GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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REGIONI - page 108

Turchia, 28 morti per l’attentato al”aeroporto di Instambul

EUROPA di

Almeno 28 morti e 60 feriti nell’attacco terroristico avvenuto nell’aeroporto Ataturk di Istanbul alle ore 22 locali. Il ministro della giustizia Bekir Bozdag ha dichiarato alla CNN che i tre attentatori hanno aperto il fuoco con fucili Kalashnikov per poi farsi esplodere nei pressi del terminal internazionale.           Gli ingressi e le uscite dell’aeroporto sono state immediatamente chiuse, i voli in partenza sono stati cancellati, alcuni voli in arrivo sono stati dirottati e l’aeroporto resterà chiuso fino alle ore 20 del 29 giugno.

L’attacco terroristico arriva inun momento in cui la Turchia sta avviando pratiche diplomatiche per normalizzare i rapporti con Russia e Israele; i Paesi sono anche in alleanza contro la lotta all’IS che sta minacciando i confini turchi. La Turchia ha inoltre recentemente provveduto a cambiare alcune delle sue regole militari di ingaggio per permettere alla NATO di effettuare più voli di pattugliamento lungo il suo confine con la Siria settentrionale.

La svolta a destra dell’Argentina

AMERICHE di

I primi sei mesi di presidenza Macri hanno segnato una svolta nella storia dell’Argentina. Dopo 12 anni di governo dei coniugi Kirchner di ispirazione peronista, l’Argentina ha effettuato una netta inversione di rotta sia sotto il profilo della politica interna, che della sua posizione a livello internazionale. Dopo aver vinto le elezioni il 22 novembre 2015, Mauricio Macri ha intrapreso una serie di riforme in netto contrasto con le politiche adottate dai suoi predecessori.

In primo luogo, il governo Macri ha adottato una serie di misure volte ad alleggerire le spese sostenute dallo Stato in campo sociale. Le misure in questione, tra cui l’eliminazione dei sussidi sul prezzo dei trasporti pubblici, sull’energia e la benzina ed il licenziamento di parte dei dipendenti pubblici, hanno sollevato malcontento in buona parte della popolazione. D’altro canto, va sottolineato come il governo abbia ridotto le imposte per le imprese, incentivando le esportazioni dei principali prodotti del Paese: grano, mais, carne, prodotti minerari. Una delle ultime proposte di legge avanzate dal governo riguarda la modifica del sistema elettorale, che andrebbe ad includere la sostituzione del voto cartaceo con quello elettronico. L’intento dichiarato del Presidente è quello di promuovere la modernizzazione e la ripresa economica del Paese. Un’altra misura di importanza storica per il Paese è stato il raggiungimento di un accordo con i creditori esteri per il pagamento dei debiti contratti ed in cambio ottenere nuovamente fiducia sul mercato internazionale in modo da poter ricominciare a finanziarsi emettendo titoli di Stato. A ciò si aggiunge una politica di forte attrazione degli investimenti esteri.

Non vi è dubbio che le misure di riconciliazione con i creditori esteri abbiano avuto un immediato impatto sulle relazioni del Paese sudamericano con Stati Uniti ed Europa. Si è infatti verificato un significativo riavvicinamento con questi Paesi, coronato da una visita ufficiale del Presidente Obama dopo 20 anni di allontanamento tra i due Paesi, ma anche del presidente del consiglio Matteo Renzi, e François Hollande. La nuova collocazione dell’Argentina sul piano internazionale ha incluso un allontanamento dai suoi precedenti alleati: il Venezuela e la Russia. Una delle sfide che si propone di realizzare Macri dal punto di vista della politica estera è quella di rilanciare il Mercosur ed il libero scambio in America Latina, nonché aprire nuove opportunità commerciali verso l’area del Pacifico.

Occorre, tuttavia, menzionare il rapporto di freddezza che si è sviluppato tra il nuovo governo argentino ed il Vaticano, anche se non si tratta di una completa novità rispetto ai precedenti rapporti che Bergoglio intratteneva con i Kirchner. Il 9 giugno l’associazione Scholas Ocurrentes, una fondazione pontificia che ha aperto scuole in Argentina e nel Mondo, ha rifiutato su ordine del Papa di ricevere la donazione di 16 milioni di pesos fatta dal presidente Macri. Il Papa ha motivato il suo rifiuto dicendo che l’associazione deve stare attenta a non cadere nella corruzione. Il gesto compiuto dal Presidente è stato, infatti, interpretato dal Papa come un escamotage per migliorare le relazioni con la Santa Sede. La risposta pubblica di Bergoglio è stata che “Il governo argentino deve far fronte a tante necessità del popolo, così che i dirigenti della fondazione non sono in diritto di chiedergli nemmeno un centesimo”. La Casa Rosada è rimasta stupita visto che la cifra era stata richiesta dalla stessa fondazione per far fronte a delle spese amministrative. Macri ha inoltre evidenziato come il sostegno a Scholas Ocurrentes sia stata una linea comune al precedente governo di Cristina Fernández de Kirchner. Il Papa sembra piuttosto aver voluto lanciare un messaggio al Presidente sul fatto che le loro relazioni potranno migliorare se questi adotterà un altro tipo di approccio fondato sul dialogo e sull’attenzione alle necessità delle classi più deboli del Paese.

La svolta dell’Argentina si inserisce in un più ampio contesto latinoamericano che sembra preannunciare la fine della stagione dei governi socialisti che hanno avuto largo sostegno dall’inizio degli anni 2000. Il governo argentino non potrà in ogni caso rinnegare totalmente il lascito del Kirchnerismo e la volontà del popolo di non rinunciare alle importanti conquiste sociali ottenute nell’ultimo decennio.

 

di Elena Saroni

BREXIT, The day after

EUROPA di

Il voto sulla Brexit del 23 giugno costituisce una sorta di elettroshock nel processo di integrazione europea, che, sia pure tra rallentamenti, stop and go e sensibili contraddizioni, non ha mai smesso di procedere verso gli obiettivi fissati dai padri fondatori.   Questo complesso cammino aveva subìto già un vulnus di una certa rilevanza, con la mancata approvazione del Trattato Costituzionale di Roma, nei referendum popolari di Francia e Paesi Bassi della tarda primavera del 2005. Parziale rimedio fu costituito, poi, dal Trattato di Lisbona del 2007.

Ma questa volta gli effetti, politici, prima ancora che economici o giuridici, appaiono ancor più dirompenti.

Per la prima volta, uno Stato sovrano lascia l’Unione.   Una possibilità contemplata dall’ordinamento comunitario, ma finora mai sperimentata, tanto che si era ormai ingenerata una sensazione di irreversibilità della scelta di adesione di un singolo paese. E parliamo poi, nel caso di Brexit, di un paese importante, una grande potenza.   Oltre quarant’anni fa, pochi giorni prima di un altro referendum britannico, quello del 5 giugno 1975, indetto per convalidare o annullare l’allora recente adesione alla Comunità Europea, Alberto Ronchey, sul Corriere della Sera (31 maggio 1975), sottolineava come al di fuori di quello che allora si chiamava il MEC, l’Inghilterra era “un mercato angusto, un muro tariffario la separava dell’Europa” e come versasse in quel momento nella crisi economica peggiore degli ultimi trent’anni, da quando cioè aveva vinto la guerra, ma perduto il suo Impero coloniale.   Dopo trent’anni di faticosa transizione dall’economia imperiale a quella competitiva, i fautori dell’ingresso nella Comunità si aggrappavano all’opzione europea come a un’ancora di salvezza, confidando nella stessa – rilevava sempre Ronchey – come “garanzia contro l’isolamento fra i grandi mercati” e di recupero di slancio competitivo.   E ancora oggi, gli operatori economico-finanziari credono all’Europa come ineludibile opportunità per il Regno, come ha dimostrato la decisa opzione anti-Brexit dell’establishment e degli ambienti della City.

Ma nella popolazione sono prevalsi gli impulsi di fuga, di isolazionismo, di recupero della piena sovranità nazionale, nonostante tutti gli appelli degli europeisti e del premier Cameron che evocavano i rischi di regressione in termini di opportunità, di formazione dei giovani e di welfare.     Difficile, dunque, cogliere le motivazioni della vittoria di “leave”, in presenza di tante controindicazioni e senza grandi vantaggi evidenti.   Si avverte la sensazione di un disagio profondo, di una sfiducia crescente, di una mancata immedesimazione nel disegno europeista che ha radici psicologiche ed emotive, ma non per questo meno importanti e meritevoli di un’analisi attenta.   Uno stato d’animo che non investe soltanto quella che è stata per secoli la più prestigiosa potenza marittima e commerciale, ma pervade tutta l’area comunitaria, paesi con storie e tradizioni molto diverse e con diversa “anzianità” di appartenenza all’Unione, o alle comunità che l’hanno preceduta.   L’esito del voto costituisce un campanello d’allarme, rispetto a un’insofferenza diffusa nei confronti del disegno di integrazione, non tanto sotto il profilo dell’ideale, quanto rispetto al concreto svolgimento storico del disegno stesso, almeno con riguardo agli ultimi quindici-venti anni.

Una progressiva insoddisfazione che ha ingenerato diffidenza anche nelle forze tradizionalmente favorevoli all’Europa e ha alimentato la diffusione di movimenti contrari all’integrazione, incrementandone i consensi.   Burocratizzazione delle istituzioni di Bruxelles, direttive troppo invasive e vincolistiche, percepite come eccessive compressioni delle sovranità nazionali (di prassi ormai, la giustificazione di politici di livello nazionale, rispetto a misure contestate o impopolari: “ce lo chiede l’Europa !!”), oneri spesso ritenuti difficilmente sostenibili per i singoli paesi membri.   A fronte di tutto questo, l’incapacità e l’inconcludenza, rispetto ai temi che veramente, nell’immaginario collettivo, dovrebbero ascriversi alle competenze di istituzioni comunitarie sovranazionali, come la politica estera, la sicurezza, la difesa comune, le politiche sui flussi migratori, il completamento dell’unione bancaria e la garanzia sui depositi.   Carenze, esitazioni, divisioni e contraddizioni, coperte da reiterate ed estenuanti riaffermazioni retoriche sempre meno convincenti, che hanno smorzato nei cittadini europei l’ideale comunitario e offerto nuove motivazioni a quelle forze populiste e nazionaliste. Motivazioni che i vertici europei hanno a lungo sottovalutato o evitato di approfondire tempestivamente. Le forze antieuropee ora raddoppiano il loro vigore, chiedono nuovi referendum, cercano di solcare tempestivamente la scia lasciata dalla svolta britannica.

Dalla Francia, dove riprende vigore il lepenismo, dopo la sconfitta nelle elezioni regionali, in vista delle politiche del prossimo anno, ai Paesi Bassi, fino all’Ungheria di Orbàn, alla Polonia guidata dal partito di Kakzynski, alle repubbliche ceca e slovacca.   Con l’incognita delle imminenti elezioni in Spagna e gli entusiasmi emulativi di Salvini a casa nostra.   Emerge poi prorompente il destino della Scozia, in cui prevale l’opzione europea e si profila dunque un contrasto che investe il tema dell’unità del Regno. La risposta dei fautori dell’Europa deve mostrarsi equilibrata, scevra di animosità verso gli “uscenti” – e questo mi è parso emergere dalla dichiarazione congiunta rilasciata, a caldo, dai presidenti delle quattro istituzioni centrali europee – univoca nelle finalità e nelle priorità.     E soprattutto la palla deve essere rimessa in campo dai paesi fondatori, cui spetta, moralmente, l’indicazione di un nuovo percorso, più bilanciato sull’integrazione politica, sulla coesione sociale, sulla solidarietà e la crescita, sul superamento delle diseguaglianze

Il viaggio di EA nell’Europarlamento, tra sanzioni alla Russia e lotta ai monopoli

EUROPA di

Bruxelles – Sono giorni concitati per l’Europa. Una tempesta si sta abbattendo sull’Unione europea: la Gran Bretagna ha deciso il suo destino con un voto storico, rifiutando l’Ue, le sue istituzioni, i suoi politici. Brexit l’hanno chiamata, e pare aver cambiato le carte in gioco all’interno dell’Ue. Dopo il voto di venerdì, il distretto comunitario, con i palazzi di vetro che s’innalzano nel cuore pulsante della capitale belga, ha tremato. Ancora una volta. Ma si sa, l’apparenza inganna. Durante i giorni precedenti al voto, nei trafficati corridoi del Parlamento europeo la vita scorreva tranquilla. Non si avvertiva particolare tensione per il referendum di Londra. Le sedute, i lavori parlamentari, tutto è andato liscio.

europarlamento2I palazzi delle istituzioni comunitarie, che sovrastano Bruxelles, sono una città nella città. Ermeticamente chiusi all’interno di controlli serrati, risultano macchine burocratiche complesse da comprendere. “Per ambientarsi nei corridoi dell’Europarlamento, e per capire a pieno come funziona l’istituzione, ci voglio anni”, ci spiega Manuela Conte, addetto stampa del Partito popolare europeo.

E proprio tra i corridoi, del Parlamento europeo, nei giorni precedenti al referendum britannico, che abbiamo incontrato Stefano Maullu, europarlamentare di Forza Italia, aderente al Ppe. . “Credo che la fuoriuscita del Regno Unito faccia male a tutti.- ha spigato Maullu a European Affairs – E se la Bce è attrezzata per attenuare eventi di questo genere dal punto di vista finanziario, non lo è l’Unione europea nella sua interezza e quindi saranno necessari tempi molto lunghi per una definitiva uscita della Gran Bretagna dall’Ue”.

Il presunto monopolio di Tirrenia

maullu1Nelle settimane scorse l’On. Maullu ha depositato un’interrogazione rivolta alla Commissione europea, chiedendo di attivarsi contro atteggiamenti di abuso della posizione dominante sul mercato interno. Nello specifico, ha fatto riferimento al Gruppo Onorato che, già proprietario di Moby Lines, nel 2012 ha acquisito la totalità della Compagnia Tirrenia, diventando, secondo Maullu, la prima compagnia di navigazione italiana per le rotte nel Mediterraneo.

“Credo che il problema delle isole sia un problema enorme – ha spiegato l’europarlamentare – per quanto riguarda l’Italia. In questo caso il competitor da e per la Sardegna non esiste, perché esiste una compagnia che ha acquistato Tirrenia, ma che è anche proprietaria anche di un’altra società di navigazione. E, quindi, ad oggi abbiamo quasi un monopolio di fatto. Questo tema è stato affrontato anche dall’Authority italiana che ha già notificato la posizione di abuso di posizione dominante alla compagnia Onorato e di cui si aspetta di verificare l’esito della controversia. L’importanza di un mercato più effervescente emerge soprattutto nei mesi estivi come sottolinea Maullu durante i quali le poche corse e i costi alti penalizzano l’economia regionale. “E così si arriva ad una concezione quasi di blocco economico totale perché chi non ha le risorse economiche per poter entrare e uscire dalla Sardegna – dice l’On. Maullu – e si trova costretto ad affrontare un danno economico rilevante. Inoltre, tutto ciò determina un vantaggio per un armatore che, d’altro canto, ottiene un beneficio di una serie di contributi da parte dello Stato, dato che la Tirrenia è finanziata ancora con la vecchia legge.”

Fusione Wind-H3G

Non sono solo i trasporti a meritare l’attenzione della Comunità Europea ma anche le Telecomunicazioni che stanno affrontando in questi mesi una delle più importanti operazioni di acquisizione degli ultimi dieci anni, la fusione tra Wind del gruppo Russo Wimpelcom e H3G dei cinesi di Hutchinson Wampoa.

“Tutto ciò che diventa competizione, a patto che le regole siano rispettate, credo che debba essere visto con grande favore” – ha sottolineato Maullu – “ma se questo si traduce nella creazione di monopoli di mercato diventa un problema. Quello delle telecomunicazioni mi pare uno dei settori più vivaci, anche perché la tecnologia aiuta la comunicazione e il trasferimento di relazioni, competenze e dati. E quindi aiuta gli scambi a trecentosessanta gradi. “

La petizione contro le sanzioni a Mosca

Altro tema importante quello delle sanzioni che la Comunità Europea ha dimposto nei confronti della Russia e delle quali a Luglio il COREPER tornerà a discutere per una eventuale proroga ed è proprio su questo tema che abbiamo chiesto all’On. Maullu qual è la sua posizione.

“Io sono componente della delegazione Unione Europea- Russia – ha risposto il parlamentare europeo – e credo che le sanzioni siano un danno enorme per il nostro Paese che vive di export e di prodotti di nicchia. Da questo punto di vista le sanzioni ci hanno penalizzato in maniera incredibile a partire dal settore delle calzature fino al manifatturiero. Quelle contro la Russia sono sanzioni anacronistiche e soprattutto sono imposte dagli Stati Uniti e chi paga il peso di tutto ciò è non solo l’Unione Europea globalmente e anche l’Italia in particolare. “

 

Di Fabrizio Ciannamea

 

Brexit, la Gran Bretagna si prepara ad uscire dalla comunità dopo il voto di ieri

EUROPA di

La vittoria del si all’uscita dalla comunità europea ha provocato un terremoto finanziario che le borse non sono riuscite a contrastare.

Le dichiarazioni del vertice della comunità europea non sono riuscite a calmare le acque che molti analisti sostengono saranno agitate per molto tempo.

Le modalità di uscita dalla comunità non sono immediate ed è proprio l’incertezza che si svilupperà in attesa del momento fatidico alimenterà la crisi.

“In un processo libero e democratico i cittadini britannici hanno espresso il loro desiderio di lasciare l’Unione europea – hanno dichiarato Jumker e Rutte in una nota congiunta diffusa nella mattinata di oggi – ci rammarichiamo per questa decisione, ma la rispettiamo.

Le istituzioni si trovano davanti ad una situazione senza precedenti nella storia della Comunità Europea, ma si atterranno alle modalità di uscita concesse dall’articolo 50 del trattato sull’unione. La Gran Bretagna resterà nella commissione fino al momento in cui termineranno le procedure di uscita

Dalla commissione Europea L’Europarlamentare Maullu di Forza Italia ha dichiarato nella mattinata che “Non c’è nulla di cui esultare. Ieri ha vinto l’egoismo nazionalistico di poter fare meglio da soli, chiudendosi in una visione politica senza futuro. “

“È vero, l’Europa ha compiuto degli errori e la Germania – continua la sua dichiarazione – ha grandi responsabilità al riguardo. La politica del rigorismo non ha garantito quella crescita e ripresa economica che aveva promesso, ma al contrario ha generato un clima di sfiducia, indebolendo quel sogno di grande Europa in cui io credo fermamente.”

La politica del rigore a cui si riferisce l’Onorevole ha sicuramente avuto l’effetto di bloccare la crescita economica in un momento storico e politico in cui era più necessaria.

L’auspicio di Maullu è quello di riuscire a ripensare un nuovo modello di Unione Europea che abbia una maggiore stabilità e sicurezza economica.

 

Nessun incontro tra Rivlin e Abbas, entrambi a Bruxelles

EUROPA di

Non c’è stato alcun incontro bilaterale tra il presidente israeliano Reuven Rivlin e quello dell’Autorità nazionale palestinese Mahmud Abbas. Entrambi i leader in visita ufficiale a Bruxelles per dialogare con i vertici Ue riguardo lo stallo del processo di pace in Terra Santa.

“Ero contento dell’iniziativa lanciata dai rappresentanti europei di fissare un incontro con il Presidente Abbas” – ha detto ieri Rivlin – “Che in queste stesse ore si trova come me a Bruxelles. Mi è dispiaciuto che abbia rifiutato. Non saremo in grado di costruire la fiducia tra le due parti se non iniziamo a parlarci in modo diretto”.

“Noi siamo favorevoli ad un accordo riguardo i due Stati. In questo momento, però, le circostanze geopolitiche per raggiungerlo non ci sono”, ha spigato il presidente israeliano, prendendo la parola nell’emiciclo dell’Europarlamento.

“No” ai nuovi negoziati di pace chiesti da Parigi

“Il tentativo della Francia di creare un tavolo negoziale non è la giusta soluzione. Cercare di trovare una soluzione permanente adesso è impossibile. Se la comunità internazionale vuole davvero diventare attrice costruttiva sui negoziati, dovrebbe cercare di creare più fiducia fra le due parti, creando i presupposti per i negoziati”.

 

Sicurezza ed investimenti

“Per creare i presupposti di pace è necessaria una leadership palestinese unica e forte. E, purtroppo, oggi al suo interno si cela anche Hamas. E con loro non possiamo dialogare – ha continuato Rivlin- Inoltre, è necessario che in Palestina si crei una infrastruttura economica stabile. E in questo è fondamentale il ruolo dell’Europa che dovrebbe investire di più in Giordania e Sammaria, in modo da aumentare l’occupazione palestinese e diminuire le differenze tra i nostri due popoli. Ritengo, che l’economia in Palestina si possa sviluppare anche con investimenti comuni tra israeliani e palestinesi attraverso joint venture, nel turismoe nelle energie rinnovabili”.

La questione dei confini

“Attualmente l’instabilità dei nostri confini non ci permette di essere completamente sicuri. Pensate ad Hezbollah. Lo stesso per quanto riguarda la Cisgiordania e la Sammaria. Noi stiamo facendo sforzi per la stabilità in questi territori, anche mettendo in gioco la nostra stessa sicurezza”.

La mancanza di fiducia degli uni con gli altri

“Bisogna considerare che esiste, tra israeliani e palestinesi, tra politici e popolazione, mancanza di fiducia. Eppure noi siamo favorevoli alla soluzione dei due Stati dal 1993 con l’accordo di Oslo, come abbiamo ribadito più volte nelle Knesset”.

Le condizioni per l’accordo

“Per noi è fondamentale la cooperazione con Egitto e Giordania. – ha concluso Rivlin – La comunità internazionale deve evitare qualsiasi attacco contro di noi. E’ necessario oggi trovare una soluzione per Gaza, dove 1 milione e mezzo di abitanti è sotto ricatto di Hamas. La pace si fa tra i leader, ma si esegue tra le popolazioni. Se l’Europa è interessata a tutto ciò dipende dalle vostre volontà”.

Di Fabrizio Ciannamea

 

 

 

Brexit: un test sull’Europa?

EUROPA/POLITICA di

La campagna già intensa ed accesa sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea ha assunto connotati di cupa tragedia, con il barbaro delitto di cui è rimasta vittima la giovane deputata laburista ed europeista Jo Cox.   Il sangue innocente di una coraggiosa paladina dell’ideale europeo alimenta, da un lato, la carica emotiva che accompagna la consultazione referendaria, dall’altro dovrebbe indurre i sostenitori delle opzioni contrapposte a recuperare serenità di analisi e di giudizio.   Credo che, innanzitutto, debba essere sgomberato il campo dalle tinte fosche e dagli atteggiamenti ritorsivi che, pure, hanno contrassegnato, in ambito internazionale, la polemica sulla Brexit.

Come ci ha recentemente ricordato un esperto del calibro di Enzo Moavero Milanesi (Corriere della Sera del 17 giugno scorso), la Gran Bretagna ha sempre rivestito una sorta di “status” particolare, all’interno dell’Unione Europea.   Patria dell’euroscetticismo, è rimasta fuori dall’Unione monetaria, dal sistema Schengen sulla libera circolazione, da taluni vincoli in materia di diritti fondamentali e di giustizia. La sua resistenza alle forme più stringenti di integrazione non le ha tuttavia impedito di concorrere ai notevoli passi in avanti compiuti dai paesi europei nella prospettiva dell’unione politica, nell’ultimo quarto di secolo. E, come la campagna referendaria ha reso evidente, buona parte della sua popolazione, che forse giovedì si rivelerà la maggioranza, crede nella prospettiva dell’integrazione europea.   Pur dosando con attenzione il suo consenso, rispetto alle decisioni comuni e caratterizzandosi, in genere, nel contrasto delle politiche più restrittive delle sovranità nazionali, la Gran Bretagna partecipa alla politica estera e di sicurezza dell’Unione e costituisce una risorsa essenziale, ai fini di consolidare il ruolo dell’Europa nei delicati scenari globali.   Trovo dunque condivisibili gli appelli diffusi contro l’opzione Brexit, ma non gli accenti vagamente ritorsivi ed intimidatori che sembrino precludere nuovi accordi e trattati con il Regno Unito o gravi ripercussioni economiche e commerciali.

Proprio così si rafforzano nell’opinione pubblica britannica, a mio giudizio, le inclinazioni più ostili all’Europa.   Come rileva puntualmente Moavero nell’articolo citato, in caso di vittoria dei fautori della Brexit, la successiva adesione del Regno Unito allo Spazio Economico Europeo (SEE) e la rinnovata sottoscrizione degli accordi commerciali di cui ora è parte, quale membro UE, attenuerebbero sensibilmente i rischi di ricadute economiche negative.   Ancorché drammatizzare e intimidire, occorrerebbe sottolineare gli effetti benefici della permanenza del Regno nell’Unione.   Per l’uno e per l’altra.   Perché, se è vero, come ha rilevato il premier Cameron, che il suo paese perderebbe taluni benefici e opportunità – soprattutto in termini di welfare -, è altrettanto vero che, per la prima volta, in caso di Brexit, un Paese membro lascerebbe l’UE, creando un precedente che potrebbe rivelarsi contagioso.

In uno scenario in cui si rafforzano i populismi e i neonazionalismi antieuropei e sembra crescere l’insofferenza verso vincoli e oneri derivanti dall’appartenenza all’Unione – basti pensare al tema della gestione dei flussi migratori – si potrebbe innescare una deriva disgregativa dagli esiti imprevedibili.   Ci ritroveremmo un’Europa “a porte girevoli”, in cui si entra e si esce, a seconda delle opportunità e del gradimento delle politiche comunitarie.   Tale condizione favorirebbe, forse, la tendenza a promuovere le cosiddette “cooperazioni rafforzate” e a stimolare nuclei ristretti di paesi di più sicura “osservanza” europeista a realizzare modelli di più stringente integrazione, soprattutto su temi centrali, sotto il profilo politico, come le relazioni internazionali, la sicurezza e la difesa, i flussi migratori, la giustizia, i diritti civili, il welfare. Ma le “porte girevoli” determinerebbero anche una condizione di permanente precarietà del processo di integrazione, la possibilità di disertare in qualsiasi momento le intese intercorse e le obbligazioni assunte, poteri decisionali sempre più sbilanciati a favore degli Stati nazionali – , pronti magari a minacciare l’uscita, in caso di dissenso dalle politiche comuni – rispetto a quelli delle istituzioni comunitarie.

In definitiva, un cammino più incerto e discontinuo che potrebbe allentare il vincolo tra i paesi membri e indurre una condizione di complessiva debolezza dell’Europa nel suo complesso e, forse, dell’intero occidente, rispetto ai giganti emergenti, in particolare la Cina, come ha rilevato in questi giorni il Premio Nobel Shimon Peres.   Più che a un modello di federazione politica, rischieremmo di tendere verso quello della CSI, sorta per conservare una solidarietà tra le repubbliche ex sovietiche e ben lontana, nel suo concreto sviluppo storico, dal disegno di integrazione dei padri fondatori dell’Europa comunitaria.   Per questo il referendum su Brexit, nell’immaginario collettivo, al di là del quesito in se stesso, ha ingenerato la sensazione di una sorta di giudizio universale sulla tenuta dell’Unione.

Il Venezuela verso il referedum revocatorio

AMERICHE di

La crisi economica, politica e sociale del Venezuela si è acuita considerevolmente negli ultimi mesi. L’esasperazione della popolazione che fa i conti tutti i giorni con la scarsità di prodotti alimentari, beni di prima necessità e con un’inflazione che ha raggiunto il 180%, è ormai giunta al culmine. Tutto il Paese è in attesa dell’evento di partecipazione democratica che sembra prospettare un cambiamento di rotta: il referendum revocatorio sul mandato presidenziale di Nicolás Maduro, promosso dall’opposizione lo scorso aprile.

Il Presidente Nicolás Maduro vinse le elezioni nell’aprile 2013, sull’onda di commozione che attraversava il Paese per la recente morte di Hugo Chávez, avvenuta il 5 marzo dello stesso anno. Maduro, pur essendo stato indicato come auspicabile successore da Chávez, non ha mostrato lo stesso carisma del suo predecessore. Se nel 2013 vinse le elezioni ottenendo il 50,61% dei voti, contro un 49,12% del candidato dell’opposizione Capriles Radonski, da quel momento il consenso attorno alla sua figura non ha fatto che sgretolarsi lentamente.Il segno più evidente di tale perdita di consenso, oltre alle numerose manifestazioni dell’opposizione, sono state senza dubbio le elezioni per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale tenutesi lo scorso 6 dicembre. In tale occasione l’opposizione riunita nel MUD (Mesa de Unidad Democrática) ha ottenuto 109 seggi su un totale di 167.

La Costituzione venezuelana, che è stata riscritta nel 1999 sotto la presidenza Chávez, prevede, all’articolo 72, la possibilità di sottoporre ad un referendum revocatorio qualsiasi carica pubblica elettiva una volta trascorsa metà del mandato. Per questa ragione, ad aprile l’opposizione venezuelana ha sottoposto al Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) la richiesta per indire un referendum sulla permanenza in carica del Presidente Maduro. La procedura per organizzare il referendum secondo la legge venezuelana si articola in 4 fasi: la prima consiste nel sottoporre la richiesta al CNE. La seconda fase consiste nel raccogliere le firme dell’1% degli iscritti al registro elettorale di tutto il Paese (197.978 firme) e consegnarla al CNE il quale procede a verificare la validità di tali firme. Il 10 giugno scorso la Presidente del CNE, Tibisay Lucena, ha reso pubblici i risultati del processo di convalida delle più di 1 milione e 900 mila firme presentate dall’opposizione. Sono state ritenute invalide circa 605 mila firme (sostenendo che si tratta di firme ripetute più volte o nominativi riferiti a persone decedute), permettendo comunque all’opposizione di ottenere la convalida di un milione e 352 mila firme (a fronte delle 197.978 richieste). Questo ha permesso al CNE di passare alla terza fase che avrà luogo dal 20 giugno al 26 luglio prossimo e che prevederà la raccolta di almeno il 20% delle firme degli iscritti ai registri elettorali (si tratta di un minimo di circa 3 milioni e 900 mila firme). Una volta completata anche tale fase, potrà essere fissata la data per il referendum revocatorio. Il referendum potrà dunque decretare la fine anticipata del mandato presidenziale se voteranno per la revoca un numero di elettori almeno uguale a coloro che nel 2013 votarono per l’elezione di Maduro.

Nel frattempo la tensione è elevata ed il rischio di scontri tra chavistas e opposizione nel Paese è concreto, tanto che la Presidente del CNE ha invitato le forze politiche a non intraprendere nessun atto di violenza, pena la sospensione del processo di convalida della richiesta referendaria.

L’instabilità del Paese è causata in primo luogo dalla crisi economica provocata dal basso prezzo del petrolio a livello internazionale, il quale rappresenta la principale fonte di sostentamento per l’economia venezuelana. Il Venezuela possiede secondo le stime dell’OPEC le maggiori riserve di petrolio a livello internazionale ed è tra i primi dieci Paesi produttori nel settore. Tuttavia, il Paese non è riuscito a trarre sufficientemente profitto da questa risorsa. Le opposte fazioni politiche si incolpano l’un l’altra della situazione di emergenza in cui versa il Paese. Da un lato l’opposizione ritiene che la crisi sia dovuta alla cattiva gestione del Partito socialista Unito del Venezuela al governo ormai da 17 anni, dall’altro il governo incolpa le élites economiche del Pase di aver volontariamente interrotto la produzione di alcuni beni per far collassare il governo ed indurre la popolazione a preferire un cambio di regime. A tale proposito, Maduro ha spesso parlato nei sui discorsi di una “guerra economica” messa a punto dalle élites locali con il sostegno degli Stati Uniti. Ad aggravare la crisi si è inoltre aggiunto il fenomeno del Niño, una siccità che ha ridotto il funzionamento delle principali centrali idroelettriche del Paese (da cui dipende circa il 70% delle forniture energetiche del Paese). Ciò ha costretto il governo ad imporre un risparmio energetico a tutto il Paese, riducendo per esempio l’orario di lavoro dei dipendenti pubblici.

La prima necessità del Venezuela è oggi ritrovare un clima di conciliazione, un compromesso per il bene collettivo, superare la violenta e cieca opposizione tra sostenitori di forze politiche opposte e sostenere insieme le misure per risolvere i problemi di base del Venezuela: la criminalità, la forte disuguaglianza tra classi sociali, la carenza di servizi pubblici di qualità accessibili a tutti (istruzione e sanità) e la corruzione. La creazione di una classe media più numerosa, attenuando le differenze economiche sociali e culturali tra la popolazione, non solo andrebbe a risolvere il primo ed il secondo problema, ma creerebbe anche le condizioni per attenuare il clima di polarizzazione e violenza nelle posizioni politiche. Infine, dal punto di vista economico una redistribuzione della ricchezza a sostegno della classe media favorirebbe un incremento dei consumi, delle piccole attività imprenditoriali e dunque sosterrebbe la ripresa economica di un Paese che si trova all’orlo del collasso.

Ad oggi il governo di Maduro ha perso il sostegno della maggioranza della popolazione venezuelana e se l’insoddisfazione generale della popolazione non troverà espressione nel referendum revocatorio, vi è il rischio di una sollevazione popolare simile a quella già avvenuta nel 1989 (Il “Caracazo”). Il probabile successo del referendum revocatorio apre dunque la strada al ritorno dell’opposizione al governo dopo 17 anni di chavismo, ma lascia aperte le ferite di un popolo socialmente diviso in blocchi contrapposti. La vera sfida consisterà nel riuscire a sanare questa ferita aperta da tempi immemori.

di Elena Saroni

Generale Mario Parente nuovo direttore dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna Italiana

Difesa/EUROPA di

Assume l’incarico di direttore dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna con nomina del Consiglio dei Ministri Il Generale dell’arma dei Carabinieri Mario Parente, ufficiale di grande esperienza che ha partecipato alla lotta alla Mafia con il giudice Falcone a Palermo.

Dal 2015 vicedirettore dell’AISI ne assume oggi il diretto controllo, Generale dell’Arma dei Carabinieri, laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, avvocato, ha frequentato la Scuola Militare Nunziatella e l’Accademia Militare di Modena. Tra il 1980 ed il 1990 ha ricoperto incarichi di comando territoriale, nell’Arma, a Roma, Palermo, Genova e Bologna.

Dal 1991 nel ROS dei Carabinieri si è occupato del contrasto ai fenomeni di tipo mafioso, al narcotraffico e al traffico di armi, reparto di cui è stato vicecomandante dal 2002.

 

Panama Papers: il Parlamento Europeo istituisce una commissione d’inchiesta

EUROPA di

Con una delibera datata 8 giugno 2016 il Parlamento Europeo ha deciso di istituire una commissione di inchiesta che si occuperà di indagare sul caso “Panama Papers”. Ricordiamo che questi documenti hanno svelato l’esistenza di circa più di 214.000 compagnie offshore elencate dal celebre studio di avvocati panamense Mossak – Fonseca in una lista che include nomi di partecipanti e dirigenti di queste società. Ovviamente il chiaro fine di queste attività erano quelle di nascondere i redditi di facoltosi personaggi alle singole fiscalità di appartenenza, creando così un giro di evasione fiscale per miliardi: euro o dollari che dir si voglia, trattandosi di una lista piuttosto variegata ed eterogenea per provenienza geografica ed attività principale svolta.


In questo lungo elenco figurano moltissimi cittadini europei, con nomi di spicco del mondo della politica, dello sport e anche del cinema. Per il caso italiano basti pensare a Luca Cordero di Montezemolo o Carlo Verdone, tuttavia i nomi presenti non costituiscono forzatamente una partecipazioni in attività atte a frodare la legge, pertanto é giustificata l’azione del Parlamento Europeo che a come obbiettivo quello della chiarezza e quindi di assicurare i colpevoli (reali) alla giustizia. Inizialmente il caso scoperto dall’Associazione Internazionale di Giornalismo investigativo è stato sottoposto all’attenzione della “Special Commettee for Tax Ruling”, ma con la decisione presa l’8 giugno gli approfondimenti della vicenda saranno affidati ad un’apposita commissione d’inchiesta.

Il Parlamento ha scelto 65 membri che entro un periodo di 12 mesi dovranno presentare una relazione chiarificatrice su responsabilità individuali, danni e frodi nei confronti del fisco. Il mandato della commissione d’inchiesta, approvato dall’Aula per levata di mano, è stato concordato giovedì 2 giugno dalla Conferenza dei Presidenti del Parlamento europeo (il Presidente del Parlamento e i leader dei gruppi politici). Tra i punti più importanti del documento approvato troviamo : “indagare circa la potenziale violazione del dovere di leale collaborazione (…) da parte di qualsiasi Stato membro e dei relativi territori associati e dipendenti, purché pertinente all’ambito dell’inchiesta di cui alla presente decisione; a tal fine, valutare in particolare se un’eventuale violazione di questo tipo sia imputabile alla presunta mancata adozione di misure appropriate per evitare l’impiego di veicoli che consentano ai loro titolari finali effettivi di essere celati alle istituzioni finanziarie e ad altri intermediari, avvocati, prestatori di servizi relativi a società e trust o l’impiego di qualsiasi altro veicolo o intermediario che faciliti il riciclaggio di danaro, nonché l’elusione e l’evasione fiscali in altri Stati membri (tra cui l’esame del ruolo dei trust e delle società a responsabilità limitata con un unico socio e delle valute virtuali), tenendo conto nel contempo anche degli attuali programmi di lavoro predisposti a livello di Stati membri e intesi ad affrontare siffatte questioni e ad attenuarne gli effetti”.

Le linee direttive della delibera istitutiva si concludono con la precisazione che questa inchiesta dovrà anche essere creatrice delle “linee guida” per una buona governance fiscale all’interno dei singoli stati membri al fine che queste manovre di elusione ed evasione fiscale non si verifichino in altro modo, riportando così i patrimoni all’interno del territorio UE, e degli stati membri del G20.
da Parigi Laura Laportella

Laura Laportella
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