GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Report - page 2

Evoluzione della crisi libica

Report di

In Libia la  bocciatura dell’intesa tra il governo italiano e il GNA a guida Serraj da parte di un tribunale di Tripoli pochi giorni fa, conferma la fase di completo stallo per quanto riguarda la possibile risoluzione della crisi in atto.

Uno stallo a livello istituzionale, economico e internazionale che si traduce in una situazione di crescente anarchia e instabilità del Paese.Il mancato incontro in Egitto tra il presidente Serraj e il generale Haftar a febbraio ha cancellato nuovamente le speranze di una reale unificazione di un Paese lacerato da anni di lotta contro il Califfato da una parte e di guerra civile dall’altra.

Dopo la presa dei pozzi petroliferi di Ras Lanuf e Sidra da parte delle milizie di Bengazi avvenuta il 3 marzo scorso, il 14 dello stesso mese 1300 uomini di LNA hanno ripreso il controllo di questi due importanti siti strategici. Un’azione militare in piena regola coadiuvata non solo dall’alleato egiziano, ma, secondo fonti statunitensi, anche dalla Russia, ormai entrata quasi a pieno titolo nello scenario libico dal quale, fino a poco tempo fa, si era chiamata fuori.

Nonostante la produzione di greggio sia tornata ai livelli precedenti al 3 marzo, ovvero di 800mila barili al giorno, è chiaro che questa situazione di instabilità si ripercuota sia a livello economico, con la “crescente preoccupazione” di Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti per le ostilità crescenti attorno alle aree petrolifere libiche, sia a livello di stabilità interna poiché “le infrastrutture, la produzione e i guadagni appartengono al popolo libico e devono rimanere sotto il controllo della Noc”, si legge nel comunicato congiunto di questi quattro paesi diramato il 14 marzo scorso.

A questo si aggiunge l’insicurezza diffusa presso tutta la Libia, a cominciare dalla capitale Tripoli dove, il 17 marzo scorso, viene dichiarato il cessate il fuoco dopo 4 giorni di scontri tra le milizie delle fazioni locali. Per continuare con la denuncia di Human Right Watch nei confronti di Haftar e del Libyan National Army, rei di crimini di guerra perpetrati a Bengasi soprattutto nell’ultima battaglia del 18 marzo, quando viene sconfitta l’ultima roccaforte islamista presente in città.

E la Russia? Attorno a Mosca si è aperto definitivamente un nuovo scenario. La denuncia partita da Reuters di aiuti militari effettivi a Tobruk, attraverso il dispiegamento di uomini delle forze speciali presso alcune basi militari egiziane vicine al confine libico, hanno svelato definitivamente che la posizione del Cremlino in Nord Africa è cambiata. Gli interessi petroliferi diventano preminenti, specialmente ora che la minaccia islamista sembra essere stata messa in secondo piano.

Nella pratica, il cambio di marcia russo, sulla scia di quanto già avvenuto in Siria, rischia di rovesciare i rapporti di forza in campo. L’effetto collaterale evidenziato da diverse fonti è quello di un possibile influsso negativo sui rapporti Roma-Mosca. Difatti, è l’Italia ad essere il paese europeo più vicino e coinvolto nella vicenda libica. Lo dimostrano due fattori: quello economico, con la presenza di Eni in Libia e la volontà italiana di accrescere la propria influenza e partecipazione; quello diplomatico, con il memorandum d’intesa tra il premier Gentiloni e il leader libico Serraj in materia d’immigrazione, rafforzato dall’impegno dell’Unione Europea di volere investire circa 215 milioni di dollari nell’addestramento della Guardia Costiera Libica e momentaneamente sospeso da un tribunale di Tripoli.

La crisi Libica

Dossier Cybersecurity, contromisure in atto per la sicurezza cyber

Defence/INNOVAZIONE/Report di

Di estrema attualità è la Relazione Annuale al Parlamento redatta dal comparto di Intelligence italiano (Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica). Allegato al suddetto, riveste particolare importanza in ambito cyber il Documento di Sicurezza Nazionale, il cui scopo è, da una parte, un’analisi retrospettiva dei principali progressi compiuti e delle persistenti minacce con riferimento all’anno 2016, dall’altra una prospettiva di sviluppo nei prossimi anni di fronte alle nuove minacce. Secondo il rapporto, il 2016 ha costituito un significativo punto di svolta in ambito cyber per il nostro paese, grazie all’attività di due tavoli tecnici, il primo, il TAVOLO TECNICO CYBER-TTC, per il raccordo inter istituzionale, il secondo, il TAVOLO TECNICO IMPRESE-TTI, per la partnership pubblico-privata. Questi due tavoli sono stati capaci di recepire l’orientamento espresso nei principali aggiornamenti internazionali in materia cyber, tra cui:

  • La DIRETTIVA EUROPEA NIS (Network and Information Systems), il cui obiettivo è stato rendere più efficace la definizione degli strumenti per l’attuazione degli indirizzi strategici europei e la valutazione degli esiti delle azioni.
  • Le CMBs (Confidence Building Measures) prodotte dall’OSCE per ridurre i rischi di un conflitto eventuale che faccia uso di tecniche legate all’ICT.
  • Il nuovo orientamento sancito al SUMMIT di VARSAVIA della NATO (luglio 2016) per cui si rimanda al report settimanale precedente.
  • Lo sviluppo dei lavori nell’ambito dei CYBER EXPERT GROUP MEETING del G7 Finanza ed Energia.
  • Le interlocuzioni tra il Comparto e la BANCA D’ITALIA per la costituzione di un CERT (Computer Emergency Response Team).
  • Una serie di eventi internazionali tra cui: 17° NATO Cyber Defence Workshop, l’incontro sulla “contractual Partnership Private-Public” (cPPP), la terza edizione dell’ICT4INTEL 2020.

Gli attacchi cyber verificatisi in Italia nel 2016 hanno segnato un ulteriore cambio di passo sotto molteplici profili: dal rango dei target colpiti, alla sensibilità rive­stita dagli stessi nei rispettivi contesti di rife­rimento; dal forte impatto conseguito, alle gravi vulnerabilità sfruttate sino alla sempre più elevata sofisticazione delle capacità degli attaccanti.

ATTORI OSTILI: i gruppi hacktivisti (52% delle minacce cyber) continuano a costituire la minaccia più rilevante, in termini percentuali, benché la valenza del loro impatto sia inversamente proporzionale. I gruppi di cyber-espionage invece risultano più pericolosi anche se percentualmente meno rappresentativi (19%). Ai gruppi islamisti è imputato il 6% degli attac­chi cyber perpetrati in Italia nel corso del 2016. Da evidenziare come per le tre categorie si sia registrato, rispetto al 2015, un incremento degli attacchi pari al 5% per i gruppi hacktivisti e quelli islamisti e del 2% per quelli di cyber-espionage. A tale aumento ha corrisposto un decremento, pari al 12%, dei cd. “attori non meglio identificati” che si attestano nel complesso al 23% delle incursioni cyber.

TARGET: le minacce contro i soggetti pubblici costituiscono la maggioranza con il 71% degli attacchi, e quelle in direzione di soggetti privati si attestano attorno al 27%. Questa divaricazio­ne è riconducibile verosimilmente alle difficoltà di notifica degli attacchi subiti in ragione del c.d rischio reputazionale. In merito ai soggetti pubblici si attesta che pur permanendo una netta predominanza delle Amministrazioni centra­li (87% degli attacchi cyber verso soggetti pubblici) rispetto agli Enti locali (13%), nel 2016 si è assistito ad una inversione di tale trend, per cui gli attacchi contro le Pubbliche Amministrazioni Centrali (PAC) risultano in lieve diminuzione (-2%) mentre quelli avverso le Pubbliche Ammini­strazioni Locali (PAL) sono in aumento (+5%). Per quanto riguarda i soggetti privati si nota che se nel 2015 target principali degli attacchi cyber risultavano quelli operanti nei settori della difesa, delle telecomunicazioni, dell’aerospa­zio e dell’energia, nel 2016 figurano ai primi posti il settore bancario con il 17% delle minacce a soggetti privati (+14% rispetto al 2015), le Agenzie di stampa e le testate giornalistiche che, insieme alle associa­zioni industriali, si attestano sull’11%.

TIPOLOGIE DI ATTACCO: rispetto al 2015, nel 2016 si è registrata un’inversione di tendenza. Se, infatti, nel 2015, poco più della metà delle minacce cyber era costituita dalla diffusione di software malevolo (malware), nel 2016 è stata registrata una maggiore presenza di altre tipologie di attività ostili, che ha comportato una contrazione (-42%) del dato relativo ai malware, at­testatosi intorno all’11%. Tale dato non va letto come una riduzione della pericolosità della minaccia Advanced Persistent Threat (APT), bensì come il fatto che gli APT registrati si sono caratterizzati, più che per la consistenza numerica, per la loro estrema persistenza. Tra le minacce che hanno registrato un maggior numero di ricor­renze vanno annoverate: l’SQL Injection (28% del totale; +8% rispetto al 2015), i Distributed Denial of Service (19%; +14%), i Web-defacement (13%; -1%) ed il DNS poisoning (2%).

In prospettiva, si assiste ad una crescita della minaccia cibernetica ad opera di attori statuali e gruppo connessi alla criminalità organizzata, nonché di potenziali insider. Per questo si potrebbe assistere nei prossimi anni, ad una allocazione di risorse crescenti finalizzate alla costitu­zione/consolidamento di asset cibernetici a connotazione sia difensiva, sia offensiva, impiegabili nella prosecuzione di campagne di cyber-espio­nage, nonché in innovativi contesti di conflittualità ibrida e asimmetrica (cyberwarfare), anche attraverso attività di disruption di sistemi critici in combinazione con operazioni di guerra psicologica.

Un altro contributo importante prodotto durante le ultime settimane è il Cyber Strategy & Policy Brief (numero di gennaio e febbraio 2017) curato da Stefano Mele, avvocato specializzato in Diritto delle Tecnologie, Privacy, Sicurezza delle Informazioni e Intelligence, e Key Opinion Leader nel settore Cyber secondo la NATO. Gli ambiti di analisi di questo numero sono 3:

  • Mele cita i recenti sviluppi in materia cyber in Brasile. Infatti l’orientamento strategico brasiliano si è tramutato in una decisione esecutiva del presidente Temer per la creazione di un Cyber Command centrale incardinato all’interno del Dipartimento Scienza e Tecnologia dell’Esercito e che avrà finalmente il compito di sovraintendere, coordinare e guidare sia sul piano tecnico che regolamentare l’intera difesa cibernetica della nazione.
  • L’autore si sofferma inoltre sul quadro cyber italiano commentando la Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza del Comparto Intelligence (analizzato nelle pagine precedenti). Pur apprezzando gli sforzi compiuti dai servizi di informazione italiani, Mele ha voluto aggiungere alcune chiose necessarie. Ciò che pare ancora mancare nel dibattito italiano è, da un lato, una riflessione strutturata – in ottica evolutiva – tesa alla nascita di una vera e propria politica di cybersecurity nazionale. Dall’altro lato, invece, emerge con forza la necessità che in questo settore il governo italiano muti nel più breve tempo possibile l’approccio strategico da meramente difensivo
  • Punto più importante della riflessione di Mele è quello legato alla lotta al cyber-terrorismo. Partendo da un’analisi dell’approccio strategico seguito finora, l’autore sottolinea la necessità di passare ad una strategia olistica, capace di operare contemporaneamente su più livelli. In particolare questo nuovo approccio dovrebbe:

comprendere la peculiarità della minaccia e degli obiettivi dell’ISIS nel cyber-spazio, nonché le caratteristiche dei soggetti coinvolti

attivare le procedure atte a creare deterrenza nei militanti dell’ISIS, riferendosi alle tradizionali azioni di rimozione, infiltrazione e avvio immediato di azioni penali

–  svolgere attività di contro-propaganda e promozione di messaggi positivi all’interno dei network jihadisti

– aumentare la sensibilità di ISP e utenti verso la minaccia

– svolgere maggiori e più mirate attività di cooperazione con gli alleati

– tagliare i fondi dell’ISIS, magari colpendo le strutture cibernetiche che ospitano la ricchezza dell’ISIS

 

Lorenzo Termine

Dossier Iraq, Marzo 2017

Asia/Report di

Tra le promesse fatte dal nuovo Presidente USA Donald Trump, quella di combattere e di sconfiggere definitivamente il terrorismo di matrice islamica era una delle più complicate da raggiungere in breve tempo. Eppure inizialmente in molti pensavano e temevano che il Presidente potesse fare un passo indietro (come lui stesso aveva preannunciato durante la campagna elettorale) da quei fronti aperti dall’amministrazione Obama e sui quali si è giocata la sfida elettorale con Hillary Clinton, la quale inevitabilmente rappresentava una soluzione di continuità.

Ciò nonostante le prospettive in breve tempo sembrano essere cambiate: era il 20 febbraio quando la coalizione internazionale anti-ISIS lanciava l’offensiva nell’area Ovest di Mosul, dopo la liberazione dell’area orientale. Tuttavia alle iniziali dichiarazioni entusiastiche, giunte sia da Washington che da Baghdad, si contrappone oggi la dura e drammatica realtà della roccaforte ISIS in Iraq. Che la missione sarebbe stata molto difficile e impegnativa, era prevedibile a chiunque. In queste ultime settimane però si è toccata forse per la prima volta con mano, quella che è la reale gravità della situazione.

La crisi umanitaria in Iraq è senza precedenti, le varie agenzie per la difesa e la protezione dei civili sono giunte al limite delle loro capacità, come sottolineato dalla Commissione dell’ONU per i diritti umani. Secondo le stime, solo da febbraio (ovvero l’inizio dell’offensiva per Mosul ovest) sono 220.000 i civili sfollati. Allargando la lente ad ottobre 2016, si raggiunge la cifra di 350.00 persone, di cui soltanto 76.000 sono riuscite a tornare nelle proprie case nella parte liberata della città.

Il problema dei numerosi civili presenti nelle aree di guerriglia è divenuto tragicamente noto al pubblico internazionale lo scorso 23 marzo. Alcuni bombardamenti delle forze aeree statunitensi hanno infatti colpito, in circostanze ancora non chiarite ufficialmente, edifici nel quartiere di Al Aghwat Al Jadidah, causando all’incirca 200 morti solo civili. Secondo l’Alto Commissario dell’ONU per i Rifugiati (UNHCR) nella scorsa settimana sono state 500 le vittime civili delle operazioni in Mosul Ovest. Il Dipartimento di Stato degli USA ha gli scorsi giorni confermato l’evento, attribuendo le colpe a dei veicoli che esplodendo avrebbero fatto crollare i palazzi.

Ciò che più importa però ai fini dell’analisi è che gli Stati Uniti stanno cadendo per l’ennesima volta negli errori del passato. A nulla sembrano funzionare i numerosi appelli e report presentati dai più rilevanti Think Tank internazionali, per ultimo l’International Crisis Group. L’esperienza delle guerre passate in Iraq (2003) ed Afghanistan (2001), non sembra essere stata una lezione sufficiente.

Ciò che mancava all’epoca è quello che manca ancora adesso: la stesura di un progetto che veda coinvolti i principali attori regionali (Iran, Turchia e Arabia Saudita); la pianificazione economica volta alla ricostruzione delle città distrutte dalla guerra; la collaborazione politica che porti alla nascita e allo sviluppo di un processo democratico in Iraq come in Siria. Il presupposto di questo è obbligatoriamente la sconfitta definitiva dell’ISIS, la quale però non può essere solo militare. Deve essere seguita da una eliminazione del problema alla radice, un miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei paesi, che hanno portato alla nascita del Califfato.
Per questo gli Stati Uniti devono porre una straordinaria attenzione nel portare avanti i bombardamenti sulla città: il coinvolgimento di vittime innocenti nel conflitto non causa altro che ulteriore irritazione tra le comunità locali, ulteriore disperazione e paura. Infine nuovi e sempre più radicali gruppi terroristici. Dopo gli incidenti della scorsa settimana, i vertici dell’esercito nazionale iracheno hanno deciso di fermare le operazioni militari in assenza di un nuovo piano strategico che possa evitare ulteriori vittime tra i civili. Dalla lezione del passato tuttavia gli Stati Uniti ed il Presidente Trump dovrebbero comprendere che non è questa la via per sconfiggere il terrorismo islamico. Anche se nei prossimi mesi Daesh dovesse essere definitivamente sconfitta a Mosul, il sangue innocente versato e la disperazione sociale ed economica ereditata, porteranno inevitabilmente al rafforzamento di gruppi terroristici già presenti o alla nascita di nuovi, il cui obiettivo sarà sempre quello: cacciare l’invasore americano dal territorio arabo.

In generale, il successo della campagna di Mosul e della missione della coalizione internazionale contro il terrorismo, dipenderà quindi dalla capacità di prevenire la nascita di nuovi conflitti interni tra le forze interessate. L’obiettivo deve essere quello di evitare una escalation della tensione tra gli attori regionali, Iran e Arabia Saudita in primis, ma anche la Turchia. L’Iraq è oggi il campo di scontro tra queste potenze, dove ognuna mira ad espandere la sua influenza nella ricostruzione del Paese per attirarla nella sua sfera di dominio. La stessa situazione si sta verificando d’altronde in Siria e in Yemen.

Il Presidente Trump ha recentemente dichiarato che la priorità per la sicurezza statunitense è la minaccia di Teheran. Tuttavia è chiaro che la situazione non può essere gestita soltanto con l’esercito e con la forza militare. Per evitare un ulteriore deterioramento della situazione in Medio Oriente, Washington deve fare affidamento tanto sulla potenza quanto sulla diplomazia. Deve sostenere e promuovere i negoziati di pace e accettare accordi diplomatici che portino a delle soluzioni di compromesso accettabili, che mantengano uno stato di equilibrio tra potenze in Asia e Medio Oriente. È fondamentale non peggiorare o aprire ulteriori fronti di combattimento. Soprattutto però, per vincere definitivamente la sfida contro il terrorismo islamico, gli Stati Uniti devono collaborare con la Cina e l’Unione Europea, in particolare se come promesso in campagna elettorale, l’amministrazione Trump deciderà per un progressivo disimpegno americano dal fronte mediorientale.

Sul fronte politico interno dell’Iraq, il tavolo politico per la ricostruzione del Paese deve vedere coinvolte tutte le anime e le etnie interne al paese, sostenute dalle corrispettive potenze regionali. Deve basarsi sulla cooperazione e collaborazione tra Erbil e Baghdad, tra la minoranza sunnita e la maggioranza sciita. Come sottolineato nella recente pubblicazione del Clingaendel Institute, sarà inevitabilmente un procedimento lungo e pieno di ostacoli, che deve avere come primo sostenitore il gruppo sciita. Deve crearsi al suo interno un nuovo dibattito politico aperto e democratico, inclusivo e che veda coinvolti anche partiti nuovi e le nuove generazioni. Solo attraverso una democratizzazione del fronte interno sciita, si potrà arrivare con il tempo all’apertura di un dibattito politico democratico tra sciiti, sunniti, kurdi e minoranze etniche.

Per questo motivo la coalizione internazionale non può abbandonare l’Iraq, non appena l’ISIS sarà sconfitta. Sarà necessario un sostegno economico, umanitario e politico a lungo termine. Se gli Stati Uniti non dovessero essere pronti a questo sforzo, l’occasione potrebbe essere colta dall’Unione Europea, per dimostrare di essere finalmente pronta a diventare un credibile attore internazionale, prima di tutto a sé stessa.

 di  Adriano Cerquetti

Egitto: torture e sparizioni, la denuncia di Amnesty

Medio oriente – Africa/Report di

L’eco della vicenda legata a Giulio Regeni non si è ancora spenta. La sorte dello studente italiano, torturato e ucciso ad inizio 2016 dalle forze di polizia egiziane, è solo la punta dell’iceberg di un sistema che ha cambiato presidente, da Mubarak ad al Sisi, ma non è cambiato nella sostanza. Arresti arbitrari, detenzioni, sparizioni forzate persino di minori, torture con la complicità dei pubblici ministeri: è questo l’esito del report “Ufficialmente non esisti” pubblicato da Amnesty International il 13 luglio 2016.

Il rapporto di Amnesty si sofferma sulla escalation della repressione da parte del presidente al Sisi a partire dalla defenestrazione di Morsi nel luglio 2013: “Decine di migliaia di persone sono state detenute senza processo o condannate a pene detentive o di morte, molte dopo processi gravemente iniqui – si legge nel rapporto -. L’organizzazione della Fratellanza musulmana (MB), precedentemente messa al bando da Hosni Mubarak e strettamente legata al Partito della libertà e della giustizia (il ramo politico della MB in Egitto), è stata bandita e riconosciuta come organizzazione “terroristica” da parte delle autorità”.

“Negli ultimi diciotto mesi un nuovo modello di violazione dei diritti umani è diventato sempre più evidente in Egitto. Centinaia di attivisti e manifestanti politici, tra cui studenti, bambini e altri, sono stati arbitrariamente arrestati o rapiti dalle loro case o dalle strade e sottoposti a periodi di sparizione forzata da parte di agenti statali”.

 
Da SSI a NSA: nulla cambia con al Sisi
La violenta ascesa al potere di al Sisi coincide con il ripristino delle vecchie abitudini di persecuzione portate avanti dal predecessore Mubarak. Gli agenti del SSI (Servizi d’indagine per la sicurezza dello stato), bersaglio della Rivoluzione Egiziana del 2011, passano in larga parte alla NSA (Agenzia per la sicurezza nazionale): “La NSA è diventata la principale agenzia responsabile di arresti illegittimi o arbitrari, detenzioni e sparizioni forzate da quando il presidente al-Sisi ha nominato Magdy Abdel-Ghaffar, un ex alto ufficiale sia ai SSI sia alla NSA, ministro dell’Interno nel marzo del 201512 . Secondo gli avvocati delle vittime di sparizioni forzate e altri crimini, il ministro dell’Interno sembra aver adottato quella che essi descrivono come ‘una mentalità da NSA’ in virtù della quale la NSA ha praticamente carta bianca nel prendere di mira coloro che ritiene siano collegati alla Fratellanza musulmana o simpatizzanti di Mohamed Morsi e che potrebbero organizzare proteste o altre azioni contro il governo e di fatto le è consentito di non rispettare la legge e di commettere abusi impunemente”.

 
Arresti e detenzioni: le cifre
“Secondo il governo, le forze di sicurezza hanno arrestato quasi 22.00013 sospetti nel 2013 e nel 2014, compresi circa 3.000 leader e membri della Fratellanza musulmana di livello alto e intermedio14. Nel 2015, secondo il ministero dell’interno, le forze di sicurezza hanno arrestato quasi altri 12.000 sospetti,15 per lo più membri della Fratellanza musulmana e sostenitori di Mohamed Morsi, compresi studenti, accademici, ingegneri, medici, operatori sanitari e altri. Altre centinaia di persone sono detenute dopo essere state condannate a morte, tra cui l’ex-Presidente Mohamed Morsi, i suoi sostenitori e capi della Fratellanza musulmana”.

Ma un capitolo a parte è da riservare alle sparizioni forzate, definitE dalla Convenzione ONU del dicembre 2006 come “l’arresto, la detenzione, il sequestro o qualsiasi altra forma di privazione della libertà che sia opera di agenti dello Stato o di persone o di gruppi di persone che agiscono con l’autorizzazione, l’appoggio o la acquiescenza dello Stato, seguita dal rifiuto di riconoscere tale privazione della libertà o dall’occultamento della sorte riservata alla persona scomparsa e del luogo in cui questa si trova, sottraendola così alla protezione della legge”.
Il tema delle sparizioni forzate ha coinvolto sia maggiorenni sia minorenni, sottratti, in alcuni casi, anche due volte dalle loro famiglie.

Amnesty International “non è in grado di stabilire il numero esatto di vittime di sparizioni forzate ad opera delle autorità egiziane dall’inizio del 2015, né è possibile specificarne la cifra attuale. Per loro natura, i casi di sparizioni forzate sono particolarmente difficili da identificare e documentare a causa del segreto d’ufficio che li circonda e per il timore di alcune famiglie di esporre involontariamente i detenuti a un pericolo maggiore denunciandone la sparizione forzata a Ong per i diritti umani, ai media o ad altri. Tuttavia, alla luce della documentazione e dei dati forniti da diverse Ong e gruppi per i diritti egiziani, è evidente che diverse centinaia di egiziani siano stati vittime di questa pratica fin dall’inizio del 2015, con una media di tre-quattro persone oggetto di sparizione forzata ogni giorno a partire dall’inizio del 2015. L’NSA generalmente prende di mira presunti sostenitori di Morsi e/o della Fratellanza musulmana; la maggior parte dei quali di sesso maschile, con età compresa tra i 50 e i 14 anni. Si tratta principalmente di studenti, accademici, attivisti, critici pacifici e manifestanti, ma anche familiari di persone che vengono considerate ostili al governo. Diversi avvocati hanno riferito ad Amnesty International che quasi il 90% di chi scompare alla fine viene processato attraverso il sistema di giustizia penale”.

Tra i molti casi denunciati all’interno del report, uno dei più emblematici riguarda la famiglia Farag, dove padre e figlio sono stati sequestrati per oltre 150 giorni: “Dopo aver bendato e ammanettato Atef Farag e quattro dei suoi figli che erano in casa, gli agenti della Nsa interrogarono i figli sulle loro attività religiose, chiedendo tra l’altro quali moschee frequentassero, e quindi fecero salire Atef Farag e suo figlio Yehia su un pulmino bianco senza targa e partirono verso una destinazione che si rifiutarono di rivelare”.

E ancora: “In una comunicazione del 16 novembre 2015, la polizia rese noto al procuratore che Atef e Yehia Farag erano trattenuti dalla Nsa, eppure il rapporto investigativo ufficiale della Nsa presentato quando i due uomini apparvero per la prima volta dinanzi al procuratore per la sicurezza di stato il 3 gennaio 2016 indicava come data di arresto il 2 gennaio 2016, affermando che essi avevano trascorso solo 24 ore in stato di detenzione prima dell’interrogatorio del procuratore, mentre in realtà erano nelle mani della Nsa da più di 150 giorni. Dopo averli interrogati, il procuratore per la sicurezza di stato li ha formalmente accusati e ne ha autorizzato la detenzione per 15 giorni, in seguito più volte rinnovata. A luglio 2016, sono entrambi rinchiusi nel carcere di Tora Istiqbal in attesa di giudizio”.

 
Ripetute violazioni dei diritti umani
“Diversi metodi di tortura vengono descritti dalle vittime e dai testimoni, tra cui l’applicazione di scariche elettriche sulle aree sensibili del corpo, come genitali, labbra, orecchie e denti, la sospensione prolungata per gli arti, abusi sessuali, tra cui stupro, percosse e minacce. Alcuni detenuti hanno descritto di essere stati sottoposti alla posizione della “griglia”: fatti ruotare mentre avevano una barra inserita tra le braccia e le gambe legate, tenuti in equilibrio tra due sedie. Molti di questi metodi di tortura sono gli stessi o simili a quelli usati dai Ssi contro i detenuti durante gli anni di Mubarak”.

 
Conclusioni
Quello che è evidente è che esiste un sistema, quello giuridico-istituzionale, ben lontano non solo da quella secolarizzazione chiesta da gran parte della popolazione nel 2011, ma dal rispetto dei più basilari diritti sanciti a livello internazionale. Così come la separazione tra il potere esecutivo e quello giudiziario, messa nero su bianco sulla costituzione, ma smentita nei fatti: “L’insabbiamento da parte dei procuratori delle violazioni commesse dalla NSA è dovuta alla mancanza di indipendenza dell’ufficio del Pubblico ministero dal potere esecutivo”.

La richiesta di Amnesty International e di altre ONG al presidente egiziano al Sisi di fermare il ricorso alle sparizioni forzate e alle torture probabilmente non troverà riscontro. Il ruolo geopoliticamente cruciale de Il Cairo, storico sul fronte israeliano, di stretta attualità sul fronte libico, ha influenzato e continuerà ad influenzare gli attori internazionali, in primis quelli europei.

Se il caso Regeni ha raffreddato i rapporti con Roma, con Parigi, in questa prima parte di 2016, i rapporti economici e militari si sono più che rafforzati, anche e soprattutto in chiave libica: il sostegno francese ufficiale al governo Serraj va di pari passo con l’appoggio di una parte delle forze speciali transalpine all’azione del generale Haftar e del suo partner estero principale, l’Egitto, contro lo Stato Islamico.

EA Report – Il rischio ISIS

POLITICA/Report/Video di

European Affairs intervista Gianluca Ansalone sui possibili rischi di espansione del conflitto in atto in medio oriente, le fonti di finanziamento del califfato e il coinvolgimento dell’Iran nella crisi.

La Siria è il terreno dove si giocano le carte di questo nuovo terrorismo, evoluto, strutturato e territorializzato che sembra essere anche in conflitto con le altre organizzazioni terroristiche come Al Qaeda e Boko Haram che proprio in questi giorni hanno intensificato i loro attacchi quasi cercando di rivendicare uno share mediatico ormai in calo.

Lo stesso modello di reclutamento è cambiato passando dalle Madras alla rete con l’obiettivo di raggiungere combattendo sempre più giovani.

 

Alessandro Conte

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Il coinvolgimento dell’IRAN nell’avanzata dell’ISIS

Report/Video di

Intervista a Esmail Mohades, scrittore, intellettuale  e  portavoce dell’Associazione dei laureati iraniani in Italia

L’avanzata del califfato Islamico di Al Baghdadi continua senza sosta, dopo la Siria e l’Irak nuove basi sono state rilevate in Libia.

La genesi di questo gruppo terroristico che ha trasformato il terrorismo di Al-Qaeda non è ancora Chiara, molte sono le ipotesi e ne abbiamo parlato con lo scrittore Esmail Mohades in questa breve ma intensa video intervista.

Esmail Mohades nasce a Teheran nel 1957. Dopo aver frequentato gli studi liceali in Iran, tra il 1978 e il 1979 partecipa, insieme a milioni di iraniani, al movimento di protesta contro la dittatura dello scià. In seguito all’insediamento del regime islamico viene in Italia e si laurea in ingegneria all’Università degli Studi de L’Aquila, città dove tuttora risiede.

Scrive articoli sull’Iran e sul Medioriente sia in italiano sia in lingua farsi e traduce testi dal persiano all’italiano. Fin dagli inizi degli anni Ottanta svolge le sue attività in difesa dei diritti umani e a favore dell’instaurazione della democrazia in Iran.

 

Alessandro Conte[youtube]http://youtu.be/JbdWdn7K1gs[/youtube]

Operare embedded in aree di crisi

Report/Video di

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=fYV_LBt83nc[/youtube]

Sì è conclusa la seconda edizione del corso “Operare Embedded in aree di crisi”, dedicato a giornalisti e operatori della comunicazione svolto a L’Aquila presso il 9° Reggimento alpini della brigata alpina Taurinense. L’iniziativa, che ha trovato ed incrementato il favore della prima edizione tenutasi lo scorso aprile, ha permesso a numerosi giovani aspiranti giornalisti e fotoreporter embedded ed anche aspiranti addetti alla pubblica informazione dell’Esercito di confrontarsi con giornalisti di comprovata esperienza in aree di crisi e con i professionisti degli uffici stampa della Difesa. Il corso, promosso dal centro studi Roma 3000 in collaborazione con lo Stato Maggiore della Difesa, lo Stato Maggiore dell’Esercito ed il patrocinio dell’Unione Cattolica Stampa Italiana, si è svolto con il supporto degli alpini del 9° Reggimento, unità impegnata negli ultimi vent’anni in numerose operazioni all’estero, in Mozambico, nei Balcani (Bosnia, Albania, Kosovo) e, da ultimo, in Afghanistan.Nel corso dell’esercitazione finale è stato riprodotto nell’area addestrativa del 9° alpini, sulle montagne a nord del capoluogo abruzzese, un tipico villaggio afghano nel quale i corsisti hanno potuto testare le proprie capacità di reporter in aree di crisi, provando a documentare un meeting tenuto tra il responsabile CIMIC (cooperazione civile e militare) del Reggimento ed il capo villaggio, reso realistico dall’utilizzo di abiti originali afghani e uso della lingua locale grazie al bilinguismo di 2 penne nere aquilane.
Il Centro Studi Roma 3000 alla luce degli ottimi riscontri ottenuti sta pianificando una nuova edizione del corso, sempre organizzato in collaborazione con SMD, SME e 9° Alpini, prevista nel giugno 2015.
SI RINGRAZIANO I PARTNER MANFROTTO SPA E DAONEWS SPA PER IL LORO CONTRIBUTO ALLA RIUSCITA DELL’INIZIATIVA

Alessandro Conte
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