questo è il momento migliore, forse l’unico, forte della resistenza al terrorismo islamico che ha compattato tutta la popolazione contro un unico nemico e che di fatto ha permesso il controllo del territorio lasciato indifeso dall’esercito nazionale iracheno, discioltosi all’avanzare delle bandiere nere.

Il Presidente Barzani  però non riesce ad ottenere il sostegno internazionale che pensava di avere, Trump  non ha voluto schierarsi con i Kurdi  come molte delle cancellerie occidentali, solo Israele ha dichiarato il suo sostegno all’indipendenza Kurda con l’evidente obiettivo di  bloccare il piano Iraniano di sviluppare il famoso corridoio sciita.

Oltre confine invece la Turchia è assolutamente contraria per il timore di vedere convergere su questo stato indipendente anche i curdi di Turchia, Siria e Iran con evidenti problemi politici e di sicurezza nazionale.

D’altronde solo in questo momento Barzani poteva provare ad incassare il credito speso con la difesa e liberazione di Kirkuk prima e Mosul poi con grande dispendio di vite umane.

Attendiamo allora la chiusura delle urne per capire come si muoverà il governo centrale di Bagdad nei confronti della Regione Autonoma alla quale non permetterà certo di appropriarsi dei pozzi petroliferi di Kirkuk e delle relazioni con i principali attori della zona, Siria, Iran, Truchia e la coalizione internazionale

Lorenzo Termine
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