GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Category archive

REGIONI - page 105

Quando è stata creata e perché MOAB la madre di tutte le bombe

AMERICHE/Difesa di

Una crisi come quella che si sta verificando in questi giorni non si vedeva forse da decenni, due delle più grandi potenze militari si fronteggiano apertamente in medio oriente mentre un secondo fronte per gli americani si apre nel pacifico con la Corea del Nord.

In questo specifico momento il mondo viene a conoscenza della più potente delle bombe convenzionali, la madre di tutte le bombe, come viene definita dagli stessi americani che l’hanno lanciata in Afghanistan.

Questo ordigno fu sviluppato nel 2003 per poterla rendere disponibile durante l’operazione “Iraqi freedom” contro Saddam Hussein, per poterlo mettere sotto pressione e indurlo ad una resa.

L’ordigno è realizzato in alluminio, progettato per esplodere in superfice e non per penetrare in profondità è una “bomba intelligente” con munizioni guidate da GPS. Ha pinne stabilizzanti e giroscopi inerziali per il controllo del pitch and roll.

Pesa ben 10.000 kilogrammi! Il MOAB ha una testata di 8,482 Kg nota come BLU-120 / B, che è fatta di H6 – una miscela di ciclotrimetilene trinitramina, TNT e alluminio. È molto grossa, circa 30 metri di lunghezza con un diametro di 40,5 pollici.

%CODE1%

La reazione dei russi non si è fatta aspettare e secondo “globalsecurity.org” l’11 settembre del 2007, l’esercito russo ha annunciato di aver testato il “padre di tutte le bombe”, la più potente munizione a cielo aperto non nucleare del mondo. I russi hanno detto che è quattro volte più potente del MOAB, anche se ha tecnicamente meno esplosivi (7,8 tonnellate rispetto ai 8 tonnellate del MOAB). Il FOAB si dice che utilizzi esplosivi più efficienti, portando l’equivalente di 44 tonnellate di TNT con un raggio d’azione di 300 metri, pari a quello del MOAB.

 Il MOAB è stato usato nei giorni scorsi per colpire delle postazioni dell’ISIS in Afghanistan. L’operazione è stata diretta per una grotta e i complessi sistemi du tunnel dei terroristi nel distretto di Achin della provincia di Nangarhar.

La bomba è stata caricata su un Hercules C-130 e posizionata in una culla su una piattaforma “airdrop” fino a quando l’intera piattaforma è stata tirata fuori dal piano ad un’altitudine elevata da un paracadute drogue, utilizzato per rallentarlo. Una volta in aria, l’arma è stata liberata rapidamente dalla piattaforma per mantenere il suo slancio in avanti. Le alette della griglia si aprirono per stabilizzarla e guidarla al suo bersaglio.

Focus sull’Estonia: Capitolo 3

EUROPA/POLITICA/Varie di

Le celebrazioni del 60° anniversario della fondazione dell’UE ci danno l’oportunità di parlare nuovamente dell’Estonia – come abbiamo promesso in precedenza – da un punto di vista europeo.

Come abbiamo già detto, l’Estonia deterrà la Presidenza del Consiglio dell’Unione europea nella seconda metà del 2017, a partire da luglio, ereditando qesto compito da Malta. Questo significa che l’Estonia sarà responsabile della definizione delle posizioni del Consiglio, dovendo tenere contestualmente conto degli interessi degli Stati membri e rimanendo neutrale.

L’Estonia agirà in qualità di primo Stato del suo “trio” , in partnership nel 2018, con la Bulgaria e con l’Austria. Abbiamo descritto il “trio” in altre occasioni. Questo compito europeo dell’Estonia terminerà mentre la nazione starà per festeggiare il centesimo anniversario dalla sua fondazione (in effetti, gli Estoni considerano il periodo di appartenenza all’Unione Sovietica come un’occupazione militare; e una buona parte della comunità internazionale riconosce che la loro storia, in qualità di Stato indipendente, non si è mai interrotta durante quel periodo).

c-justus lipsius ilustracka_mensiaMentre l’attività legislativa è normalmente avviata dalla Commissione europea, essa viene negoziata ed adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’UE, che rappresenta i governi degli Stati Membri: i singoli ministri nazionali di ciascun paese si incontrano presso il Consiglio per prendere decisioni a livello politico. La regola più importante è che gli incontri sono presieduti dal Ministro appartenente allo Stato che detiene la Presidenza, e che tale procedura funziona anche a livello di gruppi strategici e di sottogruppi tecnici (i così detti “corpi preparatori“).

Durante la Presidenza, l’Estonia sarà responsabile della conduzione di circa 200 gruppi di lavoro che si riuniranno sia a Bruxelles che a Tallinn, dovendo contestualmente organizzare il lavoro del Consiglio e dei suoi corpi preparatori, sviluppando gli ordini del giorno degli incontri, tentando di raggiungere posizioni condivise tra le differenti opinioni dei delegati, e presiedendo meeting e negoziati. In quanto Stato a capo del Consiglio, inoltre, l’Estonia dovrà difendere la posizione dello stesso Consiglio dinnanzi al Parlamento ed alla Commissione durante appositi negoziati.

Tutte le questioni su cui si focalizza una Presidenza  vengono sempre dal passato; tuttavia ciascuna Presidenza prova generalmente ad aggiungere qualcosa in più, qualcosa di specifico che possa essere ricordato a livello politico e legislativo.

Da fonti ufficiali, apprendiamo che la repubblica baltica si focalizzerà sui singoli mercati digitali, sull’energia, e su una più stretta integrazione con i partner dell’Est Europa. Vorrebbero anche proporre e diffondere soluzioni digitali lungo l’Unione e supportare l’IT nelle differenti politiche dell’UE (come abbiamo detto nel nostro primo intervento, l’Estonia è il paese più evoluto in Europa dal punto di vista dell’information technology).

E’ stato previsto che circa 20 incontri di altro livello si terranno in Estonia, durante il semestre (compresi quelli relativi alla gisutizia, gli affari interni, la sicurezza e la difesa). Inoltre, mentre la maggioranza degli incontri e le riunioni dei gruppi di lavoro avranno luogo a Bruxelles, l’Estonia ospiterà almeno 200 eventi diversi, di differente livello, con un numero atteso di visitatori che si aggira tra le 20mila e le 30mila unità. Così, è un fatto che questo futuro e temporaneo leader dell’Europa incrementerà la sua visibilità nei campi della cultura, dell’economia, dell’information technology, del turismo, della education e della ricerca, sostenendo nel contempo tutte le questioni di interesse, che sono importanti per il popolo estone.The Estonian Permanent Representation to EU

Organizzare la Presidenza significa anche incrementare la capcità dello Stato di dire la sua e di far affermare i propri interessi ed obiettivi in Europa e dovunque nel mondo. Il Governo ha già dichiarato che il semestre non costituirà uno sforzo valido per un’unica occasione, auspicando che il lavoro fatto, ed i relativi investimenti, possano apportare benefici a lungo termine per il Paese.

Questo lavoro strategico parte da lontano. Dal 2012, il Governo di questo paese smart e high tech ha istituito una commissione preparatoria per la Presidenza, presieduta dal Segretario di Stato, cominciando ad assumere e ad addestrare il personale necessario, ed organizzando i citati incontri ministeriali informali e gli altri eventi di alto livello.

Unitamente al Comitato per il Centenario, evento che non è formalmente connesso con la Presidenza, gli estoni hanno preparato il semestre con l’intento di risparmiare tempo, denaro e sforzi, per implementare congiuntamente un programma internazionale per far consocere l’Estonia e la cultura estone nei Paesi stranieri.

Approssimativamente 100 funzionari supporteranno lo staff già insistente presso la Rappresentanza Permanente dell’Estonia presso l’UE a Bruxelles.

Questo dimostra che questo paese altamente tecnologico e specializzato, precedentemente appartenente all’Unione Sovietica, sta giocando adesso un ruolo importante nella sua stessa storia e nelle questioni europee.

Quello che abbiamo tentato di dimostrare con questi articoli di approfondimento è che l’Estonia rappresenta un paese ormai moderno, disponibile ad ospitare istituzioni ed organizzazioni internazionali, aperto ad esperienze politche fondamentali come la Presidenza del Consiglio dell’UE e le celebrazioni del suo centenario dalla fondazione.

Nel prossimo articolo ci concentreremo sulla NATO in Estonia e sulla “NATO estone” vista dalla Russia.

Nel 60° anniversario l’ Europa riparte da Roma

EUROPA di

Il 25 marzo del 1957 sei paesi appena usciti da una guerra sanguinosa si sono impegnati a costruire una unità europea tesa allo sviluppo economico e sociale di un continente.

Dopo sessanta anni nella stessa sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio di Roma si sono riuniti i 27 leader europei per firmare una nuova dichiarazione di intenti, un documento programmatico per i prossimi dieci anni.

20130319_9186“È stato un viaggio di conquiste. Un viaggio di speranze realizzate e di speranze ancora da esaudire”, ha esordito il presidente del Consiglio Italiano Gentiloni “Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Europa era ridotta a un cumulo di macerie. Milioni di europei morti. Milioni di europei rifugiati o senza casa. Un continente che poteva contare su almeno 2500 anni di storia, ritornato di colpo all’anno zero”, ha detto. “Prima ancora che la guerra finisse, reclusi in una piccola isola del Mediterraneo, due uomini, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, assieme ad altri, sognavano un futuro diverso. Un futuro senza guerre. Un futuro prospero. Un futuro di pace”.

Quella che si legge tra le righe della dichiarazione presentata e firmata è una Europa dei cittadini, che devono diventare centrali nella politica unitaria.

Sono cinque i punti fondamentali della dichiarazione, aree di cooperazione che devono essere sviluppate e coltivate necessariamente e prioritariamente.

DIFESA COMUNE

Nei trattati di Roma emerge fortemente la volontà di realizzare un programma di difesa comune, il mutato quadro geopolitico internazionale lo impone, sia per le molte sfide internazionali sia per la difesa dei confini europei.

Il programma di difesa comune comprende la realizzazione di un fondo comune per investimenti e acquisto di armamenti oltre a un modello di comando integrato delle forze armate nazionali dedicate alla difesa europea.

Questo modello non sarà sostitutivo alla NATO ma complementare a quanto già in campo per l’alleanza atlantica, una risposta alle sollecitazioni del presidente Trump rispetto alla richiesta di un impegno economico maggiore al suo sostegno.

BILANCIO

Anche il modello di bilancio della comunità ha necessità di una revisione, nella struttura ma anche per poter coprire le mancate entrate causata dalla Brexit a partire dal 2020.

DIRITTI SOCIALI

Il nuovo trattato di Roma vuole mettere al centro i cittadini e i temi dei diritti sociali con l’obiettivo di realizzare nuovi modelli di welfare sostenibile a livello europeo che comprenda nuovi ammortizzatori sociali e interventi di reddito di cittadinanza.

GLOBALIZZAZIONE

Il quinto documento della dichiarazione è dedicato alla globalizzazione che deve essere affrontata con nuove regole di governance, nuove norme per il commercio internazionale che possano dare risposte concrete alle spinte protezionistiche dei vari paesi membri.

Un documento di programma che include delle linee chiare e condivise con obiettivi decennali che permettano di affrontare le numero se sfide come il terrorismo, i conflitti regionali, le crisi migratorie, il protezionismo e le diseguaglianze economiche e sociali.

Il messaggio più forte lanciato in questa giornata di rinnovo dei trattati è sicuramente la richiesta di unità, a maggior ragione dopo l’uscita della Gran Bretagna che ha provocato un terremoto identitario per la comunità europea e stimolato spinte sovraniste e populiste in ogni paese.

Pur non parlando mai di una Europa a due velocità è stata descritta una nuova Comunità Europea che indica una strada unica per tutti che però potrà essere percorsa con differente intensità.

Photo Credit: Immagini messe a disposizione con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT da MAE

La Turchia senza Europa, un nuovo equilibrio in medio oriente

EUROPA di

La decisione delle autorità olandesi di vietare l’ingresso nel Paese ai ministri turchi Fatma Betül Sayan Kaya e Mevlüt Çavusoglu, preceduta da iniziative analoghe delle municipalità tedesche e dell’Esecutivo austriaco, ha innescato una grave crisi tra i due Stati segnata dalla sospensione delle relazioni diplomatiche di alto livello tra l’Aja ed Ankara e dalla chiusura dello spazio aereo turco ai diplomatici dei Paesi Bassi, ampliando così la frattura già esistente tra l’Unione europea e la Turchia filo-islamica di Erdogan.

A provocare questo crescendo di tensione tra il Governo conservatore di Ankara ed i suoi alleati occidentali, sono stati, oltre al recente rifiuto di Germania, Austria e Olanda di ospitare sul proprio territorio nazionale rappresentanti turchi in campagna elettorale per il sì al referendum costituzionale, anche, e soprattutto, la posizione ambigua assunta da Ankara nelle crisi geopolitiche regionali (in particolare nella guerra civile siriana), e la risposta eccessiva e violenta di Erdogan al tentato golpe del 15 luglio scorso, con cui il Presidente turco è riuscito a indebolire ogni contro-potere interno.

La svolta autoritaria guidata dal leader dell’Akp ha prodotto, infatti, un drammatico deterioramento dello Stato di diritto che è stato rilevato anche nell’ultimo Rapporto annuale della Commissione europea sui negoziati di adesione della Turchia all’UE ed ha aumentato le preoccupazioni all’interno di molti Stati membri.

Questi ultimi hanno lanciato un duro monito alla dirigenza politica turca dichiarando che le recenti azioni del Governo di Ankara nel capo dei diritti umani e della libertà di espressione, incluse le valutazioni sulla reintroduzione della pena di morte, la sempre minore indipendenza della magistratura e la discriminazione delle minoranze, sono incompatibili con il desiderio ufficiale dello Stato turco di diventare membro dell’Unione e stanno mettendo a repentaglio i progressi fatti da Ankara nell’ultimo decennio per conformarsi ai criteri di Copenaghen.

In realtà, i negoziati per l’adesione, avviati nel 2005, sono rimasti bloccati, oltre che per la mancata pacificazione del conflitto curdo ed il lento processo di consolidamento della fragile democrazia turca, anche a causa della posizione di Francia, Germania, Austria e Cipro da sempre contrarie all’ingresso di un Paese ad alta densità demografica che avrebbe mutato radicalmente i fondamentali economico- geografici e gli equilibri politici interni al blocco europeo.

Tali ostacoli all’adesione di Ankara all’UE, posti principalmente dall’asse franco-tedesco, mostrano come l’avvicinamento della Turchia all’Europa stia scontando un doppio affaticamento frutto, da un lato, di resistenze e problematiche interne all’UE e dall’altro, di un processo di riforme dello Stato turco che rallenta proporzionalmente alle difficoltà di dialogo con Bruxelles, aggravate sicuramente dal crescente euroscetticismo dell’opinione pubblica turca e dagli avvenimenti delle ultime settimane.

Dopo il comizio negato ed il respingimento dei ministri turchi in Olanda, la crisi diplomatica si è infatti estesa anche ad altri Paesi europei, coinvolgendo la Danimarca, che ha deciso di rimandare la visita del Ministro degli Esteri turco Yildirim in segno di solidarietà con i vicini olandesi, e alla Germania che ha espresso sdegno per le accuse di nazismo pronunciate dal Presidente Erdogan.

Anche a Parigi, dove tutti i canditati all’Eliseo hanno condannato la decisione delle autorità francesi di autorizzare una manifestazione pro-referendum dopo le dichiarazioni inaccettabili del Governo turco, è montata la polemica e la conseguente escalation della tensione tra l’Unione e la Turchia, aggravata anche dalla sentenza della Corte di Giustizia del 14 marzo sulla possibilità di vietare il velo islamico nei luoghi di lavoro all’interno dell’UE.

Ankara, da anni impegnata nelle procedure di ammissione all’Unione, si è ritrovata, quindi, in aperto contrasto con i Paesi europei che fino pochi mesi fa avevano scelto una politica più “morbida” e pragmatica nei confronti dello Stato turco, all’insegna della connivenza e della tacita accettazione del crescente autoritarismo di Erdogan, che permettesse all’Unione, incapace di trovare un’intesa sulla distribuzione equa dei migranti e di sorvegliare i propri confini, di risolvere, o quantomeno arginare, il problema migratorio riducendo il numero di profughi nel Mar Egeo.

È per rispondere a tale esigenza che è stato lungamente discusso, e poi concluso il 18 marzo 2016, l’accordo sulla gestione dei migranti tra Bruxelles ed Ankara, di cui il Governo turco ha già minacciato più volte la sospensione.

Tra i punti d’azione previsti dall’EU-Turkey Statement figurava anche l’accelerazione della tabella di marcia per la liberalizzazione dei visas con l’obiettivo di abolire entro giugno 2016 l’obbligo del visto per i cittadini turchi e favorire così il processo di integrazione di Ankara nell’Unione, che ora, alla luce dei recenti avvenimenti, sembra più una chimera che una reale possibilità.

La diffidenza reciproca e la profonda crisi di fiducia che esiste oggi tra i Paesi dell’Unione ed Ankara, hanno infatti reso l’opzione dell’adesione turca all’Unione europea sempre più impraticabile e determinato un’ulteriore perdita di interesse del Governo dell’Akp nei confronti dell’UE che sta spingendo la Turchia di Erdogan a ricercare ad Est alternative ai suoi alleati occidentali.

Di qui il progressivo rafforzamento dei legami politici, economici e diplomatici tra Mosca ed Ankara, riconducibile, non solo alla comune disillusione nei confronti dell’Europa, che ha deluso le aspettative di rapida inclusione della Turchia e le speranze russe di un rapporto collaborativo e paritario, ma anche alla presenza, in entrambi i Paesi, di movimenti tradizionalisti che tendono verso Est (insistendo sulla natura politica e culturale euroasiatica), nonché al progetto turco di impedire la nascita di un corridoio curdo tra Siria e Turchia (a cui neanche i russi sembrano particolarmente favorevoli) che costituirebbe una barriera enorme alle ambizioni espansionistiche di Ankara.

Per Erdogan, infatti, il separatismo curdo è diventato una minaccia maggiore della sopravvivenza del regime di Bashar al Assad, che fin dalla primavera del 2011 la Turchia aveva combattuto appoggiando prima il Free Syrian Army e poi i gruppi jihadisti.

Il sostegno statunitense alle milizie curde siriane dell’Ypg legate al Pkk, che ha incrinato profondamente le relazioni turco-americane, insieme alla preoccupazione di Teheran per i sommovimenti della minoranza curda iraniana nelle regioni settentrionali e occidentali del Paese, hanno determinato un netto cambiamento della posizione turca nel conflitto siriano che ha portato a uno spostamento degli equilibri diplomatici verso Est.

In questo senso deve essere letto il disgelo con Mosca e l’Iran di Rouhani (alleati di Damasco), ed il cambiamento della posizione di Ankara anche nella questione dei progetti turco-russi sui gasdotti e gli oleodotti diretti al mercato europeo attraverso l’Anatolia.

Il nuovo corso della politica estera turca, fondato su un importante coordinamento con Teheran (con cui permangono comunque divergenze strategiche) ed il Cremlino (che sta approfittando delle tensioni tra Ankara e l’UE per avvicinarsi ulteriormente ad Erdogan), mostra quindi uno slittamento del baricentro geopolitico della Turchia verso Russia, Cina e Iran, indispensabile ad Ankara per trasformarsi in una potenza euroasiatica egemone.

Di fronte a tale situazione geopolitica di spostamento a oriente del potere economico e politico, emerge con sempre maggior evidenza la crisi del progetto europeo e la progressiva marginalizzazione dell’Europa che, invece, ha sempre cercato nella Turchia un alleato chiave nella lotta al terrorismo e nella gestione della crisi migratoria.

La riconciliazione turco-russa e l’inasprimento dei rapporti tra Ankara e Bruxelles mostrano, al contrario, una Turchia sempre più lontana dalla NATO e un Erdogan più propenso a portare avanti una politica interna ed estera indipendente dall’Occidente che potrebbe condurre all’affossamento dei negoziati con l’Unione, alla trasformazione della Turchia in una Repubblica presidenziale senza pesi e contrappesi sul modello russo e a un importante cambiamento degli equilibri geopolitici nel Vicino e Medio Oriente a vantaggio delle grandi potenze asiatiche.

 

Marta Panaiotti

 

Attentato a Londra: dopo 12 anni torna l’incubo terrorismo

BreakingNews/EUROPA di

Ancora si cerca di capire la verità e le dinamiche esatte dei fatti avvenuti a Londra nel primo pomeriggio del 22 marzo 2017. Un’altra auto sulla folla, ancora terrore, stavolta siamo a Londra dove a distanza di 12 anni torna il terrore. Altra coincidenza: l’anniversario dell’attentato del 22 marzo 2016 a Bruxelles. Torna l’incubo del terrorismo. L’attacco si è svolto in due fasi praticamente parallele: l’assalitore si è lanciato a tutta velocità con un suv attraversando il ponte di Westminster accanendosi sulla folla e mietendo numerosi feriti. In una seconda fase l’uomo è sceso dalla sua vettura ed ha accoltellato un agente che si trovava nel cortile del Parlamento di Londra. L’obiettivo dell’uomo sembrava quello di entrare proprio all’interno dell’edificio dove si trovava anche il Primo Ministro Theresa May.
La premier britannica è stata immediatamente fatta evacuare dall’edifico a bordo di una macchina molto veloce, come previsto dalla prassi di sicurezza in questi casi.

Sin dalle prime indiscrezioni Scotland Yard ha parlato subito di un attacco terroristico, anche se al momento attuale non ci sono ancora state rivendicazioni palesi di nessuna natura. in un primo momento alcuni media britannici e mediorentali avevano attribuito la responsabilità dell’accaduto all’Imam di Clapton, noto come radicalizzato e come “predicatore d’odio”. La notizia è stata smentita dopo poco in quanto le fonti governative hanno confermato che il sospettato si trova ancora in carcere.

Le vittime al momento sono quattro tra cui l’assalitore, un agente ed una donna. Ci sono più di una ventina di feriti e qualcuno in gravi condizioni, tra questi due sono italiani: una donna di Roma, ricoverata in condizioni diverse rispetto alle altre vittime,  ed una ragazza di Bologna che ha riportato solo delle lievi ferite.


Molti sono ancora i dubbi da sciogliere: il terrorista, a quanto pare dai tratti asiatici e la barba, fa parte di un gruppo di schegge impazzite legate all’integralismo musulmano oppure i motivi sono altri? Come abbiamo anticipato non ci sono ancora certezze su chi fosse davvero l’uomo che ha fatto cadere Londra e mezza Europa di nuovo nel terrore. Secondo alcune testate viene riportata una reazione “particolare” da parte dell’emittente Al Jazeera che avrebbe reagito con delle faccine sorridenti sui social, ma a parte questo dettaglio non trascurabile, Daesh non ha ancora rivendicato ufficialmente l’attentato terroristico.

Nella confusione e nel panico generale sono state necessarie alcune ore per ricostruire esattamente l’accaduto, dare un volto all’attentatore e capire che si trattava di un’unica azione e non di due in contemporanea, come si è parlato in un primo momento. Molte testimonianze dei presenti sono state raccolte, insieme a qualche “coraggioso” che ha ripreso con il cellulare alcuni momenti di questo efferato gesto.

E in attesa che venga diffusa l’identità dell’assalitore il premier Teresa May ha parlato alla nazione. “Il nostro livello di sicurezza è stato rafforzato”, definendo “l’attacco terroristico come un atto disgustoso e odioso”, visto che “è stato colpito il cuore della nostra capitale”. “Ogni tentativo di sconfiggere i nostri valori è destinato al fallimento”, ha concluso.

Credits photo: Twitter

Bonatti, vertici accusati di omicidio colposo

Difesa/EUROPA di

Un anno fa la morte di Fausto Piano e Salvatore Failla, dipendenti della ditta affermata nel business dell’oil&gas in Libia. Pm Colaiocco «Ignorato l’allarme pericolo diramato dalla Farnesina, management colpevole di non aver tutelato i lavoratori»

Prosegue con l’iscrizione dei vertici della Bonatti sul registro degli indagati l’inchiesta sull’uccisione di Fausto Piano e Salvatore Failla, tecnici della ditta rimasti vittime di una sparatoria in Libia lo scorso anno. Una decisione – quella della Procura di Roma – unica nel suo genere, che in un primo momento sembrava non dover colpire i manager della società di Parma, operante nel petrolifero e avvezza a lavorare in quelle zone con i più grandi big di settore. Invece quella contestata a quattro componenti del consiglio d’amministrazione della Bonatti, compreso il Presidente Paolo Ghirelli, e al loro dirigente in Libia Dennis Morson, già indagato anche per violazione delle norme di sicurezza sul lavoro, è un’accusa di omicidio colposo.

114629512-04f3e6f1-ebe1-4458-b76d-cdc9bc86f7e9Piano e Failla furono sequestrati da gruppi armati libici il 19 luglio del 2015, insieme ai colleghi Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, nel corso di uno spostamento verso la zona più interna di Mellitah, sede dei cantieri Eni e di alcune attività della Bonatti. Il trasferimento sarebbe dovuto avvenire – come di consueto – via nave dalla Tunisia, mentre in quella circostanza si contravvenne ai protocolli depositati presso la Farnesina per optare su un viaggio in macchina con autista. Un cambio di programma fatale, che ad oggi sembra accreditare l’ipotesi di un tradimento da parte del conducente, di cui si è persa ogni traccia.

I 4 dipendenti della Bonatti sarebbero dovuti arrivare all’impianto di trattamento del metano di Mellitah via mare e non via terra, essendo le strade interne della Tripolitania particolarmente pericolose perché battute da milizie filo-islamiste. Partiti dall’Italia alla volta di Gerba, in Tunisia, dopo tre giorni avrebbero preso una chiatta che li avrebbe portati a destinazione. Due di loro, tuttavia, avrebbero dovuto recarsi al giacimento di Wafa, al confine con l’Algeria, a bordo di un aereo che effettua un solo volo settimanale di mercoledì mattina. Un aereo che avrebbero sicuramente perso, rimandando così di 7 giorni l’arrivo ai pozzi di estrazione del metano. Per questo Morson decise di rivolgersi ad un service privato che lui stesso aveva già utilizzato in precedenza, e che riteneva pertanto della massima affidabilità.

«A Gerba abbiamo trovato il minivan con l’autista libico – hanno raccontato al rientro in Italia Pollicardo e Calcagno, liberatisi dopo 8 mesi di prigionia – e dopo due check point siamo stati sequestrati, tra Zuara e Mellitah. I banditi credevano fossimo dell’Eni, sono rimasti delusi quando hanno capito che eravamo della Bonatti».

Un rapimento di cui la Procura di Roma ritiene responsabile il management aziendale, colpevole di aver trascurato la tutela dei suoi lavoratori.  La ditta – incalza il pm Sergio Colaiocco – era perfettamente a conoscenza del drammatico peggioramento delle condizioni di sicurezza in Libia, tanto da spingere la Farnesina a diramare l’allarme a tutte le società italiane impegnate in loco, che venivano invitate ad andarsene, o comunque a proteggere con ogni mezzo i propri lavoratori. I vertici della Bonatti avrebbero dunque sottostimato il rischio di reale pericolo ignorando un’allerta istituzionale, e incorrendo nell’illecito amministrativo sulla responsabilità degli enti di cui al Dlgs 231/2001.

 

 

 

Sisma, anche l’Aereonautica Militare in campo per le operazioni di soccorso

Difesa/EUROPA di

Continua l’impegno dell’Aeronautica Militare a favore delle zone terremotate che nei giorni scorsi sono state colpite dalla neve.

Per rispondere alle diverse richieste di supporto, l’Aeronautica ha messo in campo diverse squadre di pronto intervento con personale del 16° Gruppo Genio Campale, della 1^ Brigata Aerea Operazioni Speciali (BAOS), del 3° Stormo di Villafranca(VR), del 50° Stormo di Piacenza e del 51° Stormo di Istrana (TV).

I militari sono operativi già dal 19 gennaio nel comune di Sarnano (MC) dove “49 unità sono intervenute con mezzi speciali, pale meccaniche e fresaneve per sgombrare le strade dalla neve e raggiungere così le frazioni rimaste isolate” ha dichiarato il tenente colonnello Cristiano Fedeli, responsabile per il coordinamento del personale dell’Aeronautica Militare.

L’intervento dei militari si è reso necessario in seguito alla richiesta di supporto da parte dello stesso sindaco di Sarnano, Franco Ceregioli che ha affermato che <<i mezzi a disposizione del comune non erano idonei per raggiungere le 53 frazioni dove la neve aveva bloccato tutte le vie di accesso raggiungendo circa i 2 mt di altezza per oltre 120 km di strade comunali>>.

Altre 36 unità sono attive anche nel comune di Rotella (MC).

In stretto coordinamento con la Prefettura di Macerata, una squadra composta dal personale del Centro di Formazione Aviation English di Loreto (AN) è intervenuta, invece, nei giorni scorsi a Serravalle di Chieti (MC) dove la neve, caduta copiosa nei giorni scorsi, aveva lasciato molti cittadini isolati.

Berlino attentato al mercatino 12 morti

EUROPA di

Berlino,un camion sulla folla ad un mercatino di Natale, torna il terrore
A distanza di 5 mesi il terrorismo torna a colpire. Era il 14 di luglio quando un tir ha falciato decine di persone sulla Promenade Des Anglais a Nizza, è il 19 dicembre quando sempre un camion si lancia sulle persone che si trovavano nei pressi di un mercatino di Natale a Kurfuerstendamm Avenue, nei pressi della chiesa intitolata al Kaiser Guglielmo, un quartiere di Berlino che era stato il cuore della parte ovest, il mercato più tradizionale e storico della capitale tedesca, sin da prima della caduta del muro. Verso le 20 si è consumata questa nuova tragedia, due o tre persone a bordo di un camion si sono lanciate sulla folla ed hanno ucciso 9 persone e ferito altre 50 secondo le fonti della polizia locale. Sul veicolo c’erano a bordo appunto due persone – o forse tre, le quali dopo aver commesso l’efferato gesto uno è morto a causa dell’impatto, l’altro si è dato alla fuga a piedi, un terzo sarebbe stato fermato ed arrestato dalle forze di polizia locali.

Questi sono i fatti certi riportati dalle fonti di polizia. Il camion ha una targa polacca, di Danzica, e secondo alcuni testimoni oculari, il conducente del veicolo (quello poi arrestato) ha detto che si sarebbe trattato di un uomo caucasico con i tratti somatici che potrebbero appartenere all’Europa dell’Est. Berlino già viveva in una situazione di difficoltà: qualche settimana fa un giovane ragazzo radicalizzato aveva depositato un piccolo zaino sempre all’interno di un mercatino di Natale, che però poi, fortunatamente, non è mai esploso. La Germania è ormai un nuovo obiettivo del terrorismo di matrice islamica. Secondo i media tedeschi l’ISIS avrebbe già rivendicato l’attentato.

L’Europa si trova in una condizione molto delicata a livello politico: quest’anno si svolgeranno le elezioni in Francia e il prossimo anno si voterà proprio in Germania. Alcuni esperti ovviamente vedono in questi atti, tutti elementi che potrebbero rafforzare l’avvento di partiti populisti di estrema destra, specialmente in Francia, dove lo spettro e la paura degli attentati sono sempre molto vivi per un paese che è stato crivellato a colpi di attentati. Tornando alla cronaca, le autorità tedesche invitano i cittadini ed i mezzi di stampa a non diffondere false notizie, aumentando così il panico che già si è creato nella capitale tedesca. “Non ci sono pericoli in altre parti della città”, si legge dalle fonti governative, ma i corrispondenti esteri parlano di scenario apocalittico, proprio come quello di Parigi, Bruxelles e Nizza prima di oggi.
Gli esperti del settore dicono che Europol aveva inviato un rapporto pochi giorni fa nel quale si parlava proprio di un pericolo di minaccia terroristica che poteva essere messa in atto con auto-bomba ( come quella ritrovata a Parigi lo scorso settembre, proprio nel cuore della città) o con modalità simili a quelle di Nizza. Sempre dal rapporto Europol è emerso che gli obiettivi principali potevano essere proprio i gremitissimi mercatini di Natale, con particolare attenzione di quello di Strasburgo.

Riguardo la rivendicazione da parte dell’ISIS allo stato attuale delle cose, non ci sono ancora certezze, proprio perchè in questo periodo è molto facile che qualsiasi fondamentalista abbia potuto rivendicare l’attentato di Berlino. L’ISIS non ha portavoci ufficiali ed in questo momento ci sono soggetti che potrebbero calvalcare l’onda dell’attentato per diffondere notizie false, ma sin dal primo momento la matrice terroristica è stata individuata e confermata dalle forze di polizia tedesche.

Perché Shinzo Abe renderà omaggio alle vittime di Pearl Harbour

AMERICHE/Asia di

L’alleanza tra Usa e Giappone sembra destinata a rafforzarsi ulteriormente nel prossimo futuro. Il primo segnale era stato l’incontro “franco e cordiale” tra il presidente eletto Trump ed il premier nipponico Shinzo Abe dello scorso 17 novembre, primo meeting informale per l’amministrazione entrante con un capo di governo straniero. Il secondo passo, ben più significativo sul piano simbolico e politico, è l’annuncio della visita di Abe a Pearl Harbour, in concomitanza con le celebrazioni in memoria dell’attacco aereo giapponese sul porto statunitense delle Hawaii, che causò 2400 vittime e spinse gli Usa ad entrare in guerra 75 anni fa, il 7 dicembre del 1941.

La visita, programmata per la fine di Dicembre, si preannuncia come un gesto di portata storica che punta a rafforzare il legame tra i due paesi e ad inaugurare un nuova fase nelle relazioni bilaterali tra le sponde del pacifico. Gli aspetti più concreti e terreni riguardano la necessità giapponese di ridurre le incertezze riguardanti la futura politica statunitense nei confronti del Sol Levante, alimentate dalla sregolata campagna presidenziale di Trump che, tra le altre cose, aveva esortato Tokio a contribuire maggiormente alle spese per le basi militari americane sul suolo giapponese.

La visita culminerà con un incontro al vertice tra il premier nipponico ed il presidente uscente Obama, i prossimi 26 e 27 dicembre, recapitando un chiaro messaggio alla nuova amministrazione: l’alleanza funziona così com’è e non deve essere messa in discussione. Obama e Abe hanno infatti contribuito in modo convinto, in diverse occasioni, a cementare la cooperazione strategica tra i rispettivi paesi. Nel 2015 le linee guida di difesa comune sono state aggiornate e le Forze di Auto-Difesa giapponesi sono state autorizzate ad intervenire a fianco dell’esercito americano nell’ambito di un limitato numero di scenari.

Trump, invece, non è stato tenero con il Giappone durante la recente campagna presidenziale. Dopo aver chiesto più soldi per continuare a garantire la presenza delle basi militari americane nell’arcipelago, il candidato Trump aveva criticato Obama per aver fatto visita ad Hiroshima, nel ruolo di primo presidente americano a rendere omaggio alle vittime del bombardamento nucleare che pose fine alla guerra mondiale nel Pacifico. Secondo Trump, in quell’occasione Obama avrebbe dovuto ricordare anche le vittime dell’attacco giapponese a Pearl Harbour dove “migliaia di vite americane sono andate perdute”.

La prossima visita di Abe servirebbe dunque a compensare il gesto di apertura di Obama e a offrire alla nuova amministrazione l’immagine di un Giappone disposto a guardare al passato con occhi diversi. Secondo l’analista Kent Calder della John Hopkins University, la visita di Abe renderà l’alleanza col Giappone più digeribile per i sostenitori di Trump, facilitando le relazioni future.

Sul fronte nipponico, Abe è sempre sembrato disposto a mettere in discussione quella pagina della storia nazionale, riconoscendo almeno in parte le responsabilità del suo paese. Durante una sessione congiunta del Congresso, lo scorso anno, il primo ministro del Sol Levante ha fatto espresso riferimento, per la prima volta, all’attacco di Pearl Harbour, pur senza offrire scuse ufficiali. Anche in previsione della visita di fine dicembre, la questione delle scuse rimarrà sospesa. Abe intende portare “conforto” alle vittime dell’attacco giapponese di 75 anni fa e rendere omaggio alla loro memoria, ma non è lecito attendersi l’uso di un linguaggio diretto che possa essere letto in patria come la formulazione di scuse pubbliche nei confronti del nemico di allora.

Sul fronte americano, la visita di Abe potrebbe urtare i sentimenti dei reduci e dei parenti delle vittime, una preoccupazione cui l’amministrazione entrante è certamente molto sensibile. Anche Josh Earnest, l’attuale Press Secretary della Casa Bianca, non esclude che la visita giapponese possa amareggiare le vittime dell’attacco, anche a distanza di così tanto tempo. Earnest si dice però fiducioso che in molti metteranno da parte la propria dose di amarezza, riconoscendo la portata storica dell’evento.

La visita si prospetta dunque come un successo per Obama, che cerca di consolidare la propria legacy con una vittoria simbolica e diplomatica nel momento in cui le sue principali conquiste sul fronte internazionale, l’accordo sul nucleare iraniano e il riavvicinamento tra Washington e La Havana, rischiano di essere travolti dall’onda della nuova amministrazione Trump.

A raccoglierne i frutti migliori sarà però Shinzo Abe. La visita servirà al primo ministro per scrollarsi di dosso l’etichetta del revisionista storico, che lo accompagna dal momento della sua elezione e che ne offusca l’immagine in patria e sopratutto all’estero. Fumiaky Kubo, uno storico interpellato dal Japan Time, sostiene che Abe, nonostante la cattiva fama, abbia fatto “più progressi nel percorso di riconciliazione bellica di qualunque altro primo ministro. Questo potrebbe essere un modello di riconciliazione su cui entrambe le parti potrebbero basare i propri sforzi”.

Nel momento in cui il TPP (Partenariato Trans Pacifico) sembra destinato al fallimento e la disputa territoriale sulle isole tra Kamcatka e Hokkaido che contrappone il Giappone alla Russia è ferma su un binario morto, un rafforzamento della partnership con gli USA potrebbe essere quello di cui Abe ha bisogno per rilanciare la sua azione di governo sul teatro internazionale. Anche a costo di annacquare la verve nazionalistica che lo ha sempre caratterizzato.

Il lascito di Fidel Castro

AMERICHE di

Il 25 di novembre, Fidel Castro è morto all’età di 90 anni, dopo aver governato l’isola di Cuba dal 1959 al 2008. Come tutti gli uomini che hanno cambiato il corso della storia, il suo operato ha suscitato tanta ammirazione quanto rancore. Cuba ha decretato 9 giorni di lutto nazionale per ricordare il padre della rivoluzione. Le ceneri del líder máximo sono state esposte al Memoriale José Martí all’Havana e percorreranno tutta l’isola fino a Santiago de Cuba, dove si terranno i funerali il 4 di dicembre. E’ importante ricordare chi fu questo personaggio che sconvolse il corso della storia del ‘900 e la cui morte oggi suscita sentimenti contrastanti in tutto il mondo.

Fidel Castro nacque nel 1926 in una famiglia cubana benestante e di origini spagnole. Ciò gli permise di studiare e di interessarsi da subito alla politica ed al diritto. Quando si approcciò a svolgere la professione di avvocato, si scontrò con la dura realtà esistente nell’isola: la povertà immensa ed il potere delle multinazionali statunitensi. Nella sua professione decise di difendere i contadini più poveri che non sempre potevano permettersi di pagare il suo onorario. Questo lo costrinse a vivere grazie all’aiuto economico di amici e compagni nella Cuba della dittatura di Batista. Era un uomo di grandi ideali, ma soprattutto un uomo d’azione. Tentò dunque di realizzare una rivolta il 26 luglio del 1953 con la presa della Caserma Moncada, ma fu una sconfitta e venne incarcerato insieme ad altri compagni. Durante il processo fu egli stesso a pronunciare la sua difesa in un’arringa dal titolo “la Storia mi assolverà”,  dando mostra di una grande capacità oratoria. Si dice che avesse prodotto il testo del suo discorso dopo aver trascorso la notte a leggere “J’accuse”, la celebre opera di Émile Zola sul caso Dreyfus. Più che una difesa, “la Storia mi assolverà” ha, infatti, i connotati di un’accusa al regime cubano.

Durante l’esilio in Messico, Fidel organizzò la rivoluzione. Fu in quella circostanza che conobbe alcuni dei suoi futuri compagni, tra cui Ernesto Guevara. Sul primo colloquio che Fidel intrattenne col “Che”, quest’ultimo disse di esser rimasto colpito dal carisma di Castro e di aver pensato che “sarebbe stato tanto bello e consolatore morire per degli ideali così puri su una spiaggia straniera”. Infatti, in quel momento nessuno pensava che un gruppetto di uomini sarebbe riuscito a rovesciare un regime militare sostenuto dagli Stati Uniti d’America. Se riuscirono nell’impresa fu grazie all’ingegno. In primo luogo, i rivoluzionari sfruttarono i mezzi di comunicazione per far credere all’opinione pubblica mondiale di essere un numero superiore a quello reale, ma soprattutto beneficiarono del sostegno della popolazione che condivideva la loro causa. Inoltre, Fidel scelse la strategia della guerriglia sulle montagne poiché permetteva ad un piccolo gruppo di volontari di fronteggiare un esercito regolare e preparato. La tattica consisteva nell’attaccare a sorpresa obiettivi strategici come le caserme militari, senza coinvolgere la popolazione.

Dopo il trionfo della rivoluzione nel 1959, gli Stati Uniti sembrano essere ben disposti verso il nuovo leader e tentano di negoziare accordi vantaggiosi per mantenere i loro interessi economici nell’isola. Ma Castro non acconsente e nazionalizza le immense proprietà statunitensi sull’isola, che a suo avviso erano la causa della povertà estrema del popolo cubano.

Se la vittoria della rivoluzione cubana ha tutti i connotati di una lotta idealistica e rivoluzionaria non disposta a compromessi, una volta al potere Fidel dovette scontrarsi con la realtà. Gli Stati Uniti decretarono l’embargo economico e tentarono una controrivoluzione con l’invasione della Baia dei Porci. Apparve allora evidente l’impossibilità di sopravvivere per la neonata Cuba sovrana, se non con il sostegno dell’Unione Sovietica. Nella logica della guerra fredda, Mosca aveva interesse ad allearsi con un Paese così geograficamente vicino agli Stati Uniti ed assoggettato fin dall’indipendenza nel 1898 alla sfera di influenza statunitense. Per questo, alla rivoluzione cubana fu consentito sopravvivere. E Castro, pur non condividendo a pieno il modello sovietico, scelse di abbandonare l’idealismo puro per permettere la sopravvivenza dell’esperienza cubana. Tuttavia, ben presto emersero le vere ragioni dell’interessamento sovietico alle sorti di Cuba. La crisi dei missili del 1962 fu un tentativo dell’URSS di ottenere maggior potere negoziale nei confronti degli USA, minacciando di installare testate nucleari a Cuba. Fortunatamente lo scontro tra le due superpotenze fu evitato e l’URSS ottenne lo smantellamento di basi missilistiche in Turchia in cambio della rinuncia ad installare missili a Cuba. Cuba ottenne l’assicurazione di non essere invasa. Castro rimase deluso dall’apprendere di esser stato usato dall’URSS, ma il realismo prevalse e decise di non abbandonare l’alleanza.

La caduta dell’URSS, nel 1989, aprì la fase più critica dell’esperienza rivoluzionaria cubana. Il venir meno del sostegno sovietico alla piccola isola produsse una forte crisi economica. Nel 1990 viene annunciato l’inizio del “periodo speciale”: una serie di misure economiche eccezionali volte a ridurre i consumi di combustibili ed alimenti per permettere che tutta la popolazione potesse continuare ad aver accesso almeno ai beni primari. Un miglioramento significativo si ebbe solo a partire dal 2004. Si trattò di 15 anni molto difficili, in cui il Paese dovette modificare il proprio sistema economico in virtù del venir meno degli scambi commerciali con l’URSS. Le misure introdotte compresero una progressiva apertura all’iniziativa economica privata sull’isola ed agli investimenti stranieri.

Dal punto di vista della politica estera Cuba ha rappresentato fin dagli anni ’60 il punto di riferimento per i movimenti di liberazione nazionale e per la lotta anticoloniale di numerosi popoli dell’America latina e dell’Africa soprattutto. Si pensi alla Bolivia, al Congo e all’Angola tra gli altri. Il sostegno offerto da Cuba a tali movimenti consisteva nell’addestramento dei guerriglieri e nell’invio di consulenti militari. Ma Cuba ha orientato la sua politica estera anche verso missioni di carattere umanitario nei Paesi più poveri del mondo, inviando medici ed offrendo borse di studio per giovani che non potevano accedere all’istruzione scolastica nei loro Paesi.

E’ opportuno ora passare ad un bilancio di quelle che sono state le criticità e conquiste nella politica interna cubana durante il periodo castrista. Le criticità sono relative alle limitazioni del diritto di proprietà, dell’iniziativa imprenditoriale ed alla impossibilità per gli oppositori politici di partecipare a libere elezioni. Molti oppositori al regime cubano, o semplicemente cittadini che non si rispecchiavano nella visione socialista dello Stato e stufi delle privazioni materiali sopportate per il fine superiore della sovranità statale, hanno deciso negli anni di lasciare il Paese. L’embargo ha strozzato l’economia della piccola isola fin dagli anni ’60 e l’attrazione verso il benessere proposto dalle economie capitaliste è stato forte per parte della popolazione cubana. La libertà individuale è anche libertà di scegliere in quale sistema economico riconoscersi e condurre la propria vita. In questo, senso il regime cubano non ha lasciato spazio a quella componente della popolazione che avrebbe desiderato un sistema diverso. Il sistema cubano, dal canto suo, ha ottenuto grandi conquiste dal punto di vista assistenziale e sociale. Il sistema sanitario ha raggiunto livelli di eccellenza ed è completamente gratuito. Anche l’istruzione è completamente gratuita fino all’Università e di ottimo livello. Veniamo al punto cruciale: la forma di governo cubana non è un regime parlamentare rappresentativo, bensì un regime socialista. Vi è un partito unico nel Paese e la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche avviene attraverso l’elezione di un’Assemblea del potere popolare. Si tratta di scelte che non possono, tuttavia, mettere in discussione la natura socialista dello Stato. Su tali modalità sono state innumerevoli le critiche mosse, poiché si ritiene non siano idonee a garantire l’effettivo esercizio della sovranità da parte del popolo cubano. A tale proposito Aleida Guevara, medico cubano e figlia del Che, ha affermato: “non ci aspettiamo che comprendiate o condividiate il nostro modo di concepire l’organizzazione dello Stato, ma vi chiediamo di rispettarlo”.

In definitiva, Castro ha cambiato il corso della storia di Cuba ed ha rappresentato un esempio per i popoli soggetti a regimi coloniali o a nuove forme di colonialismo. Il suo operato ha fatto apparire possibile liberarsi dal giogo coloniale in modo effettivo, ed intraprendere una via nazionale allo sviluppo del proprio Paese. Non tutti ne condividevano la scelta socialista, ma senza dubbio ammiravano la forza con cui Cuba si è opposta allo sfruttamento neo-coloniale. L’impatto dell’operato di Castro è stato di ordine mondiale. Se in vita è stato aspramente criticato da diversi schieramenti politici, oggi viene riconosciuto anche il merito del suo operato dai principali mezzi di comunicazione. Allora quello su cui dobbiamo interrogarci oggi è se la Storia ha assolto quest’uomo dalle accuse che gli sono state mosse in vita, e la risposta è rimessa alla coscienza di ognuno di noi.

Elena Saroni
0 £0.00
Vai a Inizio
×