GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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REGIONI - page 102

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite diviso tra crisi malese e lotta alla proliferazione nucleare

AFRICA/ASIA PACIFICO di

I primi giorni di settembre hanno visto i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, riuniti sotto la presidenza dell’Etiopia, discutere di questioni particolarmente pressanti relative alle operazioni di peace-keeping in corso in Mali, sostenute dalla Missione Onu MINUSMA, e alle attività di proliferazione nucleare portate avanti da Pyongyang che, con il potentissimo test condotto a Punggye-ri domenica 3 settembre, sono tornante a minacciare seriamente la pace e la sicurezza internazionali.

A seguito dell’esplosione di un ordigno all’idrogeno nella regione settentrionale di Hamgyong, i quindici componenti del Consiglio di Sicurezza sono stati infatti convocati d’urgenza nella Norwegian Room da dove hanno condannato in maniera unanime la politica di nuclearizzazione perseguita da Pyongyang in violazione, oltre che del Trattato di non proliferazione (NPT) e del Treaty banning nuclear weapon tests in the atmosphere, in outer space and under water, anche di diverse risoluzioni Onu tra cui il Comprensive Nuclear-Test-Ban Treaty e la storica risoluzione del 24 gennaio 1946 sui pericoli riconducibili alla scoperta dell’energia atomica.

A cominciare dal Sottosegretario Generale per gli Affari politici, che ha ribadito la preoccupazione dell’intera comunità internazionale per l’escalation della tensione in corso nella penisola coreana e per le sue possibili conseguenze sul piano della sicurezza (sia a livello regionale che internazionale), anche i rappresentanti di Stati Uniti, Giappone, Francia e Regno Unito hanno espresso il proprio disappunto, sollecitato l’adozione, da parte del Consiglio, di nuove e più dure sanzioni economiche tese ad ostacolare un’ulteriore sviluppo delle capacità nucleari del regime di Kim Jong-un.

Come suggerito dal delegato sudcoreano Cho Tae-Yul, la prossima risoluzione Onu relativa al programma nucleare e missilistico della RPDC dovrà contenere, non solo disposizioni atte a bloccare l’afflusso di fondi utili allo sviluppo dell’arsenale nordcoreano di armi di distruzione di massa, ma anche altre misure, ancora più drastiche (tra cui il taglio delle forniture di greggio e dei derivati del petrolio), per scoraggiare il programma di nuclearizzazione portato avanti da Kim Jong-un colpendo in profondità il sistema produttivo della Corea del Nord.

Se da un lato, quindi, Europa e Stati uniti hanno assunto una posizione intransigente nei confronti di Pyongyang, fatta di accuse e minacce di ritorsioni, dall’altro Russia e Cina, insieme al rappresentante kazako, hanno invece insistito sulla necessità di proseguire lungo strada dei negoziati, scartando l’ipotesi di una possibile soluzione militare alla crisi (con attacchi preventivi per la distruzione dei siti nucleari nordcoreani) o di una risposta troppo decisa da parte del Consiglio, che invece di risolvere la crisi in atto, potrebbero esacerbare la situazione, spingendo i leader nordcoreani, impegnati a garantire al Paese una forza di dissuasione che gli assicuri la sopravvivenza, a moltiplicare gli esperimenti nucleari e balistici.

La proposta alternativa avanzata dai rappresentati di Mosca e Pechino, che prevede un “congelamento” dei test nucleari e missilistici della Corea del Nord in cambio di una sospensione delle esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seul, riflette, confermandoli, gli interessi dei due giganti asiatici, impegnati, rispettivamente, a mantenere la propria influenza nell’area (in funzione anticinese e antiamericana) e ad impedire la caduta di Pyongyang che aprirebbe la strada a una Corea unificata (e sostenuta dagli Usa) rivale di Pechino sul piano strategico.

Con riferimento, invece, alla situazione malese, il Consiglio di Sicurezza ha stabilito, adottando all’unanimità la risoluzione 2374(2017), l’introduzione di nuove sanzioni contro soggetti considerati responsabili delle continue violazioni del cessate-il-fuoco e degli altri obblighi previsti dallo storico Accordo sulla pacificazione e la riconciliazione del Mali, con cui il Governo locale, la coalizione di gruppi armati Plateform e il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad hanno posto le basi per la stabilizzazione politica del Paese.

I destinatari di tali sanzioni saranno, pertanto, tutti i soggetti direttamente o indirettamente coinvolti nella crisi malese, che con le loro azioni hanno dimostrato di voler ostacolare il processo di pace, mettendo a rischio i deboli risultati sinora raggiunti (soprattutto a livello securitario e nel settore della difesa) nell’implementazione dell’Accordo del 2015. Il riferimento è, segnatamente, a coloro che favoriscono la ripresa delle ostilità (spesso realizzando attacchi contro le forze di sicurezza nazionali, i Caschi Blu delle Nazioni Unite ed altro personale Onu), come anche a terroristi ed organizzazioni criminali (tra cui Al-Qaeida, Al Mourabitoun, Ansar, Da’esh) responsabili di crimini come il traffico illegale di stupefacenti, il reclutamento di minori, l’ostruzione dell’assistenza umanitaria, il sequestro di persone, ma anche le esecuzioni extra-giudiziarie, il traffico di migranti e le violenze a sfondo sessuale.

Si tratta di attività che pongono serie minacce per la pace e la sicurezza, non solo di Bamako, ma dell’intera regione del Sahel e che richiedono pertanto un intervento deciso di attori locali e sub-regionali che permetta di individuare organizzatori e perpetratori di queste gravi violazioni del diritto internazionale che contribuiscono a mantenere nell’instabilità uno dei Paesi più problematici dell’Africa sub-sahariana.

Per favorire un simile processo, e garantire quindi la graduale stabilizzazione del Paese ed una maggiore protezione della popolazione civile, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha previsto l’adozione, per un periodo iniziale di 12 mesi, di un travel ban che vieta l’ingresso ed il transito sul territorio di tutti i Paesi membri ai soggetti individuati da un apposito Commitee (creato ai sensi del paragrafo 9 della S/RES/2374) ed inseriti nell’elenco dei possibili responsabili della perdurante instabilità socio-politica del Mali.

Per scoraggiare le attività di questi gruppi, il “divieto di viaggio” sarà accompagnato dal congelamento immediato di fondi, risorse economiche ed altri assets finanziari, presenti sul territorio degli Stati membri, che risultino controllati, direttamente o indirettamente, da soggetti che figurano nella “black list” elaborata dal nuovo Comitato.

Contestualmente, i membri del Consiglio hanno anche deciso di istituire un nuovo panel di esperti incaricato di assistere il Committe nello svolgimento delle sue attività e di analizzare tutte le informazioni provenienti da Stati, INTERPOL, organi delle Nazioni Unite ed altre organizzazioni coinvolte nel processo di implementazione della risoluzione in esame, utili per monitorare il comportamento delle parti al conflitto ed individuare eventuali incidenti o violazioni che ostacolano la conclusione della guerra in corso nel Paese dal marzo 2012.

di Marta Panaiotti

Regeni, caso chiuso ma non risolto

MEDIO ORIENTE/POLITICA di

Davanti alle Commissioni riunite di Camera e Senato il ministro Alfano ha dichiarato che, nonostante il caso Regeni, i rapporti dell’Italia con l’Egitto e quelli dell’Egitto con l’Italia sono inalienabili. Ha aggiunto che tra i compiti che il nostro Ambasciatore dovrà svolgere c’è anche quello di continuare, di concerto con le autorità egiziane, a cercare la verità su quanto accaduto al nostro povero connazionale. Certo, dopo tutte le accuse di resa avanzategli dalle opposizioni interne alla coalizione che sostiene il Governo, non poteva dire altrimenti ma è a tutti chiaro che, nella sostanza, il “caso Regeni” è pressoché chiuso. Non importa quali altre carte o filmati saranno trasmessi alla nostra magistratura: la verità è già conosciuta ma, semplicemente, non si può dire.

Resteranno oscuri alcuni aspetti della vicenda quali, ad esempio, il perché’ il cadavere sia stato lasciato in una località ove sarebbe stato facilmente rinvenuto. Oppure quali rispettivi ruoli abbiano avuto la polizia egiziana e i servizi segreti di quel Paese. O ancora se anche altri “servizi” abbiano o meno avuto una parte nella storia e, nel caso, a quale scopo. Comunque, la sostanza è che, magari senza capirne tutti i contorni e le finalità, il giovane dottorando stava raccogliendo informazioni e contatti negli ambienti contrari al regime e che stava trasmettendo quei dati ai suoi mandanti a Londra. In altre parole, stava collaborando a quello che avrebbe potuto trasformarsi in una ribellione contro il Governo attualmente in carica.

Che questa ricostruzione sia la più plausibile è confermato dal fatto che la sua relatrice che gli affidò l’incarico, è una professoressa di origine egiziana che si era già distinta come ostile ad Al Sisi e, davanti alla richiesta della nostra magistratura di poterla interrogare, si è negata. Come lei, hanno rifiutato la collaborazione con i nostri investigatori anche tutti gli organi dirigenti dell’Universita’ di Cambridge, l’ateneo ove il povero Regeni sperava di costruire la sua carriera di ricercatore.

Poichè la vittima di quel brutale trattamento è un cittadino italiano, era scontato che il nostro Governo avanzasse pretese di chiarimenti sia da parte egiziana che britannica e sarebbe stato altrettanto naturale ottenere collaborazione da entrambe. Chissà perché’ seppur con gli egiziani la mancata assistenza ha portato a una nostra ovvia reazione diplomatica, contro la Gran Bretagna, che ci ha silenziosamente snobbati, nessuna reazione è stata prevista.

D’altra parte, se gli egiziani ci avessero fatto conoscere la verità ufficialmente e cioè che erano stati organi dello Stato a torturare e uccidere il nostro concittadino, saremmo stati obbligati a una formale e dura reazione, ben più pesante del semplice richiamo dell’Ambasciatore. Tuttavia ciò avrebbe significato rompere per un tempo indeterminato i rapporti tra i due Paesi che, come ha affermato giustamente Alfano, devono invece restare ottimali. È perfino comprensibile l’atteggiamento dei britannici. Dovevano dirci formalmente di aver “usato” un ambizioso ma insospettabile studente italiano per una operazione di spionaggio utile solo a loro? Quando mai? In qualunque parte del mondo, se una spia viene scoperta tutti i mandanti si precipitano a smentire di esserlo stati. Ebbene, i nostri bravi alleati d’oltre Manica non si sono nemmeno sprecati a mentirci: hanno semplicemente rifiutato di parlarci.

Ora, dopo mesi in cui il nostro Ministero degli Esteri ha manifestato il nostro disappunto, cosa che dovevamo fare per salvare la faccia, è arrivato il momento di ritornare a pensare realisticamente ai più grandi e ai veri interessi del nostro Paese: è quello che è stato fatto inviando un nuovo Ambasciatore.

A chi accusa il Governo di debolezza o di privilegiare interessi economici alla nostra dignità, basta ricordare che, appena noi ritirammo il nostro diplomatico dal Cairo, il Presidente francese Hollande si precipitò in Egitto con una pletora di industriali francesi (che bell’esempio di solidarietà europea! …) per fare affari in tanti settori, magari proprio sostituendo le aziende italiane che erano venute a trovarsi in difficoltà per la nostra mossa. Non solo, gioirono dell’incidente anche tutti coloro che si erano preoccupati (alcuni fortemente) all’annuncio della scoperta del giacimento di gas Zohr fatta dalla nostra ENI in acque egiziane. Si tratta del più grande giacimento di tutto il Mediterraneo che fa impallidire i precedenti due ritrovamenti nelle acque israeliane/cipriote. Zohr non darà all’Egitto soltanto una autosufficienza energetica dal valore strategico incommensurabile, ma gli consentirà perfino di diventare un esportatore netto di gas. È ovvio che essendo stata l’ENI a cercare e trovare quella ricchezza, molte altre aziende italiane potranno essere coinvolte nel suo sfruttamento. Ciò, naturalmente, se i rapporti tra i due Paesi continueranno ad essere virtuosi come lo sono sempre stati nel passato. L’interruzione dei rapporti diplomatici, se continuata, avrebbe pregiudicato la collaborazione in questo campo ed è esattamente ciò che molti altri Stati si auguravano.

Come se non bastasse, è bene anche ricordare ai nostri “moralisti” che uno dei maggiori problemi politici che stiamo fronteggiando è il continuo afflusso di “profughi” dalle coste nord africane. Il Governo si è mosso facendo accordi con i sindaci di tanti villaggi libici, con i capi tribù e con il Governo di Tripoli, ma è noto che Al Sarraj controlla solo una parte del territorio e che tutta la Cirenaica è invece sotto il controllo del gen. Haftar, che sta a Tobruk. Mentre la gran parte della Comunità internazionale sostiene il primo, l’Egitto è il principale sponsor (anche militare) del secondo. Dopo il nostro accordo con Al Sarraj, Haftar si era precipitato a dichiarare di essere pronto a colpire i “neocolonialisti” italiani, lasciando intendere che o si trattava anche con lui oppure il nostro con Tripoli era un puro “chiffon de papier”. Uso non a caso il termine in questa lingua (anche se il primo a definire così un trattato fu un generale tedesco, proprio contro la Francia) perché’ il nuovo Presidente francese ha cercato di emarginarci anche in Libia, ponendosi come mediatore tra le parti per ipotecarvi il futuro.

Nonostante i “cugini”, il nostro ritrovato rapporto con il Cairo sarà utilissimo pure per i negoziati con Tobruk, poiché’ Haftar non può certo negarsi ad un invito in questo senso che gli arrivasse dall’Egitto.

La politica internazionale è una questione molto complessa per le innumerevoli varianti che entrano in gioco e l’abilità diplomatica consiste sempre in un difficile equilibrio tra forza vera, forza apparente, bluff, menzogne, verità, idealismo e realismo. Ogni Governo che persegua gli interessi del suo popolo deve sapere, all’occasione, usare tutte le armi a sua disposizione senza velleitarismi o fanatismi. Che ci piaccia o no per molti altri motivi, nel caso dei rapporti con l’Egitto Gentiloni ha fatto quanto poteva e quanto doveva, niente di più ma anche niente di meno.

 

Dario Rivolta

 

MADAGASCAR, UN PAESE IN CERCA DI FUTURO

AFRICA di

Repubblica semipresidenziale, quarta isola al mondo che ospita un universo di specie animali e vegetali da record. Tralasciando i segreti naturali, ci affacciamo nella realtà politica del popolo di Noyse Be , le cui tradizioni e modo di vivere restano radicati nel passato; come ci confessa la guida turistica intervistata, il presidente è il più delle volte corrotto e organizza campagne elettorali in tutto il paese, illudendo i cittadini di dar loro nuove speranze di vita. La politica tuttavia non è al centro della vita di un malgascio, potendo a malapena terminare le scuole di primo grado e di conseguenza sviluppare un interesse per le questioni più “alte”; è l’elevato costo, sia per le scuole pubbliche che quelle private, ad essere la causa dell’elevato analfabetismo.

Spesso si inizia ma non si porta a termine, così come la costruzione delle case che vengono iniziate in cemento per poi rimanere incomplete o continuate in legno, essendo meno costoso. Percorrendo le strade dell’isola, si respira un’aria di collaborazione, di sentita unione fra gli abitanti dei numerosi villaggi a poca distanza l’uno dall’altro, che variano dai 50 ai 350 abitanti, ad eccezione delle tre città maggiori che ne contano di più.. un’aria profumata dalle spezie tipiche che colorano i piatti locali, dal pollame e gli animali che collaborano alla sopravvivenza delle famiglie. Dai più comuni galli alle tipiche mucche, gli zebù, la cui carne è un piatto forte. I mercati sono affollati, mosche a non finire che sorvolano il cibo venduto direttamente sulla strada ma che per loro sono parte della quotidianità, date le condizioni igieniche ancora scarse.

La numerosità dei bambini è uno tra gli aspetti che può lasciare più sorpresi: la natalità è altissima e le ragazze diventano madri già dai 16 anni, con una media di 6 bambini. Nonostante tutto ciò, a Nosy Be si vive molto bene, grazie al turismo che ogni anno aumenta e permette alla popolazione una vita dignitosa; è la natura a comandare e l’uomo scandisce le sue giornate proprio in base ad essa. La difficoltà nell’ottenere i visti per uscire dal Madagascar fa sì che questa gente non conosca, se non coloro che lavorano in stretto contatto con i turisti, il Mondo che si nasconde appena fuori;  sarà proprio questo a far apparire questo popolo tranquillo, sorridente e senza dubbio privo della frenesia occidentale.

 

Laura Sacher

Il Servizio Europeo per l’Azione Esterna (SEAE): limiti e potenzialità

EUROPA/SICUREZZA di

Per parlare di Difesa UE nel post-Lisbona, è necessaria una prima introduzione su una delle principali innovazioni del Trattato di Lisbona (2009), Il SEAE. In questo primo articolo, quindi, si cercherà di fare un riesame Servizio Europeo per l’Azione Esterna (SEAE), embrione di Ministero degli Esteri europeo, avvalendosi di alcuni contributi interni ed esterni all’UE per avere così un quadro imparziale dei limiti e delle potenzialità del SEAE.

Per quanto riguarda i contributi interni, l’analisi si basa su due testi: la Relazione speciale «L’istituzione del Servizio europeo per l’azione esterna», Corte dei Conti Europea, maggio 2014 e il Riesame del SEAE 2013, SEAE (AR/VP), luglio 2013. I contributi esterni consultati sono tanti e esprimono le posizioni più disparate.

Dal momento della sua istituzione il SEAE è stato oggetto di critiche che ne evidenziavano un difetto strutturale, l’incapacità di assolvere ai propri compiti di breve e lungo termine. Dopo averle esaminate, si è cercato di riassumerle nei loro tratti comuni. Ognuna di esse coinvolge, in diverso modo, i seguenti aspetti del SEAE:

  • La natura del Servizio
  • Il mandato del Servizio
  • La relazione del Servizio con gli altri attori istituzionali UE
  • Il ruolo dell’Alto rappresentante
  • La struttura del Servizio

In merito alla natura del Servizio, cioè al suo status giuridico e alle procedure di istituzione, molti rilevano un carattere di “secondarietà” rispetto alle istituzioni dell’UE come sancite nell’articolo 13 del TUE. In primis perché l’atto fondante del SEAE non è stato il trattato di Lisbona ma una decisione del Consiglio (2010/427/UE) come espressamente previsto dal Trattato. Successivamente perché, nella decisione del Consiglio, il SEAE è istituito come “organo dell’Unione che opera in autonomia funzionale sotto l’autorità dell’alto rappresentante” (autonomous functional body), terminologia che a molti è parsa ambigua e confusa. Inoltre, pur essendo menzionato nel Trattato di Lisbona, quando questo è entrato in vigore (1 dicembre 2009), la discussione tra Stati membri, Consiglio e Commissione sul nuovo Servizio era ancora in una fase iniziale. Ultimo ma non per importanza, il fatto che il SEAE sia nato nel pieno della “crisi dei debiti sovrani” può aver contribuito al ritardo della decisione del Consiglio e ad un annacquamento del mandato del Servizio.

Per quanto riguarda il mandato del Servizio, la sua missione, i commentatori sembrano rilevare all’unanimità un’eccessiva limitatezza di esso. Infatti la decisione del Consiglio investe il SEAE di questi compiti:

  • Supporto all’alto rappresentante nell’esecuzione delle sue funzioni, e quindi nel coordinamento della politica estera e di sicurezza comune (PESC) dell’Unione europea, compresa la politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), nella sua veste di presidente del Consiglio Affari esteri, nella sua veste di vicepresidente della Commissione nel settore delle relazioni esterne.
  • Assistenza al presidente del Consiglio europeo, al presidente della Commissione e alla Commissione nell’esercizio delle loro rispettive funzioni nel settore delle relazioni esterne.

Un mandato, quindi, definito esclusivamente nei termini del rapporto con le altre istituzioni. Questo ha sollevato numerose critiche, in particolare per l’assenza di un quadro strategico che facesse da cornice all’azione esterna del Servizio. Pur essendo sopraggiunto, intanto, il quadro appena menzionato, con il varo di “European Union Global Strategy” nel giugno 2016, sembrano ancora mancare le condizioni perché avvenga un ampliamento della missione del SEAE, in particolare a causa delle resistenze degli stati membri.

Il tasto più dolente del funzionamento del SEAE rimane, però, quello delle relazioni con gli attori istituzionali dell’UE. Le relazioni, infatti, con la Commissione Europea, il Consiglio Europeo, il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’UE sono quelle che, in ordine decrescente, soffrono più problematiche in termini di: competenza concorrente, ambiguità nell’attribuzione delle competenze, conflitti tra dimensione sovra-nazionale e inter-governativa. In particolare la nascita del SEAE come nuovo organismo che eredita le competenze della precedente DG RELEX e, in blocco, il personale che si occupava di relazioni esterne nei precedenti organismi ha creato numerose sovrapposizioni e confusioni circa la competenza delle svariate materie di rilevanza esterna. Tali sovrapposizioni si sono protratte per anni e fanno sì che, ancora oggi, competenze di azione esterna e in settori con rilevanza esterna rimangano alla Commissione. Un esempio è quello delle linee di finanziamento di alcune attività dell’Unione che si sovrappongono, creando molta confusione (è il caso del finanziamento delle delegazioni). A tal proposito si segnala la riattivazione, nel novembre 2014, del Commissioners’ Group on External Action (CGEA), riunione dei commissari di materie di rilevanza esterna e dell’Alto rappresentante (Commissioners   for   European   Neighbourhood   Policy   and   Enlargement   Negotiations, International    Cooperation    and    Development, Humanitarian   Aid,   e   Trade).

Diverso dagli altri ma sempre problematico rimane il ruolo dell’Alto rappresentante. L’Alto rappresentante veste infatti un “doppio cappello”: è AR e quindi responsabile della PESC e della PSDC ed è Vice Presidente della Commissione. A questo si aggiunge una serie di responsabilità (presiede il CAE e il SEAE, aggiorna il Parlamento Europeo, partecipa ai lavori del Consiglio Europeo, presiede l’Agenzia Europea per la Difesa) che rende il ruolo estremamente complesso e gravoso. Per questo il dibattito si è concentrato sulla possibilità di una deputization, cioè l’introduzione di un vice-rappresentante che rappresenti l’orientamento dell’AR nelle varie sedi. Ad oggi un vero e proprio vice non esiste, sebbene siano stati previsti meccanismi frammentati di supplenza.

Ultimo ambito in cui si sono concentrate le critiche al SEAE è quello della struttura del Servizio. Secondo molti commentatori, infatti, la struttura prevista nella decisione del Consiglio non era assolutamente in grado di garantire un corretto funzionamento dell’organo. L’eccessivo numero di dirigenti, i livelli di gestione aggiuntivi (soprattutto nei dipartimenti geografici), la mancanza di un reale Vice dell’AR, l’assenza di un processo di audit del materiale prodotto nell’attività di supporto all’AR e alle altre istituzioni hanno fatto propendere alcuni commentatori per un giudizio negativo. C’è da dire che tra la maggior parte dei contributi di analisi sul SEAE ed oggi è intervenuta la riforma organizzativa del luglio 2015 del Servizio, che per ora non è ancora passata al vaglio di una valutazione strutturale (se non quella positiva data dallo stesso SEAE nel report annuale 2015).

Per funzioni e struttura, il SEAE è potenzialmente un game-changer dell’identità europea nello scenario internazionale. Ad oggi però, in quelli che sono i dossier più caldi, al SEAE sembrano essere state tarpate le ali da congiunture politiche-economiche, difficoltà strutturali del processo di integrazione, interessi nazionali non complementari.

 

di Lorenzo Termine

L’ATTENTATO DELLE RAMBLAS E LA MANCATA COOPERAZIONE EUROPEA

EUROPA di

Alla domanda “perché proprio la Spagna?”, come perché Nizza, Londra e via dicendo corrispondono diverse reazioni tipiche. Ci sono i complottisti che imputano, nel caso specifico, la responsabilità al Governo spagnolo, reo di non aver collaborato con le forze catalane per dimostrarne l’incompetenza, in vista del referendum per l’indipendenza annunciato (ma non confermato) per i primi ottobre. Ci sono i falchi pronti a lucrare sull’accaduto, politici e non, sui temi connessi alla migrazione, e poi c’è chi cataloga l’atto terroristico alla voce ‘casualità’ (della serie “prima o poi tocca a tutti”) senza studiarne le radici, i motivi e le modalità.

La Spagna non è un caso. C’è una storia passata rievocata dalla recente propaganda del Califfato che rimanda ai Mori (musulmani), con il richiamo al mito de “El Andalus”, nome dato alla penisola iberica quando vi si stabilirono dal 711 al 1492, per poi essere cacciati dalla riconquista cristiana della Spagna. C’è una storia più recente, legata al tremendo attentato di Madrid (2004) per cui furono arrestati 636 jihadisti, a dimostrazione della diffusione della rete di propaganda di Al-Qaeda ai tempi, come lo è quella dell’ISIS oggi. La Spagna credeva di aver pagato il suo coinvolgimento nella guerra in Iraq con quell’attentato, e invece non è stato così.

Secondo, la Catalogna non è un caso. Perché il mettere o meno barriere anti-sfondamento all’ingresso della Rambla (come di Via del Corso o di qualsiasi centro europeo) è una scelta; ma la mancata cooperazione e collaborazione tra lo Stato Centrale e la Catalogna, oltre al rimpallo di responsabilità al quale stiamo assistendo in questi giorni, sono uno scandalo.

Tre esempi su tutti. Primo, le autorità catalane ignoravano che l’Imam El Satty (peraltro già segnalato dalle autorità belghe per le sue prediche “violente”) era stato discepolo prediletto di un terrorista legato alle stragi di Atocha e Nassiriya, ritenendolo un predicatore comune. Secondo, è stato negato l’accesso agli artificieri della Guardia civile (spagnola) al luogo dell’esplosione di Alcanar, dove i terroristi stavano costruendo gli ordigni che avrebbero fatto saltare in aria la Sagrada Familia. I Mossos d’Esquadra (polizia catalana) hanno bollato l’esplosione come una banale fuga di gas senza consultare i più esperti colleghi “spagnoli”. Terzo, la richiesta del Governo catalano di essere incluso nell’Europol, è stata accolta da Madrid solamente di recente, senza che l’accordo raggiunto sia stato pienamente implementato.

Il caso spagnolo/catalano, nella sua particolarità e unicità legata alla battaglia indipendentista, è l’emblema di come le informazioni non vengano condivise tra i vari apparati, ed è solo l’ultimo esempio di come l’ISIS riesca ad infiltrarsi nelle falle dei nostri sistemi, nelle divisioni, nel mancato coordinamento. Il terrorismo è un fenomeno transnazionale, e in quanto tale non può essere contrastato a livello nazionale (figuriamoci regionale) ma almeno europeo, se non globale.

C’è la necessità di un maggior coordinamento in diversi campi, a partire da quello della giustizia come richiesto mercoledì scorso dal nostro Ministro, Andrea Orlando, al Commissario Europeo Vera Jourovà, e ai suoi omologhi Urmas Reinsalu (Estonia) e Rafael Català (Spagna). Il Ministro italiano ha richiamato l’importanza della collaborazione tra i sistemi di giustizia dei vari Paesi attraverso l’ampliamento delle funzioni della Procura Europea (oggi limitata alla difesa degli interessi finanziari). Cooperazione tra magistrature, forze di polizia e intelligence europee, è quello che ha chiesto anche il Presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani.

A Bruxelles, grazie alle misure del nuovo Piano anti-terrorismo promosse dal Commissario per l’Unione della sicurezza, Julian King, si comincia a vedere qualcosa in materia di lotta alla radicalizzazione online e sul controllo delle frontiere esterne, mentre a livello nazionale sembra di vivere un déjà-vu perpetuo di messaggi di cordoglio, solidarietà e speranza da parte dei capi di Stato e di governo. Superare l’ottica “del mio giardino” credo sia la priorità assoluta.

 

di Matteo Ribaldi

TRUMP CAMBIA STRATEGIA, NESSUN RITIRO FINO ALLA VITTORIA

MEDIO ORIENTE/POLITICA di

WASHINGTON, 21 agosto 2017 – Il presidente Donald J. Trump ha presentato una nuova strategia espansiva per l’Asia meridionale, in netta contrapossizione con le sue precedenti dichiarazione, volta a rafforzare la sicurezza americana.

La nuova strategia comprende l’Afghanistan, il Pakistan, l’India, le nazioni dell’Asia centrale e si estende in Sud-Est asiatico.

Ai soldati presenti all’incontro presso la Joint Baser Myer –Henderson Ha sottolineato che la strategia non avrà linee naascoste tra le pieghe .

Trump ha detto che “il popolo americano è frustrato dalla guerra più lunga della nazione in Afghanistan, chiamandola una guerra senza vittoria” e che la nuova strategia “è un cammino verso la vittoria e si allontana da una politica di costruzione della nazione”.

‘Le truppe hanno bisogno di piani per la vittoria, la nuova strategia, ha detto Trump, è il risultato di uno studio che ha ordinato subito dopo l’insediaziamento gennaio e si basa su tre precetti.

“In primo luogo, la nostra nazione deve cercare un risultato onorato e duratura degno dei tremendi sacrifici che sono stati fatti, specialmente i sacrifici delle vite”, ha detto Trump. “Gli uomini e le donne che servono la nostra nazione in combattimento meritano un piano per la vittoria. Meritano gli strumenti necessari e la fiducia che hanno guadagnato per combattere e vincere “.

Il secondo concetto che deve essere chiaro ha ricordato il Presidente è che una uscita frettolosa dall’Afghanistan permetterebbe il ritrono dei terroristi nel paese.

Il terzo punto, ha affermato, riguarda le minacce provenienti dalla regione, che sono immense e devono essere affrontate.

“Oggi, 20 organizzazioni terroristiche straniere designate dagli Usa sono attive in Afghanistan e in Pakistan, la più alta concentrazione in qualsiasi regione in tutto il mondo”, ha detto il presidente. “Da parte sua, il Pakistan spesso offre rifugio sicuro agli agenti di caos, violenza e terrore. La minaccia è peggiore perché Pakistan e India sono due stati armati nucleari i cui rapporti tesi minacciano di spiralarsi in conflitto. E questo potrebbe accadere “.

Gli Stati Uniti, i suoi alleati e i loro partner si sono impegnati a sconfiggere questi gruppi terroristici, ha detto Trump.

Di Redazione European Affairs

TERREMOTO A ISCHIA: L’IMPEGNO DELLE FORZE ARMATE

EUROPA/INNOVAZIONE di

A seguito dello sciame sismico che ha colpito Ischia nella serata di ieri, le Forze Armate hanno messo a disposizione della Protezione Civile, nel corso della notte, personale, mezzi e assetti tecnici per i primi interventi di supporto alla popolazione.

In particolare, dopo una prima ricognizione alle ore 23.00 da parte di personale militare presente sul posto e a seguito della riunione del Comitato Operativo presso la Protezione Civile, già dall’una di questa notte, alcuni elicotteri dell’Aeronautica Militare e dell’Esercito sono impiegati per il trasporto sull’isola di personale specialistico dei Vigili del Fuoco e della Protezione Civile, nonché di materiali speciali e attrezzature varie.

Nel frattempo, sono stati posti in prontezza anche militari, elicotteri e navi della Marina Militare, nonché personale specialistico del genio dell’Esercito, in grado di intervenire nell’arco di poche ore, laddove fossero richiesti.

Inoltre, nella mattinata di oggi sono previste attività di ricognizione aerea da parte di velivoli AMX e di un Predator dell’Aeronautica Militare per mettere a disposizione della Protezione Civile ulteriori informazioni al fine di elaborare una migliore valutazione dei danni e una mappatura dell’area.

Tecnologie e mezzi delle Forze Armate sono impiegabili sia per scopi militari che civili. Tale capacità di fornire un servizio utile per la collettività nazionale – la cosiddetta dual use – si concretizza in attività in concorso e a supporto degli interventi della Protezione Civile, come dimostra anche l’impegno ininterrotto delle Forze Armate, da agosto dello scorso anno, nelle zone colpite dal terremoto in centro Italia.

PERCHÈ QUELLO ERA IL CLIMA DEL ’68, POI CAMBIO TUTTO.

EUROPA di

“Come mai una tesi sulla Dottrina Mitterrand? Cerchi rogne?”. Una risata e poi un gesto con la mano, per farmi accomodare nel suo rifugio svizzero, un’abitazione elegante sulla riva del lago di Lugano. E’ il 2009 quando Giorgio Bellini accetta di farsi intervistare.

Apparso per la prima volta nelle cronache italiane in occasione del processo “7 Aprile 1979”, accusato di “concorso in associazione sovversiva”, il suo nome ritornerà sulle pagine dei giornali con l’apertura delle carte della STATI, dove viene menzionato insieme a Carlos “lo Sciacallo”. Contatti con il terrorista venezuelano ricostruiti anche della commissione Mitrokhin e che lui non negherà. Nel 1994, su richiesta della procuratrice svizzera Carla Del Ponte , Bellini verrà arrestato con l’accusa di aver collaborato in occasione dell’attentato alla Radio Free Europe e scarcerato qualche mese dopo per assenza di prove.

Oggi Giorgio Bellini si dedica allo studio delle foreste e dei sentieri di montagna del suo Ticino natale.

Dal Ticino al movimento di contestazione a Zurigo. Quale è stato il suo percorso?

Sono nato in Ticino, da una famiglia della classe media. I miei genitori avrebbero voluto che studiassi, magari ingegneria come mio padre, che si era laureato al politecnico di Zurigo, o giurispudenza per diventare avvocato, come avrebbe voluto mia madre. Io, però, decisi di non studiare. Non so perchè mi prese così. Iniziai le prime letture marxiste ed ero affascinato dalla figura dell’operaio, così iniziai l’apprendistato in fabbrica. Solo che molto presto mi resi conto che era una vita che non faceva per me e decisi di prendere la maturità. Erano gli anni ’60, gli anni in cui iniziò, un po’ per caso, anche la mia attività politica. Insieme ad un gruppo di ragazzetti come me, interessati dalla politica marxista ed un altro gruppo che aveva lasciato, per disaccordo, il partito socialista, fondammo “i giovani operai marxisti” o qualcosa del genere. Con il gruppo andavo spesso in Italia a sentire le riunioni della contestazione ed è lì che conobbi quei personaggi che in seguito divennero militanti di gruppi come Potop, BR, Autonomia, ad esempio Toni Negri, Oreste Scalzone, Piperno, ma allora erano solo dei giovani come me, che partecipavano alle assemblee e si interessavano di politica.

Non terminai la maturità e con l’arrivo del ’68 mi traferii a Zurigo. Inizialmente io e gli altri che si erano trasferiti come me eravamo visti come dei fannulloni, come dei giovani di belle speranze che erano andati lì con l’idea di un mondo un po’ più libero, più colorato. Insomma, eravamo degli alternativi.

E che cosa facevate lì?

Il movimento cominciò con le lotte operaie, formammo l’ “Assemblea autonoma degli operai di Zurigo”, anche se, a dire il vero, gli operai lì avevano una certa pace del lavoro. Dopo arrivarono i lavoratori del nord Italia che erano di estrazione comunista. Ci unimmo agli italiani per ragioni linguistiche e culturali. Poi si aggregarono alcuni, ma pochi, svizzero-tedeschi che erano un po’ interessati alla linea che difendevamo noi, che era una linea operaista, autonomista.. potere-operaista diciamo, “potoppista”. Lavoravamo per far conoscere quello che succedeva in Francia, in Germania, in Italia e viceversa: si pensava di poter mettere in ordine l’Europa. Era comunque qualcosa di molto spontaneo, ci si riuniva per parlare delle lotte operaie, si organizzavano anche delle azioni, tipo distruzione di vetrine, blocco del traffico..

Il gruppo girava intorno alla libreria nella quale lavoravo, dove raccoglievamo e vendevamo libri marxisti, con un certo tipo di riflessioni e poi anche libri di Toni Negri. Intorno alla libreria si formò anche una rete di “supporto logistico”, anche se parlare di rete logistica è forse troppo.. non era una cosa ben organizzata.. però davamo l’ospitalità, prima a gente che doveva scappare dall’Italia, inizialmente erano operai coinvolti in disordini. Più tardi c’erano, invece, persone che scappavano perché coinvolte, tra virgolette, nella lotta armata: gente delle Brigate Rosse, gente di Potere Operaio… La Svizzera aveva un po’ questo ruolo di primo passaggio, dato che si trova proprio nel centro dell’Europa e perché non c’erano lotte politiche molto radicali.

Vi limitavate ad ospitare i compagni?

Beh, è successo che avendo in giro questa gente, questi compagni come si diceva allora, si è capito che in Svizzera era facile procurarsi materiali e delle armi e quindi un po’ di questa roba è stata rubata, mandata in parte in Italia, in parte in Grecia, a volta verso la Spagna, insomma dove c’era necessita. Però questo non era un’attività molto organizzata: ogni tanto alcuni di noi che si occupavano del logistico, dell’ospitare la gente, facevanouna ricerca un po’ più sistematica, di questi materiali (ad esempio Morlacchi e Petra Krause, che poi furono arrestati), però direi che non era una cosa molto importante. Poi le autorità svizzere tedesche su queste cose erano molto severe, non transigevano. In Ticino erano un po’ più all’italiana, c’era più tolleranza; c’erano naturalmente i magistrati che dovevano assumere il loro ruolo in caso di infrazioni, però lo facevano senza troppo accanimento, perchè in quegli anni lì si era un po’ sotto l’influenza delle ’68, i magistrati, almeno in Ticino, erano persone che venivano da quell’esperienza.

Fino a quando è durata la vostra attività a Zurigo?

Quella fase si è concluse già nella prima metà degli anni ’70- Dopo molti gruppi si sciolsero e cpminciarono altre cose, il femminismo, ad esempio. Inoltre con l’espulsione, a causa della crisi del petrolio, di una grande fetta di operai italiani, il movimento diventò più un misto: si iniziò a parlare tedesco e non più italiano; a quel punto li non ci vedevamo più noi stessi come ticinesi ma come zurighesi, e portavamo avanti la lotta non più per salvare gli altri ma per salvare noi stessi, cioè capimmo, come diceva il femminismo, che il personale è politico e quindi ci unimmo al altri filoni di lotta, nei quartieri, contro il traffico e poi soprattutto sul nucleare. Lavoravamo soprattutto nei quartieri, nel Kreis 4 e 5 .

Il coordinamento diventò più effettivo soprattutto tra Svizzera, Germania e Francia mentre l’Italia rimase tagliata fuori perché era un paese che esprimeva ancora lotte di tipo tradizionale, mentre il nord europa aveva cominciato ad esprimere lotte del futuro: movimento antinucleare, movimento ecologista radicale, queste idee nuove ebbero un enorme peso ed è in questo senso che si intrapresero operazioni anche importanti. In Italia si rimaneva ancorati a vecchi schemi, era un mondo di interpretare la realtà tipico del movimento in Italia. Questo è abbastanza interessante: le inchieste sociologiche hanno evidenziato i cambiamenti di valore nelle diverse popolazioni e mi ricordo che soprattutto nella Svizzera tedesca in quegli anni li ci fu un cambiamento incredibile dei valori di riferimento, mentre per l’Italia rimasero abbastanza stabili.

Col tempo, poi, io mi allontanai dal movimento: il paradosso è che io lottavo per una maggiore libertà ed il movimento era il posto in cui mi sentivo meno libero; li ti senti sempre sotto pressione, una situazione che mi ha portato a dire e fare cose che non avrei realmente voluto dire o fare.

Il suo impegno nel movimento le è costato dei processi penali..

Sono stato arrestato la prima volta perché coinvolto nel processo 7 Aprile in Italia. Il mio nome fu fatto da Toni Negri: lui è stato uno dei primi che abbiamo ospitato quando ce n’è stato bisogno, poi ci ha ripagato mettendoci in mezzo nel processo sul 7 Aprile.

Quando fui arrestato a Monaco la Germania non concesse l’estradizione chiesta dall’Italia, perché ero accusato di partecipazione a banda armata, che in Germania è considerato reato politico e la Germania non concede l’estradizione per reati politici. Sono comunque rimasto dentro un anno. A causa del processo per il gruppo 7 Aprile non sono più potuto tornare in Italia fino ad 2001.

L’ultima volta invece rimasi in prigione solo 3 mesi e mi dovettero anche pagare dopo. Questo accadde perchè con l’apertura delle schede della STASI venne fuori anche il mio nome, insieme a quello di Carlos. Con lui ci eravamo effettivamente conosciuti, lui mi chiedeva come procurare dei materiali per degli attentati che era facile trovare in Svizzera, ma niente di più. Le informative venivano dall’Ungheria dove Carlos era molto attivo ed anche tollerato, ma non era un uomo dei servizi, assolutamente. Venne accusato per una bomba alla Radio Free Europe di Monaco, in cui morì anche un uomo. Io, quando fui arrestato in Germania, mi trovavo proprio in un treno che passava anche per Monaco, in realtà stavo tornando da Norimberga, dove ero andato a vedere il museo dei giocattoli, ma la Carla Delponte collegò il mio viaggio da Monaco alle carte della STASI e sostenne che io mi ero recato a Monaco per organizzare quell’attentato con Carlos. Non furono trovare abbastanza prove neanche per formalizzare l’accusa e dovettero prosciogliermi. In quell’occasione venne a Berna il magistrato Bruguière dalla Francia, per sentirmi come informato dei fatti, perché inizialmente mi chiamarono a Berna per sentirmi, non per arrestarmi. Quando però mi trovai a Berna in vesta di inquisito non parlai, come di solito faccio, perché non era più considerato solo uno informato, ma un complice. Ci sono quei magistrati come Bruguière a cui interessano persone come me in quanto informate, perché solo così puoi ricostruire i fatti ; poi ci sono quelli come la Delponte che non capiscono questa cosa e a cui interessa solo arrestare la gente subito.

Oltre all’atteggiamento dei magistrati, un punto controverso fu anche l’uso che si fece delle testimonianze dei pentiti..

Tra le dichiarazioni dei pentiti ci sono cose vere, so anche di cose false. Il problema è vedere se un sistema di giustizia può far condannare qualcuno in base a delle dichiarazioni e basta. Ecco, e lì è la grossa anomalia italiana, anche se adesso è diventata di moda. Queste normative italiane hanno provocato degli effetti estremamente perversi, perchè bastava che uno accusasse altri e se la cavava. Beh senza ripetere sempre la stessa storia, però Savasta che era accusato di 17 omicidi, però accusando altri è uscito abbastanza in fretta, mentre altri che non avevano mai ammazzato nessuno come Sofri, che si è sempre rifiutato di chiedere la grazia, magari sono ancora dentro. In altri paesi questa anomalia è stata guardata con un certo sospetto, ma è finita ad inquinare anche altri ordinamenti. La Francia è forse il paese che ha detto più chiaramente no a questa prassi. Poi non è che loro siano molto meglio, comunque! Poi ci fu la cosiddetta “Dottrina Mitterrand” che era sostanzialmente un accordo tra Mitterand e Craxi. Quest’ultimo era stato sempre più “liberale” sulla questione del terrorismo. Sapere di centinaia di italiani in Francia che potevano essere giudicati in Italia era un problema, quindi si misero d’accordo così.

Della lotta armata in Italia che idea si è fatto?

La lotta armata in Italia è un fenomeno chiaro, spiegato. In Italia c’è sempre stato un partito comunista forte, c’è stato un certo tipo di resistenza, ci sono state anche manifestazioni di stalinismo e queste cose hanno avuto il loro peso e possono servire almeno in parte a spiegare un fenomeno come le BR , soprattutto la piega che le BR poi han preso.

Ora, che dei movimenti armati o dall’intenzione di armarsi, siano nati all’interno di un movimento come quello del ’68 questo mi sembra assolutamente normale, non è un’anomalia, era “dans l’air du temps” e se ne parlava dappertutto. Non dimentichiamo che a quei tempi c’era Che Guevara, c’erano i palestinesi che cominciavano a fare le loro azioni, cioè sembrava che queste cose fossero possibili. Poi questo fenomeno aveva specificità proprie nei vari paesi: in Italia nella contestazione la parte operaia era molto forte, anche se gli studenti avevano il loro peso però la parte dell’operaio e proprio dell’operaio di fabbrica era estremamente importante e portava dentro delle tradizioni comuniste che hanno ereditato le BR. Mentre in altri paesi europei questa presenza era meno forte e meno importante. Poi c’ erano certamente dei cattivi maestri, Toni Negri ad esempio, ma anche Sofri. Le persone che li hanno ascoltati erano persone che hanno preso le armi e si sono poi rivolte in direzioni altre rispetto alle loro idee. Quindi può essere che uno come Negri, per salvare quello che era il suo progetto, la sua linea, abbia sacrificato quella manovalanza un po’ incontrollabile, che non aiutava alla sua causa. Se sia sceso a patti con i carabinieri non lo so, ma non mi sorprenderebbe.

Per quel che riguarda i servizi io credo che una strategia della tensione in Italia ci sia stata. Ora, qualcuno l’avrà pure organizzata, non lo so, posso immaginarmi che siano stati i servizi, però certamente era una strategia della tensione, non tanto gli opposti estremismi, perchè la lotta armata è venuta dopo e non so se i servizi abbiano proprio tollerato la presenza di gruppi armati, come si dice, probabilmente hanno un po’ sotto valutato la situazione dal loro punto di vista di garanti dello stato.

Della lotta armata italiana quello a cui tutti pensano è il sequestro Moro e quindi le Brigate Rosse. Di questo gruppo lei ha conosciuto il leader Moretti, cosa ci può dire a riguardo?

Moretti era un burocrate della lotta armata e parlava da vero stalinista. In realtà tutti gli scritti delle BR sembravano i compitini di una scuola elementare marxista!

Moretti aveva una paura tremenda delle possibili infiltrazioni, quasi una fobia. Il cambiamento delle BR con Moretti non lo attribuirei a lui, ma ad una tipologia di persone che confluirono nelle BR, specialmente dal ’77. Era, quello italiano un movimento operaio molto forte, molto comunista/stalinista che si unì poi ad una generazione di individui che “presero in mano una pistola, prima di prendere in mano un libro”. La decisione di uccidere Moro per esempio non venne da chi sa dove, venne dalla base delle BR che era stalinista e violenta. Noi tutti del movimento dicevamo a Moretti “ma dai, che volete di più, avete fatto un già un casino, dovreste essere più che soddisfatti, lasciatelo andare”, ma poi loro consultarono la loro base e presero quella decisione.

Tutti i tentativi, specialmente quelli fatti dalla Commissione Mitrokhin, di trovare qualche collegamento con i servizi dell’est sono solo dei teatrini. Su una cosa potrei mettere la mano sul fuoco: che le BR non fossero infiltrate o pilotate dai servizi dell’est. Ed il fatto che non avessero contatti neanche con i servizi italiani è mostrato dal fatto che fu mandato a Beirut, e si sa, il generale Giovannone per cercare contatti con i palestinesi al fine di trovare un canale con le BR. Fu messo a disposizione un aereo per i palestinesi, per andare a cercare qualcuno delle BR, ma neanche i palestinesi avevano contatti con loro. Infatti poi venne Carlos da me per chiedermi di metterlo in contatto con le BR.. Ovviamente ai quei tempi le cose erano più lente, non c’era il freccia rossa! Così nel frattempo Moro venne ucciso.

Comunque credo che sulle BR sia stato detto tutto, si sa tutto. Cercare connessioni, manipolatori sono solo degli alibi. Io non leggo più i giornali italiani dal dopo Moro, da quando direi tutti gli intellettuali, giornalisti dell’epoca che dopo il ’68 solidarizzavano con le persone del movimento arrestate, hanno cambiato totalmente campo ed hanno iniziato a condannare proprio coloro che fino ad un momento prima difendevano. Perché quello era il clima del ’68, poi cambiò tutto.

Intervista a Giorgio Bellini, Lugano 2009 – Prima pubblicazione in “Dottrina Mitterrand. Ideologia o Realpolitikk?”, Università di Trieste, 2009

Di Carla Melis

PRESIDENTE ROCCA CRI, NECESSARIO UN PIANO A LUNGO TERMINE PER LA STABILIZZAZIONE DELLE AREE DI CRISI

EUROPA di

New York, il 17 agosto il Presidente della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa Internazionale ha incontrato il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres nell’ambito del vertice “ La crisi del mediterraneo e i flussi migratori”. Un vertice importante per i paesi europei e del mediterraneo che in questi anni hanno dovuto fronteggiare la crescita costante dei flussi di migranti provenienti dalle nazioni più povere e instabili dell’Africa e del Medio oriente . Abbiamo potuto parlare con il Presidente Rocca al termine dell’incontro per approfondire i temi discussi a New York.

Presidente Rocca, questo incontro a New York è stato molto importante per mantenere alta l’attenzione sul problema dei flussi migratori nel mediterraneo , qual’è il messaggio più importante che ha voluto portare all’attenzione del Segretario Generale Guterres?

“Sicuramente Il tema dell’accesso umanitario in Libia e nel mar Mediterraneo ovvero il ruolo degli operatori umanitari che in questo momento è sotto attacco per molti motivi, ribadire che l’azione umanitaria è una azione fondamentale per i diritti fondamentali delle persone, questo è stato il messaggio principale con le preoccupazioni per il personale che in questo momento in Libia non può accedere liberamente, non ci sono le condizioni di sicurezza e legali per farlo. ”

Infatti bisogna ricordare che sia il governo di Gheddafi che i nuovi rappresentanti Libici non hanno mai sottoscritto le convenzioni di Ginevra in tema di protezione dei rifugiati.

Il tema dei flussi migratori è molto delicato e di difficile soluzione, come lei ha sottolineato più volte, chi fugge da guerre e carestie troverà sempre una strada per mettere in salvo la propria famiglia, qual’è secondo lei la soluzione migliore per questo problema?

Nessuno ha una soluzione chiavi in mano per un tema così delicato ma va sottolineato che l’anno scorso a New York c’è stato un grande dibattito sul problema del fenomeno migratorio e della crisi dei rifugiati, è stata adottata una carta con degli impegni che però al momento sono rimasti solo sulla carta. Quello che servirebbe nel medio lungo termine, che non risolverebbe il problema nel breve, ma nel medio lungo termine aiuterebbe a contenere il fenomeno migratorio, ovvero un intervento massiccio in Africa a sostegno della stabilizzazione di quei paesi che generano migrazione, vuoi perche paesi in conflitto o di crisi economica.”

Quanti sono i volontari della CRI impegnati nell’accoglienza dei migranti ?

Se consideriamo tutte le attività che la cri pone in essere dal momento dell’arrivo, lo sbarco, ai centri di accoglienza si parla di diverse migliaia di almeno una rotazione di 8000 volontari.

Cosa ne pensa del nuovo regolamento di condotta per le ONG che partecipano alle attività di Search and Rescue al largo delle coste libiche?

Il nuovo regolamento non aggiunge e non toglie nulla all’arrivo dei migranti, vorrei che fosse chiaro, comunque la si pensi, il codice non toglie nulla rispetto l’accesso. Ci sono diverse sensibilità come per esempio Medici senza Frontiere che a mio avviso vanno assolutamente rispettate, il codice di condotta non ha inlfuito minimanente sulla riduzione dei flussi, quello che invece ha ridotto I flussi è la decisione scellerata, a mio avviso , della guardia costiera libica di impedirte l’accesso nelle acque internazionali, non parliamo di acque territoriali libiche sia ben chiaro, nessuno vuole operare nella acque territoriali libiche, ma nelle acque internazionali.

Questa è una delle ragioni di preoccupazione che è stata condivisa ieri con il segretario generale, insieme alla necessità di avere una azione libera degli operatori umanitari in Libia. I migranti non devono essere mandati indietro, I respingimenti collettivi sono illegali nel momento che vengono salvati nelle acque internazionali.

Si aspetta da parte dell’Onu un sostegno all’ipotesi di far aprire alla Libia il supporto degli operatori umanitari?

Si certo l’ONU sta già studiando la situazione, c’è un dialogo , ma non ci dimentichiamo che stiamo parlando di un paese in conflitto, non c‘è una soluzione semplice ma si chiede di farci fare il nostro lavoro di operatori umanitari e di esprimere le gravissime preoccupazioni sulle condizioni di sicurezza I centri di detenzione dei migrant in Libia sono dei posti che generano violenza , testimoniata da diversi rapporti indipendenti.

Il Presidente Rocca ha potuto rappresentare all’ONU una situazione che non ha possibilità di soluzione nel breve termine e che potrebbe solo peggiorare se non affrontata con progetti a medio lungo termine nei paesi di provenienza con uno sforzo unitario della comunità internazionale teso alla stabilizzazione del Centro Africa e del medio Oriente

 

Alessandro Conte

LE FORZE IRACHENE INIZIANO A LIBERARE TALA AFAR

MEDIO ORIENTE/SICUREZZA di

ASIA SUDOVA, 20 agosto 2017 – Le forze di sicurezza irachene hanno iniziato la loro offensiva per liberare la città di Tal Afar dallo stato islamico di Irak e dalla Siria, i funzionari in comune di Task Force Combined Combined Resolve hanno dichiarato oggi.

La coalizione globale contro l’ISIS accoglie favorevolmente la dichiarazione del primo ministro iracheno Haider al-Abadi che ha annunciato oggi il lancio dell’offensiva per liberare Tal Afar e il resto della provincia di Ninevah e dell’Iraq settentrionale dall’ISIS, il generale Gen. Stephen J. Townsend, il comandante Delle forze statunitensi e di coalizione in Iraq e in Siria, ha detto in una dichiarazione.

Tutti i rami delle forze di sicurezza iracheni parteciperanno alla liberazione di Tal Afar: i 9, 15 e 16 divisioni dell’esercito iracheno, il servizio controterrorismo, la polizia federale e la divisione di emergenza e la polizia locale irachena, nonché le forze di mobilitazione popolare Sotto il comando di Abadi, ha dichiarato i funzionari delle task force.

“Dopo la loro vittoria storica a Mosul, le [forze di sicurezza irachene si sono dimostrate una forza capace, formidabile e sempre più professionale e sono pronti a portare un’altra sconfitta all’ISIS a Tal Afar”, hanno dichiarato i funzionari della coalizione in una dichiarazione. “La coalizione continuerà ad aiutare il governo e le forze di sicurezza a liberare il popolo iracheno e sconfiggere ISIS attraverso cinque mezzi: fornendo attrezzature, formazione, intelligenza, incendi di precisione e consigli di combattimento”.

Completamente impegnato

Anche se la recente liberazione di Mosul, la seconda città irachena, è stata una vittoria decisiva per le forze di sicurezza irachene, non ha segnato la fine dell’ISIS in Iraq o la sua minaccia a livello mondiale “, ha detto Townsend.

“L’operazione [delle forze di sicurezza irachene] per liberare Tal Afar è un’altra importante battaglia che deve essere vinta per assicurare che il Paese ei suoi cittadini siano infine liberi di ISIS”, ha aggiunto. “La coalizione è forte e pienamente impegnata a sostenere i nostri partner iracheni fino a quando ISIS viene sconfitto e il popolo iracheno è libero”.

I funzionari della coalizione stimano che da 10.000 a 50.000 civili rimangano dentro e intorno a Tal Afar, afferma la dichiarazione di task force e la coalizione applica norme rigorose al suo processo di targeting e prende “straordinari sforzi” per proteggere i non combattenti.

“Conformemente alle leggi del conflitto armato e al sostegno delle sue forze partner che rischiano ogni giorno di vivere la loro vita nella lotta contro un nemico malvagio, la coalizione continuerà a colpire validi obiettivi militari, dopo aver considerato i principi della necessità militare, dell’umanità , Proporzionalità e distinzione “, ha dichiarato la dichiarazione della coalizione.

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