GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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REGIONI - page 121

Criminalità transnazionale, governance e fattispecie di reato

Difesa/EUROPA di

Il fenomeno della criminalità transnazionale è esploso alla fine del secolo scorso, facendo proprie le dinamiche tipiche della globalizzazione: sfruttando flussi economici, instabilità finanziarie, conflitti e situazioni di degrado ha evoluto i propri schemi impadronendosi di nuove realtà, accogliendo nuovi gruppi e divenendo sempre di più l’ombra grigia di qualsiasi attività.

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La criminalità organizzata transnazionale, come tutti i fenomeni sociali, va analizzata all’interno del contesto in cui è inserita. La sua evoluzione è parte del fenomeno di trasformazione inaugurato dalla terza era di globalizzazione, quella iniziata dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Come tale, la criminalità transnazionale (in un certo senso un’evoluzione del crimine comunemente inteso) è caratterizzata non solo dall’emergere di nuovi gruppi criminali ma dalla nascita di nuovi fenomeni, nuove fattispecie di reati. La classificazione di un reato come transnazionale deriva dal carattere proprio dell’attività, che si può racchiudere nella definizione di cross border criminal activity. Non siamo di fronte, quindi, ad un semplice reato, ma ad un reato considerato tale in quanto fa proprio l’elemento territoriale, che si sostanzia nell’attraversamento di un confine.

La caduta del muro di Berlino, non si inserisce a caso nella storia evolutiva del crimine transnazionale: simbolo di un conflitto ideologico e politico che era riuscito a mantenere stabili e sotto un relativo controllo i sistemi criminali (anch’essi in qualche modo limitati dalle barriere economiche e sociali che erano frapposte tra i due blocchi) ha avuto ripercussioni su larga scala non solo in riferimento alla geografia dei commerci, ma anche all’espansione della criminalità. I vecchi e nuovi gruppi criminali hanno potuto contare su una serie di facilitazioni, a partire dalla diminuita importanza dei confini tra gli Stati, usufruendo poi dell’aumento senza precedenti dei traffici commerciali e della loro liberalizzazione, della disponibilità di nuove tecnologie e della volatilità dei flussi di denaro.

Le organizzazioni criminali transnazionali, adottando un modus operandi tipico delle imprese (massimizzando i guadagni e cercando di ridurre al massimo i costi) agiscono da un lato prediligendo l’occupazione di quelle zone grigie non controllate dalle autorità (dovendosi intendere per zone grigie non solamente le aree delimitate territorialmente ma allargando tale definizione fino ad includere flussi nascosti di beni o di denaro) attraverso la commissione di illeciti non sempre perseguibili poiché non sempre riconosciuti come tali, dall’altro affiancandosi all’economia legale ed inserendovisi. Se guardiamo al contrasto alla criminalità organizzata come ad una parte del più ampio processo di governance possiamo sostenere che, diversamente da quanto accadeva in passato, quando gli interessi degli stessi Stati erano più squisitamente nazionali e le organizzazioni criminali avevano nel territorio di nascita i loro interessi ed il loro nucleo operativo, oggigiorno esse hanno esteso e ramificato i loro interessi nei più disparati settori svelando quanto il sistema globale sia permeabile rispetto alle minacce del crimine organizzato. Per dirla con le parole di Albanese: “In a today’s world, a single criminal operation may involve the collusion of corporations, career criminals, and corrupt government actors from different countries and cultures” (Ross Madeline B. K., Criminal Activity in a Globalizing World).

Alcuni dei fattori associati all’espansione del crimine organizzato transnazionale sono: conflitti militari, mancato rispetto dei diritti umani, errata pianificazione dello sviluppo nelle aree povere del mondo, sensibilità alla corruzione sia da parte delle imprese che dei cittadini, dei governi e dei settori della finanza, disomogeneità legislative che rendono difficile stabilire prima e perseguire poi determinati reati, presenza di mercati oscuri di cui è impossibile fornire dati precisi, difficoltà pratiche nel contrasto sul territorio. Tra le difficoltà che incontrano le autorità vi è poi quella tipica dell’individuazione dei vari aspetti che sono associati al crimine e ne permettono l’individuazione, le differenti modalità con cui i vari Paesi combattono questa minaccia e le diverse definizioni di crimine organizzato che dipendono molto spesso dal carattere tipicamente autoctono dei gruppi criminali. Vi sono quindi micro e macro elementi che caratterizzano il processo di contrasto al crimine a seconda dell’autorità, del Paese, della normativa, del territorio in questione delle sue caratteristiche sociali, economiche, culturali ecc). Non è possibile quindi dare una definizione esatta riguardo al modello delle organizzazioni criminali transnazionali, che dipendono da vari fattori come la presenza i barriere economiche, legali, le diverse strategie interne alle organizzazioni stesse, la competizione territoriale.

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I reati transnazionali propriamente detti si configurano, offrendo una definizione comprensiva delle varie linee di interpretazione, come quell’insieme di fatti illeciti commessi in violazione delle norme di più Stati da gruppi organizzati (associazioni di persone) allo scopo di ottenere vantaggi anche di tipo economico attraverso la corruzione, lo sfruttamento di persone, crimini informatici, la condotta di traffici illeciti, riciclaggio di denaro. La Convenzione di Palermo, all’art. 2, definisce il gruppo criminale organizzato come “un gruppo strutturato, esistente per un periodo di  tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto al fine di commettere uno o  più reati gravi o reati stabiliti dalla presente Convenzione, al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale”, ma la dottrina ne ha poi ampliato la definizione fino ad includervi le cosiddette organizzazioni criminali disorganizzate. Possiamo certamente affermare che un’organizzazione criminale è caratterizzata da un sistema di gestione di flussi criminosi attraverso il concorso o la partecipazione di una pluralità di soggetti per il raggiungimento di un obbiettivo attraverso la conclusione di accordi interi o esterni alla struttura stessa.

Sulla base di quanto sin ora esposto e di quanto riporta il Nono Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e il Trattamento dei Trasgressori possono essere compresi tra detti reati: il reato di terrorismo, traffico di armi, riciclaggio di denaro, furto di opere d’arte e culturali, furto di proprietà intellettuale, dirottamento aereo e terrestre, pirateria marittima, tratta di esseri umani, commercio di organi, traffico di stupefacenti, bancarotta fraudolenta, crimini ambientali, infiltrazione nel commercio legale, corruzione di pubblico ufficiale e rappresentante politico, frode assicurativa, crimini informatici. In genere, sono ascrivibili ai crimini transnazionali tutti quei crimini che siano commessi nel rispetto del dettato dell’articolo 2 della Convenzione di Palermo e che siano caratterizzati dalla gravità.

Un problema molto pratico nell’individuazione dei crimini transnazionali è dato dalla scarsità delle informazioni, dall’impossibilità di avere dati attendibili che rispecchino i trends globali partendo da dati locali. Ciò che rende difficile distinguere tali crimini è innanzitutto la loro crescente interdipendenza, la differenza nella struttura delle organizzazioni criminali che varia nella dimensione, nella gerarchia, nel tipo di commercio, di modo in cue essi sono inseriti all’interno di una catena che collega strutture interne e mercati. Il crimine come fatto giuridico è dunque collegato alla natura dell’organizzazione e all’attività che essa esercita. In questo senso, si evidenziano due vie di interpretazione. La prima descrive l’importanza di un’analisi dello sviluppo in senso orizzontale e verticale delle organizzazioni criminali. E’ stato teorizzato che lo sviluppo delle organizzazioni criminali le rende sempre più interdipendenti e ciò è vero anche per quanto riguarda le loro attività. Lo sviluppo di tipo orizzontale è tipico delle organizzazioni opportunistiche, esso cioè tende a connettere più attività inizialmente indipendenti attraverso accordi tra gruppi criminali e spiega come una sola organizzazione tenda a gestire più traffici o attività. Lo sviluppo di tipo verticale è associato alla pericolosità del gruppo criminale e si rivela nella serie di meccanismi e di reati messi in pratica per condurre un’operazione. La seconda invece collega l’esistenza dei crimini transnazionali alla presenza di gruppi terroristici: questo vincolo si sviluppa come diminuzione dell’appoggio degli Stati a questi gruppi in seguito alla fine della Guerra Fredda, che li ha costretti a cercare ulteriori forme di finanziamento spesso collegate a traffici transnazionali.

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Francia, avanza il tripartitismo

EUROPA di

Domenica 22 Marzo 43 milioni di cittadini francesi sono stati chiamati a votare al primo turno delle elezioni per il rinnovo integrale dei consiglieri dipartimentali. Da notare che a Lione, Marsiglia e Parigi queste elezioni non hanno avuto luogo in quanto il Consiglio di dipartimento é eletto secondo uno scrutinio municipale. I risultati sembrerebbero delineare un vero e proprio tripartitismo UMP-PS-FN, tuttavia non é semplice avere una comprensione chiara dei risultati di questa prima chiamata elettorale in quanto i dati sono suscettibili a tali e tante interpretazioni a cause delle alleanze variabili con cui ciascuna formazione si é presentata nei diversi cantoni e il tasso di astensione registrato é relativamente alto. Al di la del Fronte Repubblicano – composto principalmente da UMP e UDI – che possiamo unanimemente riconoscere in testa, resta difficile trarre una lezione politica chiara sulla situazione nel suo insieme.

Secondo le stime di differenti istituti, il PS si ritrova ora in seconda ora in terza posizione, davanti o dietro il FN. Dato certo, il Front National non si afferma come primo partito di Francia, riconoscendone pur tuttavia la progressione, così come sottolinea lo stesso Jean-Marie Le Pen subito dopo la chiusura delle urne. Benché non sia diventato il primo partito della Repubblica – come tuonava Le Pen figlia alla vigilia del primo turno – questi primi risultati incoraggiano la sua corsa verso l’Eliseo. Il radicamento locale é un ingrediente molto importante della strategia del FN, non necessariamente nell’ottica di un progetto politico per le singole istanze, si tratta piuttosto di un passaggio funzionale a raccogliere basi di consenso perché Le Pen possa consacrarsi al suo obiettivo principale, la presidenza della Repubblica nel 2017.

Quanto all’UMP del redivivo Nicolas Sarkozy, si tratta certamente della prima buona notizia per il partito da quando l’ex presidente della Repubblica ne ha ripreso il timone, e soprattutto gli permette di addossarsi la semi-vittoria e di avviare – sullo sfondo – una sorta di pre-campagna elettorale in vista delle presidenziali che si terranno tra due anni. Il PS di Hollande registra invece un nuovo momento di difficoltà, la perdita di radicamento locale del partito di governo – che vede eliminati più di un quinto degli iscritti al primo turno – sembrerebbe da addurre alla disunione delle Sinistre, perdita questa che potrebbe tragicamente riconfermarsi al secondo turno ed essere – in quel caso – un nuovo ostacolo sulla strada per la ricandidatura dell’attuale Presidente.

Manuel Valls, Primo Ministro francese, lancia un appello alla Sinistra perché socialisti, radicali ed ecologisti restino uniti, e lo fa all’indomani del primo turno – lunedì 23 Marzo – a Noisy-le-Grand nel nord-est di Parigi dove la Sinistra unita si é posizionata in testa davanti all’UMP e al Front National. Una discesa in campagna elettorale quella del primo ministro francese, che vuole opporsi con forza alla strategia politica proposta dall’ex presidente Nicolas Sarkozy e dal « Fronte Repubblicano ». Manuel Valls e il ministro dell’interno Bernard Cazeneuve hanno infatti giudicato immorale la tattica elettorale dell’UMP che invita i propri elettori a non votare né i socialisti, né la sinistra radicale né il Front National, dunque di astenersi o votare scheda bianca al secondo turno che si terrà domenica 29 Marzo, « Ni-Ni mortifère », così lo definisce il Primo Ministro Valls che sottolinea l’importanza di mobilitare gli elettori di sinistra contro il blocco della destra e la minaccia populista del partito di Marine Le Pen.

Tuttavia, nell’invocazione del Primo Ministro non si intravede una strategia di lungo periodo per la sinistra francese che possa tradursi nella possibilità di tracciare un percorso favorevole alla ricandidatura di François Hollande alle presidenziali del 2017. Affermare che la mobilitazione non é una questione di partiti ma di cittadini vale a dire – per molti – promuovere una strategia che non modifica in nessun senso i rapporti di forza all’interno dell’ala di Sinistra. L’esecutivo non fa prova di un cambio di rotta in cui annettere ecologisti e comunisti, a riprova del fatto che l’ideologia promossa dalla coppia Hollande-Valls, giudicata « confortable », sembra avere la meglio sulla necessità di ingrandire la base di partito e dunque di consensi. I socialisti di Hollande si trovano pertanto di fronte un’altra défaite in potenza, che tuttavia non sembra preoccuparli al punto da decidersi ad un rimpasto politico.

Il tripartitismo al quale sembrerebbe di assistere dopo questo primo turno non é esattamente il risultato di fronte al quale i due grandi partiti speravano di ritrovarsi. La soglia di qualificazione era stata fissata al 12,5%, con legge del 17 Maggio 2013, nell’ottica di contenere politicamente la progressione del Front National, tuttavia sembra che la mutazione politica sia andata più veloce di quella istituzionale. Il bipolarismo destra-sinistra é considerevolmente indebolito dall’irruzione del partito di Marine Le Pen il quale, nonostante abbia totalizzato uno score inferiore alla sua media nazionale, é riuscito ad insediarsi in zone altrimenti impermeabili al suo discorso, imponendo in tal modo una realtà che modifica gli equilibri elettorali e li conduce – almeno fino ad ora – in un vicolo cieco poiché nessuna di queste tre forze maggiori aspira ad un’alleanza tradì di esse. In questa cornice é difficile capire come si comporteranno gli elettori domenica 29 Marzo, nel caso in cui si fosse instaurato il solito bipolarismo é facile azzardare che i simpatizzanti del Front National si sarebbero astenuti, o si sarebbero risolti a votare per uno dei partiti maggiori ma in questa fase il discriminante proverrà dalla capacità del fronte repubblicano e delle Sinistre di gettare le condizioni per passare il secondo turno.

Un’altra particolarità di queste elezioni é il modo di scrutinio: binominale, paritario e misto. Gli elettori hanno votato per un binomio composto da una donna e un uomo, disposizione questa che risponde alla logica della discriminazione positiva, per la quale si vuole promuovere un certo grado di parità in politica, con legge introdotta il 31 Gennaio 2007. Il principio della discriminazione positiva in Francia é di norma esperito secondo procedure temporanee non iscritte nella legge costituzionale come negli Stati Uniti, ad eccezione degli obiettivi di parità in politica.

 

La jihad in salsa balcanica

EUROPA/Varie di

Gli ultimi arresti in Italia a seguito dell’operazione Balcan Connection portano quindi a valutare che un gruppo di albanesi e kosovari ha messo su un’organizzazione in Italia per reclutare combattenti per lo Stato Islamico. Lo rendono noto la Procura generale la quale si è concentrata su un gruppo chiamato “Spinners dei Blacani”. Reclutavano combattenti per l’Isis sulla rotta balcanica. E’ di arruolamento con finalità di terrorismo internazionale l’accusa con cui sono stati arrestati Alban ed Elvis Elezi, zio e nipote albanesi, bloccati in un’operazione della polizia coordinata dalla Procura di Brescia, in cui è stato catturato anche El Madhi Halili, un ventenne cittadino italiano di origine marocchina. Per lui l’accusa è di apologia di associazione con finalità di terrorismo internazionale, per un documento pro Califfato in italiano pubblicato sul web.

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Dietro l’arresto di Alban e Elvis c’è ancora la figura del ‘foreign fighter’ Anas El Abboubi, ventiduenne marocchino, ex studente in un istituto tecnico, di Vobarno, nel Bresciano, arrestato per terrorismo internazionale nel 2013, scarcerato dal Tribunale del riesame, e andato in Siria per unirsi a gruppi jihadisti.

Questa organizzazione ha fatto nascere cellule jihadiste che lavorano sul reclutamento prevalentemente in Italia, dove sono concentrati moltissimi migranti lavoratori di provenienza dai Balcani. Fino ad ora sono quattro le cellule individuate dagli investigatori tra Roma, Milano, Lucca e Siena.

A Roma pare operino con più inisistenza nella zona di Centocelle, quartiere popolare sito a est della capitale. Tanti “attivisti” o sospettati tali sono finiti sotto inchiesta perché risultano essere potenzialmente pericolosi e appartenenti alla fascia più estremista. Circa 150 gli albanesi dell’ Albania e del Kosovo saliti alla ribalta delle indagini anti terrorismo come jihadisti e combattenti per lo pseudo Califfato islamico in territorio siriano e iracheno. Un lavoro di reclutamento continuo e pericoloso che si sviluppa anche all’interno delle carceri tra detenuti. Due figure chiave del jihadismo in salsa balcanica sono Genc Balla e Bujar Hysa, autoproclamati imam che hanno concentrato la loro attività proprio mentre erano detenuti in Italia.

Secondo la Procura di Tirana, i due venivano finanziati da altre fonti site in Kosovo, Albania e Macedonia ed erano sostenuti da un altro personaggio, tal Ebu Usejd, proveniente da un’altra città albanese, Elbasan, il quale con il suo aiuto e quello di altri finanziatori ha facilitato l’operato di Balla e Hysaj reclutando e mandando combattenti dall’Italia.

A gennaio, dopo la strage della redazione satirica francese del Charlie Hebdo e quel che ne è conseguito nei giorni a seguire, si è tenuta la riunione dei ministri degli esteri dell’UE dove si è fatto il punto su quel che rappresenta la difficoltà maggiore nella lotta al terrorismo in territorio europeo, ovvero l’identificazione dei quartieri, delle aree più contaminate dalla propaganda jihadista e il monitoraggio continuo degli stessi.

Quella dei reclutati e reclutanti di origine balcanica è un’ulteriore realtà che si aggiunge con la stessa pericolosità dei jihadisti d’origine medio-orientale. Diversi sono i motivi. Prima di tutto la posizione favorevolissima alle porte d’Europa di questi paesi e la possibilità di viaggiare senza grandi difficoltà attraverso i Balcani verso la Siria. La propaganda jihadista punta a radicalizzare l’islam storicamente moderato, soprattutto in Albania, una popolazione mai dedita alle lotte religiose. L’identità albanese non è mai stata legata alla religione e in nome della stessa non si è combattuto. L’unico momento storico in cui si è fatto appello alle cosiddette radici cristiane è stato precisamente nel sec. XV quando sotto la guida dell’eroe nazionale albanese, Scanderbeg, ha avuto luogo la resistenza albanese contro gli invasori ottomani, musulmani quindi.

In Kosovo, Bosnia, Macedonia e, più generalmente, nelle popolazioni musulmane del territorio della ex Jugoslavia questa realtà è ben più importante. Qui la religione è stata intesa ben più radicale anche come effetto della guerra in Bosnia nei primissimi anni ’90, numerosi sono i gruppi wahabbiti che operano sui territori.

Il Presidente albanese, Nishani, ha dichiarato che l’attività terroristica non conosce confini, oramai. “ Siamo consapevoli che l’attività dei gruppi terroristici è iniziata in modo strutturato dal punto di vista ideologico e pratico dall’11 settembre 2001 dopo gli attentati alle Torri Gemelle a New York. In seguito si è allargata con la nascita di numerose organizzazioni. Gli ultimi sviluppi in Siria, Iraq e in Europa dimostrano che che questa attività terroristica non conosce, appunto, confini: ogni paese, ogni democrazia, ogni società e ogni cittadino si sentono sotto minaccia. E’ d’obbligo allora che nelle nostre istituzioni venga valutato questo pericolo alla nostra libertà e sicurezza, coordinando un’azione comune nel quadro delle alleanze”.

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Commissione Europea: 31 marzo 2015, finisce l’era delle quote latte

EUROPA di

La norma sul regime produttivo riservata ai produttori caseari era stata introdotta nel 1984, quando la domanda era inferiore all’offerta. Adesso, con l’allargamento del mercato e, quindi, della richiesta, l’Ue cambia la sua politica agricola comunitaria

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“L’abolizione delle quote latte è al tempo stesso una sfida e un’opportunità per l’Unione”. Queste le parole con cui il commissario UE per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale Phil Hogan ha salutato la fine di questo regime produttivo previsto il 31 marzo 2015 ed introdotto nel 1984, quando la produzione casearia era superiore alla domanda.

Come recita il comunicato pubblicato dalla Commissione Europea, nel 2003 era stata sancito il termine ultimo per le quote latte. Poi, dal 2008, è stato attuato il cosiddetto “atterraggio morbido”, vale a dire un ammorbidimento delle quote pensate nel corso degli anni ’80 e ’90.

Ma nel presente le cose sono cambiate. Il mercato è divenuto globale: “Nonostante le quote, negli ultimi 5 anni le esportazioni UE di prodotti lattiero-caseari sono aumentate del 45% in volume e del 95% in valore – si legge nella nota -. Le proiezioni di mercato indicano che le prospettive di crescita per il futuro rimangono forti, in particolare per quanto riguarda i prodotti a valore aggiunto quali i formaggi, ma anche per gli ingredienti utilizzati nei prodotti alimentari, nutrizionali e sportivi”.

La sfida verso il mercato aperto è lanciata. E, la concomitante discesa del valore dell’Euro, iniziata già da fine 2014, potrebbe consentire al settore agricolo e caseario di fare da traino alla tanto agognata ripresa economica del Vecchio Continente.

Giacomo Pratali

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Italia, blitz antiterrorismo: 3 arresti

EUROPA di

La Procura della Repubblica di Brescia, nell’ambito dell’operazione “Balkan Connection”, ha fermato due albanesi e un italo-marocchino. Emesso un mandato di arresto per un quarto uomo, adesso in Siria, accusato di addestramento con finalità di terrorismo

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3 arresti tra Piemonte e Albania. Questo il risultato del blitz antiterrorismo, ordinato dalla Procura della Repubblica di Brescia, contro una cellula jihadista all’opera in Italia e nei Balcani. Due delle tre persone in stato di fermo sono uno zio e un nipote albanesi, uno residente in provincia di Torino e l’altro in Albania, accusati di reclutamento con finalità di terrorismo. Al terzo, un 20enne marocchino di origini italiane, è stato imputato il reato di apologia di delitti di terrorismo aggravata dall’uso di internet.

I due albanesi avrebbero reclutato un giovane italo-tunisino da inviare in Siria. All’epoca, il ragazzo era minorenne e, dopo alcuni dubbi iniziali, era stato convinto a lottare per la causa del Califfato. Per questo motivo, è stato messo sotto il regime della sorveglianza speciale. L’ultimo arrestato, invece, da tempo molto attivo sul web, è l’autore di un testo di 64 pagine dal titolo ‘Lo stato islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare” apparso su internet a fine febbraio.

Il Gip di Brescia Tommaso Buonanno, a capo dell’operazione antiterrorismo, ha commentato: ”Oggi è una giornata importante per la lotta al terrorismo”. Ma non finisce qui. Perché lo stesso procuratore ha emesso un quarto mandato di arresto ai danni di Anas El Abboubi, marocchino residente nel bresciano, dapprima arrestato e poi scarcerato nel 2003, che adesso si trova in Siria. E sarebbe proprio quest’uomo, accusato di addestramento con finalità di terrorismo, la punta della piramide di questa indagine denominata “Balkan Connection”.

“Le investigazioni hanno portato alla luce una filiera albanese di reclutamento di terroristi internazionali”, ha spiegato il questore di Brescia Carmine Esposito, il quale ha aggiunto che, per merito della Digos, “siamo riusciti a risalire ad un italo-marocchino residente in provincia di Brescia” che “prima di trasferirsi in Siria aveva effettuato un viaggio in Albania, dove aveva incontrato uno degli arrestati oggi”. Altre perquisizioni, legate a questa indagine, sono in corso in Toscana, Lombardia e ancora in Piemonte.
Giacomo Pratali

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Commissione Europea: Italia sede della collaborazione tra ArchelorMittal e Cln

EUROPA di

Lunedì 23 marzo la Commissione Europea ha approvato la joint venture tra la sussidiaria di ArcelorMittal, Amds Italia, e Cln, anch’essa italiana. ArcelorMittal è leader mondiale nella produzione di acciaio. Cln, invece, fabbrica componenti per auto. L’accordo prevede la combinazione dei centri di servizio dell’acciaio delle due aziende in Italia, ma, come fa sapere Bruxelles, “non ci sono rischi per la concorrenza in questo settore”.

Giacomo Pratali

 

La lezione realista sulla crisi ucraina

EUROPA di

I negoziati di Minsk del 12 febbraio scorso, accolti dalla diplomazia europea e statunitense come un primo passo indispensabile verso l’auspicata soluzione della crisi ucraina, hanno messo a nudo il fragile accordo sul quale dovrebbero reggersi le sorti delle future relazioni est-ovest. Difficilmente la lunga linea di “faglia” che attraversa l’Europa e divide l’Ucraina in due fronti contrapposti, uno occidentale e uno ortodosso, avrebbe potuto essere più evidente. E non solo perché, ancora oggi, continua a grondare di sangue, ma perché è la storia stessa del paese a rimarcare le divisioni e i conflitti che lo hanno a lungo forgiato. Se da un lato secoli di difficile integrazione tra cultura occidentale e cultura slava hanno rappresentato, in seguito all’indipendenza dall’Unione Sovietica, un ostacolo insormontabile alla costruzione della nazione, dall’altro va rilevato come oggi, purtroppo, in Ucraina non esista più nemmeno lo Stato.

Per questi motivi, una corretta interpretazione degli accordi di Minsk, alla luce dei possibili scenari che si aprono per il paese e per i rapporti tra Usa, Ue e Russia, non può che passare per la constatazione del consumato fallimento della nazione e della attuale difficoltà della leadership ucraina a mantenere l’integrità dello Stato. L’esito del lungo e laborioso negoziato, che di fatto ha ripreso le coordinate generali dell’accordo già stilato a settembre, limitandosi ad entrare più in dettaglio su alcuni punti nevralgici, è stato quello di limitare temporaneamente la violenza e non di eliminarla, come confermano le ultime notizie dal fronte orientale di Donetsk e Mariupol. Nonostante gli accordi contemplassero almeno la fissazione del cessate-il-fuoco, la liberazione dei prigionieri, il ritiro delle armi pesanti e di tutte le truppe straniere e mercenarie dal suolo ucraino, allo stato attuale l’Osce, che secondo il punto 2 del documento avrebbe dovuto supervisionare con il sostegno delle parti interessate il processo di ritiro delle armi pesanti, non ha ancora avuto accesso alla zona dell’aeroporto di Donetsk, controllata dai separatisti filo-russi.

Sul piano strategico, le lacune, o se vogliamo le ambiguità più rilevanti, riguardano soprattutto i punti 9 e 11 dell’accordo, dove si parla rispettivamente di «ripristino del pieno controllo sui confini statali da parte del governo dell’Ucraina in tutta la zona del conflitto» e dell’entrata in vigore, entro il 2015, di «una nuova costituzione che abbia come elemento chiave una decentralizzazione», nonché l’approvazione di «una legislazione permanente sul futuro status di singole zone delle regioni di Donetsk e Lugansk».

Al momento, sul ripristino del pieno controllo dei confini statali da parte del governo ucraino è quanto mai lecito dubitare: come è noto, l’accordo tace diplomaticamente sulla pregressa annessione della Crimea da parte di Putin. Ed è proprio su questo silenzio che l’Occidente e la Russia, più o meno consapevolmente, dovranno ridisegnare la nuova mappa geopolitica dell’Europa. Mosca, infatti, ha per ora fornito un’efficace azione preventiva dinanzi allo spettro di un’Ucraina democratica e integrata nell’Ue e nella NATO, salvaguardando i propri interessi strategici nell’area e mantenendo il controllo delle basi militari dislocate sul Mar Nero. La fiacca risposta occidentale, come ha giustamente sottolineato Angelo Panebianco sulle pagine de Il Corriere della Sera, non solo ha aperto una crepa pericolosissima sulle prospettive di stabilizzazione dell’area, ma rischia addirittura di costituire il propellente ideale per tutte le rivendicazioni separatiste delle minoranze filo-russe dalla Bielorussia al Baltico.

Ne consegue che la ricostruzione del futuro assetto territoriale e politico dell’Ucraina non potrà assolutamente prescindere da un accordo preventivo tra Bruxelles, Washington e Mosca sulla collocazione strategica del paese. Se l’ipotesi di una divisione dell’Ucraina in due entità distinte, una filo-occidentale e una filo-russa, pur rappresentando una gravissima sconfitta per Kiev e i suoi alleati, potrebbe consentire ad entrambe le parti di seguire il proprio destino, è evidente che la soluzione federale, timidamente abbozzata a Minsk, necessiti di sforzi ulteriori per essere davvero praticabile. Anche chiudendo un occhio sulla Crimea e presupponendo, ottimisticamente, che si riesca a trovare un compromesso sullo status delle regioni orientali nell’ambito di un assetto federale, resta ancora da sciogliere il nodo dell’allineamento internazionale dell’Ucraina. Qualora dovesse eleggere democraticamente i propri rappresentanti, potrà entrare nell’Unione Europea e nella NATO? Sarà in grado di far fronte alla sua dipendenza economica ed energetica da Mosca?

Qualsiasi tentativo di eludere queste domande rischia di porre un altro mattone sul muro che già separa gli Stati Uniti e l’Europa dalla Russia. Il fatto che Putin continui a percepire questo muro come qualcosa di estremamente reale è confermato dai ripetuti avvertimenti lanciati contro l’allargamento della NATO e il sostegno occidentale ai movimenti democratici ucraini a partire dalla Rivoluzione arancione. Alla fine, la risposta russa è giunta. Il paradosso, se davvero può definirsi tale, sta nelle divisioni e nelle incertezze europee, nel discontinuo impegno americano, nella scarsa lungimiranza delle élites occidentali, le quali, parafrasando John Mearsheimer, nel XXI secolo ritengono di poter soppiantare la logica realista con i principi liberali dello stato di diritto, dell’interdipendenza economica e della democrazia per espandere la libertà e la sicurezza in Europa. Tuttavia, la logica realista non implica necessariamente il ricorso alla forza. Al contrario, presuppone sempre un’adeguata ponderazione degli interessi e delle risorse in campo per evitarla. Esattamente quello che, finora, è mancato.

 

Barbara Pisciotta è professore associato di Scienza politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, dove insegna Relazioni internazionali e Politica internazionale. E’ autrice di tre volumi e numerosi saggi sugli aspetti interni e internazionali della democratizzazione dei paesi dell’Europa dell’Est.

Il petrolio che seduce i croati

Energia/EUROPA di

Il ministero dell’ambiente italiano ha aderito alla Valutazione ambientale strategica (VAS) transfrontaliera italo-croata sul piano del governo croato per lo sfruttamento di petrolio e gas nell’Adriatico settentrionale.

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“Essere pienamente a conoscenza di quel che si verifica a poca distanza dalle nostre coste, a maggior ragione perché si tratta di interventi energetici con un potenziale impatto ambientale, era per noi un passaggio irrinunciabile”, spiega il ministro Gian Luca Galletti. Che al tempo stesso ammette di aver agito anche “per rispondere a chi in questi mesi aveva temuto che l’Italia fosse semplice spettatrice di ciò che accade nell’Adriatico”. Un passo in avanti importante da parte delle autorità italiane per venire ufficialmente a conoscenza della strategia croata che coinvolge, di fatto, tutti i paesi confinanti bagnati dal mar Adriatico.

Ma da dove nasce l’ambizione del governo di Zagabria alle trivellazioni in cerca dell’oro nero davanti alle coste dalmate?

La recessione degli ultimi 6 anni e la nuova frontiera europea degli affari croati hanno spinto i suoi tecnici a considerare la Croazia in grado di divenire cruciale nelle politiche energetiche della regione. Ivan Vrdoljak, il ministro dell’Energia è il vero artefice della corsa al petrolio: trasformare la Croazia in una “piccola Norvegia” .

Il 2 aprile 2014 l’esecutivo socialdemocratico di Zoran Milanović pubblicava il suo primo bando di esplorazione offshore. Le acque territoriali croate venivano allora divise in 29 blocchi da 1000–1600 km2, quindici dei quali venivano proposti in concessione. La gara si chiudeva nel novembre del 2014 e i risultati venivano annunciati al gennaio del anno in corso. Il 2 gennaio, il governo informava che cinque colossi dell’energia si fossero aggiudicati 10 settori. Si tratta di Marathon Oil, OMV, INA, Medoilgas ed ENI, che potranno esplorare le acque croate nell’Adriatico centrale e meridionale, esattamente di fronte alle isole Incoronate e al largo di Dubrovnik. Il ministro dichiarava che l’ammontare degli investimenti è di circa 523 milioni di euro. L’accordo si prevede possa essere raggiunto e siglato entro il 2 aprile prossimo e l’intera fase delle esplorazioni si aspetta possa durare ben 5 anni.

Contrari al progetto, oltre alle associazioni ambientaliste dell’intera area del Mediterraneo, pare si sia messa anche l’opposizione di stampo conservatore all’attuale governo. Si accusa il progetto di mancata trasparenza e lo si considera potenzialmente dannoso per l’economia del turismo croata, vero traino degli affari croati. Più di 1000 isole che attraggono circa 12 milioni di turisti all’anno sono i numeri ai quali si fa riferimento per mettere dei paletti alle trivellazioni nell’Adriatico.

E poi c’è l’UE. Entro il 2020, la Croazia, facendo riferimento alla direttiva europea sull’efficienza energetica, dovrebbe rinnovare e riadattare (in termini di adeguamento al risparmio energetico) il 20% degli edifici di proprietà statale, con una progressione che prevede il raggiungimento di almeno il 6% entro il primo gennaio 2016. Un obiettivo che, senza un approccio serio, al momento attuale sembra fuori portata.
Ma l’impegno sull’efficienza energetica delle strutture è improrogabile e ha per riferimento il pacchetto legislativo “clima-energia” che la Commissione europea ha assegnato a tutti gli stati membri e che, attraverso la formula 20-20-20, punta al raggiungimento di un traguardo non poco ambizioso: un risparmio energetico del 20%, una riduzione dei gas serra (causa primaria del riscaldamento globale) del 20%, rispetto ai valori del 1990, e un aumento del 20% dell’energia elettrica proveniente da risorse rinnovabili (che probabilmente salirà al 30% entro il 2030 in base alle ultime proposte della Commissione europea).
Ma come farà la Croazia a raggiungere i target se attualmente la percentuale di produzione di energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili ha raggiunto solo il 5% della produzione totale? E la corsa al petrolio come meta finale e “soluzione” dei problemi croati, stando a sentire il futuro florido fantasticato dal suo ministro dell’economia?

In questa prospettiva, il governo di Zagabria deve ufficializzare le sue priorità in conformità con gli impegni europei.
Secondo la mappa diffusa dal ministero e riprodotta più volte nelle 450 pagine del suo studio di impatto ambientale, i 29 settori interessati dall’attività petrolifera rasentano tutti i parchi naturali e nazionali della costa croata: l’arcipelago delle Brioni al largo dell’Istria, il Parco naturale di Porto Taier (Telašćica), le celebri Incoronate (Kornati), l’isola di Lagosta (Lastovo) e, appunto, il parco di Mljet.

Sono circa un milione gli italiani che scelgono le coste croate nei mesi estivi. Il sito di petizioni “avaaz.it” ha deciso di rivolgersi proprio a loro per fermare l’azione del governo croato. “Se riusciamo a raccogliere 150.000 firme, potremo fare pressione sul governo di Zagabria”, riassume Francesco Benetti, attivista presso Avaaz.it. Oltre alla versione in croato della petizione, l’azione andrà a espandersi in circuiti europei. “I nostri colleghi tedeschi stanno pensando di pubblicare una petizione identica”, aggiunge Benetti.
Ora, il governo italiano, facendo seguito non solo alle istanze dal basso per la tutela ambientale, ma anche alla partecipazione italianissima di ENI e MEDIOLGAS nel progetto, può finalmente accedere agli atti e prendere posizione. Ci si augura che ciò possa avvenire in tempi utili, ovvero entro la scadenza del 2 aprile prossimo e che sia la migliore delle decisioni.

 

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Ucraina, gli accordi di Minsk scricchiolano

EUROPA di

Merkel, Hollande, Poroshenko and Putin condannano la violazione del cessate il fuoco dopo la presa di Debaltseve da parte dei separatisti. Nel frattempo, è braccio di ferro tra Mosca e Nato, dopo la decisione di Stoltenberg di aumentare le forze di difesa nei Paesi Baltici.

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“Puzza di genocidio”. Queste le parole con cui il 25 febbraio il presidente russo Vladimir Putin ha bollato la decisione del governo ucraino di ridurre le forniture di gas nel Donbass. “Oltretutto, gli osservatori internazionali hanno parlato di catastrofe umanitaria nelle regioni di Donetsk e Lugansk”, ha ribadito.

Tuttavia, nelle ultime 24, per la prima volta dall’inizio dell’anno, in Ucraina non ci sono stati combattimenti. E ,nel rispetto del cessate il fuoco decretato a Minsk il 12 febbraio, le truppe regolari e filorusse dovrebbero ritirarsi dalla cosiddetta zona di sicurezza per almeno 50 chilometri.

Ma il livello di stress tra le parti in causa sta comunque aumentando. Per prima cosa, gli accordi di Minsk sono inconsistenti. L’esercito di Kiev e i separatisti, infatti, hanno continuato comunque a combattere dal 15 al 24 febbraio. In particolar modo, i filorussi sono riusciti a conquistare Debaltseve, importante nodo stradale e ferroviario a metà strada circa tra Donetsk e Lugansk. E, ancora, stanno pensando ad un’offensiva contro Mariupol, cruciale città portuale situata sul Mare di Azov.

In aggiunta, è in corso una guerra psicologia tra Russia e Nato. Nonostante le continue conferenze telefoniche tra Merkel, Hollande, Poroshenko e Putin, concordi nel denunciare le violazioni degli accordi di Minsk soprattutto da parte dei separatisti, la vera disputa in corso è tra Mosca e i membri dell’Alleanza Atlantica.

La recente decisione di Stoltenberg di incrementare le forze di difesa nei Paesi Baltici ha suscitato la stizzita reazione del Ministero per gli Affari Esteri russo, che ha parlato di “minaccia alla sicurezza nazionale”. In più, il presidente lituano Grybauskaite ha annunciato la reintroduzione della leva obbligatoria viste “le attuali dinamiche geopolitiche”. Mentre il premier britannico Cameron e il suo governo hanno parlato di “guerra calda”, dopo che, il 19 febbraio, l’aeronautica di Sua Maestà ha intercettato due caccia russi sopra i cieli della Cornovaglia.

Mentre Stati Uniti e Unione Europea stanno pensando a nuove sanzioni economiche, Francia e Germania devono riuscire ad imporre ad Ucraina e Russia il rispetto del cessate il fuoco così da permettere agli inviati Osce di intervenire nel Donbass. Le stime Onu, infatti, riportano di non meno di 5665 morti e almeno 13961 dall’inizio della crisi in Ucraina.

Giacomo Pratali

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Accordo Grecia – Troika: un sirtaki o un coro tragico?

ECONOMIA/EUROPA/POLITICA di

Atene e i suoi creditori della zona euro hanno concordato un accordo dell’ultima ora per estendere a 172bn di euro il programma di salvataggio del paese per quattro mesi, ponendo fine in questo  modo a intere settimane di incertezze che minacciavano di innescare l’ultima corsa agli sportelli greci, indirizzando la Grecia alla bancarotta.

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L’accordo, raggiunto in una riunione make-or-break dei ministri delle Finanze della zona euro il 20 febbraio scorso, lascia diverse questioni importanti pendenti, in particolare sulle riforme che  Atene dovrà adottare urgentemente al fine di ottenere i 7,2 miliardi di euro in aiuti che dovrebbero essere forniti al completamento del programma attuale.

Il nuovo governo greco sara tenuto a presentare le misure per la revisione al Fondo monetario internazionale e le istituzioni dell’UE lunedì e qualora non siano ritenute idonee, un’altra riunione dell’Euro-gruppo potrebbe essere chiamata già domani, martedì.

Criticamente, l’accordo del Venerdì impegna Atene ai fini del “completamento” del salvataggio, qualcosa che il nuovo governo greco ha da tempo promesso e ripetuto di voler evitare. “Fino a quando il programma non sarà stato completato, non ci sarà alcun pagamento”, ha dichiarato Wolfgang Schäuble, il potente ministro delle finanze tedesco.

Alexis Tsipras, il primo ministro ha di contro ribadito che la Grecia  con l’accordo del Venerdì intende annullare gli impegni di austerity presi dal precedente governo conservatore, ma ha messo le mani avanti non promettendo miracoli. Saranno tempi duri per i greci.

“Abbiamo dimostrato che l’Europa è protesa a compromessi reciprocamente vantaggiosi, non a infliggere punizioni”, ha detto Tsipras il giorno dopo. Ma l’ accordo di venerdì non rappresenta la chiusura dei negoziati. “Stiamo entrando in una nuova fase. I negoziati diventeranno sempre più sostanziali, fino al raggiungimento di un accordo definitivo ai fini di una transizione dalle politiche catastrofiche del memorandum, delle politiche che si concentreranno sullo sviluppo, l’ occupazione e la coesione sociale”, ha continuato il primo ministro greco.

Tuttavia, l’accordo consente di evitare quello che i funzionari della Troika temevano avrebbe provocato forti scosse sui mercati e le borse. O meglio, se si fosse giunti all’accordo slittando di una settimana in più, si sarebbe dovuto arginare  la corsa dei greci al ritiro  dei depositi dal settore bancario del paese che, secondo quello che dichiarano i funzionari, stavano raggiungendo circa 800 euro al giorno, contribuendo alla creazione di un situazione al limite di una vera  e propria corsa agli sportelli. La premessa per la catastrofe.

“La trattativa  è stata intensa, perché si trattava mettere le basi di un rapporto di  fiducia tra noi”, ha detto Jeroen Dijsselbloem, il ministro delle Finanze e presidente dell’Eurogruppo olandese il quale ha mediato l’accordo, anche dopo aver fallito già due volte nel corso della scorsa settimana. “Stasera è stato fatto un primo passo nel processo di ricostruzione del rapporto di fiducia…”, ha proseguito.

Alla notizia dell’accordo le borse hanno “festeggiato” al loro modo. Wall Street è salito a livelli record. L’indice S & P 500 è cresciuto da 0,6 per cento a un record di 2.110, mentre il Dow Jones ha raggiunto il massimo storico di 18.144.

La decisione di chiedere una proroga del programma atutale è una significativa “mediazione” per Tsipras, che aveva promesso nella sua campagna elettorale di abbattere il piano di salvataggio esistente.

Alle istituzioni del FMI e dell’UE, della Banca centrale europea e la Commissione europea rimangono le redini e il controllo della valutazione delle misure delle future riforme economiche greche e l’erogazione dei fondi di salvataggio, nonostante il moto dei greci diretto alla liberarazione dalla tanto odiata “troika”. Tsipras dovrà essere abile a non deludere la sua gente, non glielo perdonerebbero, troppi sacrifici, troppa stanchezza.

“Anche se Atene si è impegnata a mantenere gli avanzi primari di bilancio e di prendere più di quanto spende, quando gli interessi sul debito non verranno conteggiati” – ha detto Mr Dijsselbloem.

“Siamo riusciti a scongiurare una serie di molti anni di avanzi primari soffocanti che la nostra economia non può produrre”, ha detto Yanis Varoufakis, il carismatico ministro delle Finanze greco.

Un alto funzionario coinvolto nei colloqui ha precistao che la posizione del bilancio greco in rapido deterioramento ha messo sotto pressione Atene per giungere a un accordo. “In verità, i greci sono  spalle contro il muro”. Indiscrezioni e pressioni di corridoio.

Pare che la BCE sia già pronta a erogare nuova liquidità alla Grecia già da questa settimana. All’inizio di questo mese la BCE di Mario Draghi aveva tagliato tale prestito, costringendo le banche a fare affidamento sui tassi molto elevati della liquidità di emergenza da parte della banca centrale greca.

Tra le concessioni fatte ad Atene vi è un patto per l’astensione da qualsiasi “rollback” o “cambiamenti unilaterali” dalle misure delle riforme già esistenti. L’accordo, inoltre, non prevede di tagliare i livelli di debito della Grecia, un’altra promessa che Alexis Tsipras aveva fatto durante la campagna elettorale.

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Sabiena Stefanaj
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