GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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REGIONI - page 119

Ue: nuove proposte sulla sicurezza

EUROPA/POLITICA di

Al vaglio misure per aiutare gli Stati partner nella lotta al terrorismo e alla criminalità. All’orizzonte anche alcune manovre di bilancio per favorire i processi di pace in Africa.

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La Commissione Europea e l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue hanno recentemente diramato un comunicato in materia di sicurezza. Non è una novità: ma l’obiettivo stavolta è quello di aiutare i paesi partner e le organizzazioni regionali a prevenire crisi in materia di sicurezza utilizzando gli strumenti di cui l’Unione ed i singoli Stati Membri dispongono, sulla scorta delle lezioni apprese nei paesi terzi come le missioni di formazione in Mali o in Somalia o, più indietro nel tempo, in Bosnia e Congo (si pensi alle missioni sotto egida UE denominate “EUFOR Althea” ed “EUFOR RD Congo”, a cui hanno partecipato negli anni folti contingenti di militari e non provenienti dal nostro Paese).

La “comunicazione” congiunta, che suona come un’importante dichiarazione di intenti, svela quali siano ad oggi le criticità del sistema Europa in materia sicurezza e difesa ed illustra una serie di proposte anche economico – finanziarie per fronteggiare le minacce del terrorismo e della criminalità organizzata emergenti dentro i confini dell’Unione. Il tutto manifesta l’evidente intento di Junker e di Mogherini di attribuire una missione ancora più globale dell’Europa. Il documento è da ritenersi quale un vero e proprio libro bianco di livello strategico in materia di sicurezza; la stessa Mogherini ha dichiarato: “Con queste nuove proposte intendiamo aiutare i nostri partner ad affrontare le sfide connesse al terrorismo, ai conflitti, alla tratta di esseri umani e all’estremismo. Permettere ai partner di garantire la sicurezza e la stabilizzazione sul loro territorio non serve solo a favorire il loro sviluppo, ma è anche nell’interesse della stabilità internazionale, comprese la pace e la sicurezza in Europa”.

Alcuni manovre di bilancio illustrate nel documento per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato dalle Istituzioni UE sono:
– adattare il Fondo per la pace in Africa per ovviare alle sue limitazioni;
– creare un nuovo fondo che colleghi pace, sicurezza e sviluppo nell’ambito di uno o più strumenti già esistenti;
– creare un nuovo strumento finanziario destinato specificamente a sviluppare la capacità dei paesi partner in materia di sicurezza.

Materialmente, il supporto che la Commissione vorrebbe fornire potrebbe consistere nella fornitura di ambulanze e materiale di protezione o mezzi di comunicazione alle forze militari nei paesi in cui le missioni della politica di sicurezza e di difesa comune stanno già assicurando formazione e consulenza, ma dove la loro efficacia risente della mancanza dei mezzi essenziali.

Il tutto assume una maggiore rilevanza se si pensa che proprio domani, 7 maggio, un’importante Comitato del Consiglio dell’Unione Europea, il COSI – Standing Committee on Internal Security, si riunirà in maniera informale a Riga, in Lettonia (che è il paese attualmente reggente la Presidenza del Consiglio): in quella sede si discuterà principalmente di terrorismo, di foreign fighters, di confini, di immigrazione e dell’operato delle numerose agenzie europee operanti nel settore JHA (Justice and Home Affairs).

Questi eventi, questi “atteggiamenti”, devono indurci a pensare che l’Europa, e le sue numerose Istituzioni, con uno sguardo all’interno ed all’esterno dei suoi confini stanno cercando di assumere un ruolo di sempre maggior rilievo nella gestione civile delle crisi e dei risvolti ad esse interconnessi. L’Europa, in sintesi, pur non abbandonando i suoi primigeni obbiettivi strategici di natura politico-economica, sta operando finalmente in maniera sempre più incisiva anche negli equilibri e negli assetti internazionali, valicando – e anche di molto – i suoi confini geografici ed assurgendo ad organizzazione internazionale sempre più “completa”.

Domenico Martinelli

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Immigrazione: attesa per la riunione Onu del 18 maggio

Per l’Ue sarà decisivo il parere del Consiglio di Sicurezza sulle misure militari da adottare per arginare il fenomeno migratorio. Prodi bolla questa possibilità come “inappropriata e dannosa”. Intanto, si continuano a contare i morti nel Canale di Sicilia.

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I 1500 migranti morti dall’inizio del 2015 e i continui sbarchi sulle coste italiane e maltesi delle ultime ore hanno portato le Nazioni Unite a convocare un Consiglio di Sicurezza straordinario previsto per lunedì 18 maggio. Dopo il Consiglio Europeo del 23 aprile, in cui sono stati triplicati i fondi per “Triton”, l’Unione Europea attende questa riunione per mettere sul tavolo nuove misure militari per combattere alla radice questa ondata migratoria direttamente collegata al caos politico, istituzionale e sociale della Libia. Il vertice sarà aperto da Federica Mogherini, Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell’Ue.

A confermare la necessità di una incombente discussione a livello internazionale sulla questione migratoria, ci sono i fatti. Nelle ultime 24 ore, Malta e Messina hanno accolto 98 e 300 migranti a testa dopo essere stati soccorsi dalle marine militari. Non solo. La Procura di Catania sta indagando sulla presunta strage, raccontata dai sopravvissuti e denunciata da Save The Children, di circa 40 persone annegate a largo delle coste siciliane nella notte tra il 4 e il 5 maggio, poco tempo prima che le autorità italiane prestassero i soccorsi.

A rigettare, però, la soluzione militare nei confronti della Libia per arginare il flusso migratorio previsto per i prossimi mesi, è l’ex presidente del Consiglio e della Commissione Europea Romano Prodi: “L’azione bellica – ha affermato nel corso dell’audizione presso la Commissione Esteri del Senato nella giornata di martedì – è inappropriata e dannosa, oltre che irrealistica. Adesso, la vera priorità è ripristinare la statualità in Libia”.

Intanto, l’Italia si sta muovendo in primis per cercare di arginare la situazione. Nell’incontro tra Antonello Cracolici, Presidente della Commissione Affari Istituzionali, ed Ezzedine al Awani, Ambasciatore libico in rappresentanza del governo di Tobruk, è stata prospettata una collaborazione tra il Paese nordafricano e la Sicilia in materia di sviluppo economico, immigrazione e protezione delle marinerie.

Giacomo Pratali

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Tories o Lab? Il Regno Unito all’ultimo dilemma

EUROPA/POLITICA di

Due giorni al voto per i cittadini del Regno Unito e il mistero s’infittisce. Mai come a questo giro di elezioni generali si è raggiunto tale grado di imprevedibilità. Votare o non votare Tory? Votare o non votare Labour? A proposito, ci risiamo con i testardi scozzesi!

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Quinta potenza economica mondiale, il Regno si interroga sulle priorità che la politica dovrà inserire e affrontare nella prossima agenda quinquiennale. Al civico 10 di Downing Street continuerà ad avere le chiavi il conservatore Cameron o il laburista Miliband? Una cosa è certa, sta per finire l’era del monopolio di governo anche a Londra. I due leader dovranno provvedere ad alleanze estese per poter garantire la governabilità. Quasi una “normalità” per il resto d’Europa, Germania in primis con un modello di alleanze che “funziona” e Italia con qualche “problemino” in più, ma totalmente una novità per i britannici i quali si vedono alternare i governi laburisti o conservatori dal lontano 1922. Una simile situazione era venuta a crearsi già nel 2010 con i Lib Dem di Nick Clegg, con i quali Cameron mise su la coalizione.

Sistema elettorale e composizione del Parlamento

First past the post- così è chiamato il sistema maggioritario uninominale a norma del quale il territorio del Regno Unito è diviso in 650 circoscrizioni elettorali. La suddivisione delle circoscrizioni è divisa in questo modo: 523 in Inghilterra; 59 in Scozia; 40 in Galles; 18 in Irlanda del Nord. Da ciascuna circoscrizione verrà espresso un rappresentante da mandare alla Camera dei Comuni che assieme alla Camera dei Lord, composta da membri nominati, andrà a comporre il futuro Parlamento. La maggioranza assoluta è quantificata in 326 seggi. Un numero però improbabile da raggiungere da entrambi i partiti.

David Cameron ha dalla sua il cosiddetto” establishment” anche e soprattutto per la ripresa veloce del Regno Unito nell’economia dopo il fermo imposto dalla crisi globale. Culla del capitalismo liberale, il Regno Unito ha dato un forte segnale di rilancio, ma i frutti di questa ripresa, ad oggi, si segnalano a livello macro, la classe media deve ancora attendere le future buste paga per poterla verificare su di se.

Ed Miliband, dopo aver vinto al fratello David la leadership del Partito Laburista, Ed “il nerd” o Ed “il rosso” per i conservatori, sta guadagnando punti nei sondaggi in maniera decisiva e costante. Partito sfavorito all’inizio della campagna elettorale, ha saputo giocare molto sull’immagine, puntando all’autoironia, valore aggiunto come sempre nell’animo inglese.

I Lib Dem di Nick Clegg, voto di protesta nel 2010, oggi hanno perso la loro genuinità e vengono visti come parte del sistema. Lo Ukip di Nigel Farage, dopo l’exploit delle elezioni europee di un anno fa rimane l’anima indomata del panorama politico britanico, ma la sua portata antieuropeista e populista non si prevede possa essere determinante il 7 maggio prossimo. Infine troviamo  verdi che, con l’aiuto delle spinte da sinistra, puntano a qualche seggio.

Chi confonde le acque di tories e lab è l’SNP, il Partito Nazionale Scozzese con a capo il Primo Ministro donna, Nicola Sturgeon. Dopo aver perso il referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito a settembre 2014 la popolarità della Sturgeon non è che aumentata. Una ventata di parole “di sinistra” e di grinta che fanno  la differenza. Escludendo ogni punto d’incontro con Cameron, si presume che l’SNP possa coalizzarsi con i laburisti di Miliband in caso di vittoria di questi, ma solo due giorni fa, lo stesso Miliband ha negato questa possibilità. Partendo dal presupposto che nessuno dei leader ha mai parlato o reso esplicite le possibili alleanze, pare inverosimile la chiusura totale della possibilità di alleanze tra questi due partiti.

Battaglia di seggi, battaglia di news. Lo schieramento dei grandi quotidiani, The Guardian e Financial Times in testa, rispettivamente per i laburisti e i conservatori è altrettanto un aspetto fondamentale. Il potere mediatico anglosassone determina più di una manciata di voti e si svolge ad altissimi livelli. Una copertura invidiabile dell’argomento su tutti i fronti, la City della finanza, le città operaie, le periferie del Regno vengono battute come in un trekking mainstream delle intenzioni di voto.

In sintonia con le ventate dal basso nel mondo occidentale, anche nel Regno Unito si continua ad auspicare una politica inclusiva con pressioni dal basso e sopratutto dai “giovani disillusi”, vedendo in questi il veicolo tramite il quale attingere a una nuova politica, più vera, più reale, più tangibile, fuori dall’establishment.

Europa: Should I stay or should I go?

Pochissima Europa in questa campagna elettorale da tutte le forze politiche coinvolte. David Cameron, in caso di vittoria indirà un referendum se rimanere o meno nell’UE. Miliband non lo farà. Stranota la posizione dell’UKIP, altre invece sono le priorità del SNP. Non è un mistero lo scetticismo britannico nei confronti dell’Europa unita, ma in caso di vittoria di Cameron e di eventuale uscita del Regno Unito dall’UE a indebolirsi sarà quest’ultima,  in caso contrario con presumibile rafforzamento del SNP a dover fare i conti con l’indebolimento interno sarà lo stesso Regno Unito.

Appuntamento, il 7 maggio dalle 7.00, Greenwich Mean Time.

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Sabiena Stefanaj

“Expo e i Territori”: l’Italia chiama gli “aussies”

EUROPA di

Il console italiano Cerbo espone un’iniziativa che, attraverso itinerari personalizzati, mira a fare scoprire realtà regionali come Abruzzo, Calabria, Sicilia e Veneto.

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“Expo e i Territori”. È questa l’iniziativa presentata a Melbourne dal console italiano Marco Maria Cerbo davanti a 50 osservatori, tra giornalisti e tour operator. L’obiettivo è quello di far scoprire agli australiani i paesaggi, le bellezze artistiche e i costumi regionali, partendo da una vetrina d’importanza globale come l’evento milanese.

Sotto la lente d’ingrandimento sono state messe Abruzzo, Calabria, Sicilia e Veneto, da cui il visitatore potrà partire per costruire un itinerario personalizzato. Un turismo da incrementare, ma che parte già da una buona base. Infatti, anche a causa della forte presenza italo-australiana, circa un milione di “aussies” ogni anno decide di visitare il Bel Paese.

Giacomo Pratali

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Ucraina, vacilla l’accordo di Minsk: 8 morti

EUROPA di

Le vittime sarebbero scaturite dopo i bombardamenti di Kiev contro l’aeroporto filorusso di Donetsk. Il ministro degli Esteri Gentiloni apre le porte a Putin, alleato di importanza strategica in Siria e Libia.

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Si fa sempre più fittizio il cessate il fuoco in Ucraina. L’ultimo episodio di una guerra civile mai spenta è accaduto domenica 3 maggio. L’esercito regolare, secondo fonti filorusse, avrebbe ucciso 8 persone (un militare e 7 civili) nel corso dei bombardamenti contro l’aeroporto di Donetsk, roccaforte dei filorussi. La notizia è ancora da confermare, mentre il Ministero della Difesa di Kiev ha parlato di “bugie” e che “i militanti (separatisti filorussi, ndr) in 24 ore hanno aperto il fuoco 35 volte”.

Intanto, il ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni, attraverso un’intervista a La Stampa, pur ribadendo che “l’Italia sostiene Kiev, e Kiev deve fare le necessarie, dolorose riforme economiche e costituzionali, compresa l’autonomia del Donbass” e che “ha applicato correttamente le sanzioni alla Russia, pagando un prezzo pesante”, incalza con un’importante apertura nei confronti di Vladimir Putin, atteso nei prossimi giorni all’Expo: «La data non è ancora stata fissata, ma certamente l’incontro ci sarà. Senza illudersi di poter tornare d’incanto alla situazione pre-crisi Ucraina, occorre mantenere aperti i canali con Mosca. Non sfugge – prosegue – il ruolo che la Russia già ha nella scacchiera della gestione delle crisi internazionali, dall’accordo sul nucleare iraniano fino alla crisi più drammatica, quella in Siria. E potrebbe essere utile anche in Libia», conclude il titolare della Farnesina.

Giacomo Pratali

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Moas, droni e medici in soccorso ai migranti

EUROPA di

Migrant Offshor Ad Station (MOAS) insieme a Medici senza frontiere ha lanciato lo scorso 2 maggio la missione di soccorso nel mediterraneo in aiuto alle imbarcazione in difficoltà dei crescenti flussi migratori verso l’Europa.

Il MOAS con la usa nave M.Y. Phoenix di quaranta metri presidia il tratto di mare che divide l’Italia alle coste libiche e che ha visto naufragare e affondare tanti barconi carichi di speranze.

Questa missione è una risposta concreta alla grande crisi umanitaria che si è accesa in questi mesi con l’avanzare della guerra e il califfato nero.

Il dibattito su cosa fare e come farlo si è acceso lentamente spinto soprattutto sulla pressione dell’opinione pubblica ma ancora senza una risposta concreta mentre in quel tratto di mare i barconi continuano a partire e affondare.

Drone takeoff_lr

La risposta concreta sono i quaranta metri di nave, i due Droni CAMCPTER S100 che partono per monitorare le condizioni delle imbarcazioni sospette, il team di due medici e un’infermiera messi a disposizione da Medici senza Frontiere.

MOAS.EU_infographics“Mentre gli altri dibattono ancora circa i pro e i contro del salvare vite umane, noi restiamo convinti che nessuno merita di annegare” ha detto il direttore di MOAS Martin Xuereb. “L’anno scorso abbiamo salvato circa 3000 persone in 60 giorni, quest’anno staremo in mare per sei mesi per soccorre tutti coloro che per una ragione o l’altra hanno deciso di intraprendere un viaggio così rischioso nel Mediterraneo. Nel 2015, abbiamo deciso di avere a bordo MSF per rendere la missione MOAS ancora più efficiente. Siamo estremamente orgogliosi di poter offrire la nostra competenza e il nostro supporto ai centri di coordinamento Italiani e Maltesi per lo scopo comune di salvare vite umane” ha continuato Xuereb

MOAS è composto da volontari esperti di attività di aiuto umanitario internazionali, professionisti della sicurezza, personale medico, e ufficiali marittimi esperti che impegnano la loro esperienza per aiutare a prevenire ulteriori catastrofi in mare.

La OMG è stata fondata da Christopher Catrambone e Regina Catrambone che nel 2006 hanno fondato a Tangeri, un’azienda leader a livello mondiale specializzata in assicurazione, assistenza di emergenza.

Second rescue_lrDopo i 400 migranti annegati nei pressi dell’isola italiana di Lampedusa nel 2013, i Catrambone decisero di fondare MOAS. Essi sperano che l’iniziativa umanitaria ispirare gli altri a livello globale, e contribuire a dissipare ciò che Papa Francesco chiama “globalizzazione di indifferenza”.

Il direttore delle operazioni Martin Xuereb è nato a Malta, ha una laurea in Scienze e un Diploma in Sociologia presso l’Open University in seguito ha conseguito un master in Studi Internazionali al Kings College di Londra, e si è formato in Italia e nel Regno Unito presso la Royal Military Academy Sandhurst e il Royal College of Studi per la Difesa.

Durante la sua carriera militare, Xuereb ha condotto missioni di aiuto in Kosovo devastato dalla guerra e moltissime altre missioni di ricerca e soccorso dirette come capo della Difesa di Malta. Professionalità, esperienza e passione sono gli ingredienti fondamentali di questa organizzazione che lo scorso anno ha salvato 3.400 persone in 60 giorni, questa missione durerà 6 mesi.

Il MOAS è una organizzazione non governativa senza fini di lucro che mantiene tutta la sua organizzazione grazie alle donazioni che possono essere fatte anche on line sul loro sito www.moas.eu , anche un solo piccolo contributo permetterà ala nave un ora di navigazione in più, ai droni di sollevarsi ancora, ai medici di restare in mare ancora e salvare tante vite umane.

Alessandro Conte

 

Xylella, Ue: “Ulivi a nord di Lecce da abbattere”

EUROPA di

L’Europa vara una serie di misure per prevenire e combattere il batterio killer che ha infestato le piante del Salento.

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Notifica della comparsa di nuovi focolai. Delimitazione delle zone infette. Rimozione e distruzione delle piante infestate e quelle entro i 100 metri. Queste le misure varate dal Paff, Comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi, riunitosi a fine aprile a Bruxelles per discutere della prevenzione e della lotta alla Xylella fastidiosa, batterio killer che ha colpito gli ulivi dapprima della provincia di Lecce nell’ottobre 2013, poi quelli delle province di Taranto e Brindisi più recentemente.

Per la provincia di Lecce è stato previsto il contenimento delle piante, mentre per le province di Taranto e Brindisi l’eradicazione. A questo, si aggiungono gli 11 milioni di euro stanziati dal Governo per affrontare questa emergenza: “Facciamo un intervento ad hoc attivando la deroga per accedere al fondo di solidarietà nazionale, per la prima volta anche per un’emergenza fitosanitaria”, ha chiarito Maurizio Martina, Ministro dell’Agricoltura.

Giacomo Pratali

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Ue: “Nessuna missione militare in Ucraina”

EUROPA di

Questo quanto emerso nel corso del summit di Kiev tra Tusk e Poroshenko. Entro il 2020 l’ex Paese sovietico potrebbe entrare nell’Unione Europea.

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“Siamo favorevoli ad un’operazione civile, ma non militare”. Non lascia margini di interpretazione il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk nel corso del vertice di Kiev con il presidente ucraino Poroshenko, il quale aveva chiesto all’Unione Europea il sostegno armato contro i ribelli del Donbass. Apertura, invece, per quanto riguarda l’accesso all’Ue: “Entro i prossimi cinque anni potremmo raggiungere i requisiti necessari”.

Intervistato proprio su quest’ultimo punto il 21 aprile scorso da La Repubblica, il premier ucraino Arsenij Yatseniuk aveva constatato come questa ipotesi “abbia causato le offensive di Putin e dei filorussi nell’est dell’Ucraina. La nostra guerra civile ci è costata 1800 soldati e 6000 civili morti dal 2014. Inoltre, i separatisti non stanno rispettando il cessate il fuoco”.

Ma la situazione sta precipitando, a dispetto degli accordi di Minsk, a partire dalla capitale Kiev. Nei giorni scorsi, infatti, tre giornalisti vicini alle posizioni russe, Oles Buzina, Sergej Sukhobok e Oleg Kalashnikov sono stati uccisi. E le reazioni non si sono fatte attendere. Se Vladimir Putin ha bollato i fatti come “omicidi politici”, molti oligarchi e personaggi pubblici ucraini hanno incredibilmente festeggiato di fronte a questa notizia.

Giacomo Pratali

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Migranti: vertice Renzi-Ban Ki Moon

Difesa/EUROPA/POLITICA di

Il premier italiano in pressing sul Segretario Generale Onu per un’operazione di polizia internazionale contro i barconi provenienti dalla Libia.

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“Fermare i trafficanti di esseri umani per evitare una catastrofe umanitaria è un’assoluta priorità su cui contiamo di avere il sostegno delle Nazioni Unite”. Si è espresso così il premier italiano Matteo Renzi nel vertice a tre con il segretario Onu Ban Ki Moon e l’alto rappresentante dell’Ue Federica Mogherini, insignita del mandato esplorativo per constatare se ci siano le condizioni o meno per un intervento militare contro i barconi. L’incontro, avvenuto a bordo della nave S. Giusto nel Canale di Sicilia, si è svolto dopo il Consiglio Europeo straordinario di giovedì 23 aprile.

La strage di migranti e i molti sbarchi previsti nei prossimi mesi (già 25mila persone sono arrivate in Italia dall’inizio del 2015) hanno reso questo incontro necessario. Soprattutto, dopo l’aumento dei fondi destinati all’operazione Triton, Renzi ha cercato di spingere, con il sostegno di partner come Francia, Gran Bretagna e Spagna, sulla questione dei respingimenti, in una sorta di “operazione di polizia internazionale” che vada a distruggere i barconi e catturi gli scafisti.

Sul luogo dell’incontro, scelto dal Primo Ministro italiano per fare “vedere fisicamente e plasticamente a Ban Ki Moon che cosa sta facendo l’Italia”, il Segretario Generale ha affermato che “la concentrazione di tutti sia su salvare le vite, inclusa l’area libica delle operazioni di ricerca e soccorso”, ma “la sfida” è “anche assicurare il diritto all’asilo del crescente numero di persone che in tutto il mondo scappano dalla guerra e cercano rifugio”.

Mentre sulla Libia, ha ribadito che”non ci sono alternative al dialogo. Il mio Rappresentante speciale, Bernardino Leon, e la sua squadra continuano a lavorare in maniera instancabile con le parti libiche coinvolte, per aiutarle ad arrivare insieme ad uno spirito di compromesso”, conclude Ban Ki Moon.

Giacomo Pratali

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Libia: Massolo, necessaria azione politica a guida internazionale

EUROPA di

Queste le conclusioni del convegno “Il conflitto in Libia e la stabilità del Mediterraneo: strategie interne ed esterne”

“Agevolare la costituzione di un governo sentito come proprio dai libici stessi”, “lavorare con le fondamenta di questa società, ovvero le tribù” e “limitare le attività migratorie e di tipo terroristico”. Con queste frasi, pronunciate a conclusione del proprio intervento dall’Ambasciatore Giampiero Massolo, Direttore Generale del Servizio Informazioni per la Sicurezza, si possono riassumere le conclusioni del convegno “Il conflitto in Libia e la stabilità del Mediterraneo: strategie interne ed esterne”, organizzato dal Centro Studi Roma 3000 e svoltosi presso il Circolo Ufficiali Forze Armate a Roma giovedì 23 aprile. Ad aprire i lavori è stato lo stesso presidente del Centro Studi Alessandro Conte, mentre gli intervenuti al dibattito sono stati Pino Scaccia, giornalista e già inviato del Tg1, Andrew Spannaus, analista di politica internazionale e Direttore di Transatlantico, Alessandro Forlani, ex parlamentare e Presidente della Commissione Studi di Geopolitica del Centro Studi Roma 3000. A moderare la discussione, Francesco De Leo, giornalista e Direttore di Oltreradio.

La necessità di una soluzione politica e non militare è stato il leitmotiv che ha contraddistinto gli interventi. Nella parte dedicata al “Mediterraneo e le sfide alla sicurezza”, l’Ambasciatore Giampiero Massolo ha delineato un nuovo quadro geopolitico per gli Stati africani e mediorientali: “In termini di sicurezza, si sono moltiplicate le zone fuori controllo: i confini da stato a stato sono divenuti porosi, i gruppi armati si sono moltiplicati, è avvenuta una commistione tra attività criminale e attività terroristica. Questo ha portato a due conseguenze. Per prima cosa – prosegue -, la regionalizzazione di Al Qaeda, ancora più parcellizzata dalla nascita delle varie Ansar locali. In più, con la cronicizzazione dei conflitti in aree come Iraq e Siria, è venuto fuori il Daesh, conosciuto come Isis, un’organizzazione che ha avuto l’ambizione, fin da subito, di farsi Stato o, meglio, Califfato. È una minaccia nuova perché è una sfida asimmetrica, che vede un’organizzazione contro organismi statuali già esistenti, e al contempo simmetrica, dato che, avendo l’ambizione di divenire Stato, riceve finanziamenti e commercia petrolio. Inoltre, è un’organizzazione che è riuscita ad utilizzare a proprio vantaggio il nostro modello di propaganda mediatica e marketing”.

Per capire il caso e caos libico, occorre un’analisi globale del mondo islamico e una distinzione tra lotta per il predominio nel contesto sunnita e quella tra gli stessi sunniti e gli sciiti. Partendo da questo assunto, “la Libia – afferma il Direttore Generale del Servizio Informazioni per la Sicurezza – si inserisce in un contesto emblematico per tre motivi. Il primo è che il luogo dello scontro tra gli Stati che concepiscono l’Islam come politico (Qatar, Turchia) e Stati che non hanno questa visione (Egitto, Arabia Saudita). Il secondo riguarda lo scenario interno, ovvero prendere in considerazione non solo le tribù, ma anche nuove formazioni, come le milizie di Misurata, nel futuro assetto politico del Paese. Il terzo, infine, il conflitto terroristico, in cui i protagonisti sono lo Stato Islamico e Ansar Al-Sharia. Senza considerare questi tre livelli, rischiamo di travisare il fenomeno Libia”, conclude l’Ambasciatore Massolo.

Nell’analisi sulla “Libia, prima e dopo Gheddafi, le responsabilità occidentali nell’islamizzazione dell’area”, Pino Scaccia tratteggia, in qualità di testimone sul campo, i tratti salienti della parte finale del regime del Colonnello: “Fino a quando Gheddafi è rimasto al potere, la Libia è sempre stato un Paese laico e, anche se la gente non navigava nell’oro, non c’era disperazione. Tuttavia, esisteva il problema delle risorse: infatti, la rivalità storica tra Cirenaica e Tripolitania era acuita dal fatto che la prima avesse le risorse petrolifere, ma era la seconda a dettare legge in campo economico”.

E ancora: “Sono stato ospite cinque volte di Gheddafi. Nel suo ultimo periodo, aveva riacquistato credibilità internazionale ed era riuscito a rilanciare il turismo grazie anche all’aiuto degli americani. In più, non si faceva più chiamare “colonnello”, ma “fratello leader”. Quando gli chiedevo cosa significasse per lui la democrazia e come mai, nonostante parlasse di una Libia libera, il popolo non votasse mai, egli rispondeva che non ce n’era bisogno, che era lui stesso a consultarsi con i cittadini prima di prendere una decisione. Ovviamente, era tutto una farsa”.

La rivolta del 2011, responsabile della caduta del Rais, è stata di fatto pilotata: “La rivolta è montata nel giro di un anno – dichiara il cronista -. Muri El Mishari, Generale dell’esercito a capo del cerimoniale, è stata la carta vincente per i francesi. Egli si è recato a Parigi nell’ottobre 2010, un anno prima dell’uccisione di Gheddafi, dicendo di dovere fare delle cure mediche: in realtà, non si è più spostato da lì e ha poi condotto la rivolta dall’esterno”.

“Gli Shabab (“giovani”) – prosegue – non avevano i mezzi sufficienti a condurre in porto la rivoluzione e a sconfiggere il regime di Gheddafi: essi ci sono riusciti perché dietro avevano già i jihadisti e i servizi segreti di tutto il mondo. Di fatto, la rivolta è stata guidata dall’Emiro del Qatar, il quale aspira alla creazione di un grande soggetto statuale islamico, e supportata dall’Occidente. A fronte dei 1000 morti che vedevo nel telegiornale, a Bengasi non c’erano spari: questa dicotomia è stata architettata da Al Jazeera, network qatariota, responsabile di avere costruito la rivolta a tavolino. Inoltre, Sarkozy ha voluto probabilmente iniziare la guerra per evitare che si venisse a sapere che Gheddafi era stato uno dei finanziatori della sua campagna elettorale”.

Adesso, la Libia si configura come un rebus per la comunità internazionale, in special modo per l’Italia. Alla minaccia terroristica, le cronache dell’ultimo mese raccontano di un esodo migratorio imponente proveniente da Tripoli e al quale era stato posto rimedio dal “Trattato di Amicizia” tra Italia e Libia, siglato da Berlusconi e Gheddafi: “Quell’accordo è stato spazzato via dalla rivoluzione del 2011 – afferma Scaccia -. Allo stato attuale, non sono a favore di interventi militare o di blocchi navali. L’unica soluzione possibile è un accordo politico con la Libia, ma la sua instabilità istituzionale complica notevolmente questa prospettiva”, conclude l’ex inviato del Tg1.

Nell’analisi della “Libia tra alleanze regionali ed equilibri geopolitici globali”, Andrew Spannaus tratteggia due modus operandi all’interno della comunità internazionale: “Il primo al fianco dei gruppi estremisti, il secondo favorevole all’unità del Paese ed contro i jihadisti. Nel 2010, Parigi diviene la cabina di regia dove viene organizzata la rivolta libica. Anche Obama prende parte al conflitto, convinto dal “right to protect” portato avanti da una parte della sua Amministrazione democratica, e sostenuto da Hillary Clinton. La decisione d’intervenire, benchè la risoluzione 1973 delle Nazione Unite parli di “no fly zone” in Libia, è andata di fatto contro la Costituzione statunitense perché si è trattata di un’azione di guerra di cui non è stato chiesto il permesso al Congresso”.

Il Direttore di Transatlantico delinea le differenti politiche internazionali in gioco: “La politica estera di Obama ha cambiato direzione dopo i casi Siria, dove l’eliminazione di Assad non è più una priorità, e Iran, con il quale è stato sottoscritto l’accordo sul nucleare. Sul fronte arabo, invece, c’è la volontà dell’Arabia Saudita di creare un’unione transnazionale sunnita in chiave anti Iran. Al contempo c’è l’Egitto, partner dei sauditi, che si è messo in una situazione particolare dopo la decisione di Al Sisi di bombardare subito i Fratelli Musulmani. Questo ha causato malumori presso la comunità interazionale. Le Nazioni Unite, infatti, vorrebbero creare una grande alleanza internazionale, mentre l’azione militare egiziana va in direzione opposta”.

Nella prospettiva di un intervento guidato dall’Onu dobbiamo “saper distinguere e poterci fidare dei diversi gruppi con cui siamo chiamati ad interagire e a chi o cosa sono legati. Questo è un grosso ostacolo al nostro intervento in Libia per riportare stabilità. In più, nel mondo cresce il numero dei Paesi che vogliono collaborare con i Brics perché non si fidano più dell’Occidente. Questa nuova condizione potrebbe delinearsi come un’occasione per Stati Uniti ed Unione Europea”, precisa Spannaus.

Le conclusioni dei lavori, affidate alle parole dell’ex parlamentare e presidente della Commissione Studi di Geopolitica Alessandro Forlani, riguardano il possibile piano d’azione odierno, ma anche le lezioni che possiamo trarre dal passato: “Io, visto la generazione a cui appartengo, non ho un ricordo favorevole di Gheddafi. Dall’espulsione traumatica di molti connazionali non militari, passando per gli attentati e le uccisioni a Roma dei dissidenti, fino ad arrivare al caso di Ustica e alle incursioni economiche nelle nostre industrie e partecipate statali. Tuttavia, questo era un regime di enorme importanza strategica per l’Italia: basti pensare, ad esempio, all’Eni, arrivata in Libia prima che il Rais salisse al potere”.

“È evidente – ribadisce l’Onorevole – che sia avvenuta una forzatura nella ribellione del 2011 per indurre le potenze occidentali ad intervenire. Il caso libico, così come l’Iraq, ci insegna che l’abbattimento di una dittatura, mediante l’intervento della comunità internazionale, deve portare con sé la previsione di un nuovo gruppo dirigente che sostituisca il vecchio regime. È chiaro che i due governi presenti adesso non esauriscono le componenti politiche e tribali del Paese. La Libia è uno Stato disgregato che sta purtroppo seguendo le orme della Somalia”.

Il contesto politico-istituzionale libico pongono l’Italia e l’Unione Europea di fronte ad una sfida complicata: “L’Europa deve mettere in campo un apparato repressivo, sul modello di quanto avvenuto con la pirateria, e un piano di aiuti verso i rifugiati. Tuttavia, questi tipi di intervento possono essere fatti solo se dall’altra parte c’è un interlocutore istituzionale chiaro e affidabile. Va rafforzata, quindi, l’azione portata avanti in questi mesi da Bernardino Leon per la costituzione di un governo di unità nazionale. Il processo di un accordo tra le diverse componenti del mondo islamico e della comunità internazionale sarebbe necessario, ma richiede troppo tempo. Fino da oggi ritengo che sia necessaria una presenza in loco in aiuto ai migranti”, conclude Forlani.

Giacomo Pratali

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