GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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MEDIO ORIENTE - page 11

Save the Children, fame e insicurezza per i bambini nella città di Douma

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Sono molti i bambini malnutriti a causa di una grave carenza di cibo e materiale medico nella città di Douma – Ghouta orientale –  dove, mentre proseguono le negoziazioni per un accordo di riconciliazione, decine di migliaia di civili restano nell’area sotto al controllo dell’opposizione. A denunciarlo Save the Children, l’Organizzazione internazionale che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro.

Le organizzazioni locali sul campo continuano, intanto, a fornire aiuti porta a porta nei rifugi dove si trovano molti civili in cerca di sicurezza: nell’ultima settimana i partner di Save the Children a Douma hanno raggiunto oltre 1.000 persone al giorno con pasti caldi e hanno fornito cibo ai bambini malnutriti.

Molti operatori umanitari e medici, inoltre, sono già fuggiti insieme alle loro famiglie e, secondo le segnalazioni, nella città resterebbero ora solo due medici pienamente qualificati.

Save the Children esprime profonda preoccupazione per la sicurezza degli operatori umanitari e degli altri civili, sia per coloro che restano nell’area del Ghouta orientale, sia per coloro vengono evacuati verso altre zone.

È essenziale che gli attori coinvolti nel conflitto lavorino con le Nazioni Unite e con il Comitato Internazionale della Croce Rossa per assicurare che tutti coloro che scelgono di rimanere siano protetti da violenza, arresti arbitrari e rappresaglie, così come è cruciale che ai civili che lo desiderano sia consentito di abbandonare le aree in mano all’opposizione. La sicurezza dei civili, inoltre, deve essere garantita anche nelle aree verso le quali fuggono: a Idlib, dove migliaia di famiglie sono state evacuate nel corso delle ultime settimane, un significativo incremento di attacchi aerei mortali ha condotto alla morte di bambini e operatori umanitari.

A febbraio il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 2401 – con cui chiede la cessazione delle ostilità per 30 giorni, a livello nazionale –, la quale deve essere attuata immediatamente per garantire che gli aiuti raggiungano le persone più vulnerabili.

Appello del Governo Regionale del Kurdistan, basta violenza sui cristiani in Iraq

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Ancora violenza contro la comunità cristiana in Iraq, a denunciarle questa volta l’alto rappresentante del governo autonomo del Kurdistan in Italia Rezan Kader in una nota per la stampa.

È di pochi giorni fa la notizia del massacro di una famiglia cristiana a colpi di coltello nella loro abitazione nel quartiere di Mashtal a est di Baghdad. Uccisi e derubati in casa propria da un gruppo di persone armate, un copione tristemente noto nella regione  che ha lo scopo di realizzare una vera è propria pulizia religiosa.

“Quindici anni fa i cristiani in Iraq erano circa un milione e mezzo, localizzati per lo più nella piana di Ninive, oggi sono 300mila per i 2/3 rifugiati nel Kurdistan Iracheno” ha dichiarato il portavoce Kader “ L’Isis è stato il colpo finale ma l’esodo è cominciato molto prima.”

Il problema della persecuzione dei cristiani è un tema poco dibattuto in occidente e purtroppo anche in Italia ma i numeri sono in continuo aumento e rischiano di creare una spaccatura di carattere religioso in varie zone del medio oriente, in Asia e in Africa .

“ Il governo Regionale del Kurdistan ha sempre lottato per la convivenza etnico-religiosa “ continua il rappresentante Kader “ considerando la comunità crsitiana come un tassello fondamentale del mosaico Kurdo. Oggi, alla luce della crisi umanitaria e delle continue violenze verso i nostri fratelli cristiani, chiediamo  a tutta la comunità internazionale di supportarci affinché  si interrompano le violazioni dei diritti umani e si restituisca una vita normale a chi l’ha tragicamente persa” , questo l’appello alla comunità internazionale del portavoce Rezan Kader che speriamo possa trovare ascolto.

Siria: Save the Children, il cessate il fuoco nel Ghouta orientale in fumo già il primo giorno

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A causa dei bombardamenti intensi, l’Organizzazione è stata costretta a sospendere le distribuzioni di aiuti umanitari previste in mattinata 

Il cessate il fuoco di cinque ore al giorno proposto dal presidente russo nell’enclave assediata del Ghouta orientale è andato in fumo già il primo giorno, con colpi di artiglieria e attacchi aerei che sono stati riportati tra le 9 e le 14 odierne in molte zone, tra cui Harasta e Douma, e che hanno causato numerose vittime tra i civili. A causa dei bombardamenti intensi – con 32 attacchi aerei registrati tra le 12 e le 14 – abbiamo dovuto sospendere la distribuzione di aiuti umanitari programmate per questa mattina, denuncia Save the Children, l’Organizzazione internazionale che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro.

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Siria, il Ghouta trappola mortale per 350.000 civili

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Save the Children chiede il cessate il fuoco.

I bombardamenti governativi contro le forze di opposizione al gverno di Assad stanno provocando un numero altissimo di vittime,  si contano 1.285 feriti e 237 morti in due giorni e mezzo, tra il 18 febbraio e la mattina del 21 febbraio ma nel complesso sono 350.000 i civili che restano intrappolati.

Colpiti anche gli ospedali, come ha denunciato Save The Children, e nei rifugi i bambini sono senza acqua e cibo con il rischio di esporsi a malattie e infezioni.

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Dopo la battaglia nessuno ricorda la questione curda

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Un vecchio detto di quel popolo recita: “I Curdi hanno come amici solo le loro montagne”. Sembra che la saggezza popolare colga ancora nel segno meglio di ogni analisi politica o di ogni promessa pur dispensata a piene mani. Anche se, dopo aver letto dei loro sacrifici, le opinioni pubbliche occidentali hanno imparato a conoscere ed apprezzare qualcosa della storia dei curdi i diffusi sentimenti di simpatia non sembrano essere bastato a spingere i Governi occidentali a un minimo di riconoscenza. I curdi di Siria e di Iraq sono stati la forza di combattimento piu’ efficace per fermare l’avanzata dei seguaci del “Califfo” che sembrava irresistibile e sono stati altrettanto utili per la riconquista dei territori occupati dai fanatici islamisti. Ciò che però li ha fatti amare da europei e americani non è stato soltanto il coraggio dimostrato sui campi di battaglia, ma anche il fatto che, pur essendo di religione islamica, vivano la loro fede senza alcuna intolleranza verso altre religioni e sembrino condividere i valori che ci appartengono. Molti di loro han vissuto o studiato all’estero e parlano piu’ lingue e, quasi ovunque, le donne nelle loro società non sono discriminate né sottomesse.

Tuttavia, la realpolitik non considera la riconoscenza né la simpatia e, come nel passato, le promesse ricevute e le aspettative che ne derivavano sono state tradite. È successo prima in Iraq e ora in Siria.

BREVE STORIA RECENTE: IRAQ

Forte dei meriti conquistati sui campi di battaglia e convinti che si dovesse in qualche modo obbligare Baghdad a venire a patti piu’ favorevoli, il Governo regionale del Kurdistan iracheno (KRG) aveva indetto lo scorso 29 settembre un referendum consultivo tra la propria popolazione chiedendo se si voleva l’indipendenza. Come ampiamente previsto, il 93 percento dei votanti rispose affermativamente e il Presidente Regionale, Massoud Barzani, pensò che o si sarebbe realizzato il sogno che i curdi coltivavano da almeno un secolo o, nel peggiore dei casi, avrebbe potuto negoziare con il Governo iracheno da una posizione di maggior forza. Naturalmente sapeva che Iran, Turchia e Baghdad stessa erano state contrarie fin dall’inizio a quella consultazione e lo avevano diffidato dal tenerla, minacciando ritorsioni. Anche Washington lo aveva invitato a posporre il voto, giudicandolo inopportuno in quel momento. Ugualmente si erano espressi i Governi europei. Israele, al contrario ma sottovoce, si era pronunciata a favore, così come fecero qualche ex diplomatico e politici stranieri. Barzani si era convinto che, in caso di un voto plebiscitario, anche le potenze riluttanti avrebbero dovuto accettare lo stato di fatto e i rappresentanti curdi residenti nei vari paesi lo confortavano in quella convinzione. La realtà fu ben diversa e immediatamente dopo il voto Iran e Turchia annunciarono di chiudere tutti valichi di frontiera con il Kurdistan e di impedire il sorvolo di qualunque aereo diretto agli aeroporti della Regione. Contemporaneamente, il Primo Ministro iracheno Al Abadi inviò proprie truppe affiancate da milizie sciite contro le città e le aree strappate dai Peshmerga all’ISIS e le riconquistò quasi senza colpo ferire. L’obiettivo principale della manovra irachena fu Kirkuk, il centro petrolifero per eccellenza, che dalla conquista da parte curda era diventato la maggior fonte di introiti per il Governo di Erbil. La vendita era fatta direttamente attraverso un nuovo oleodotto che arrivava in Turchia rimanendo interamente sul territorio controllato dal KRG. Kirkuk era stata una città abitata prevalentemente da curdi ma arabizzata durante gli anni di Saddam Hussein. Nonostante Erbil la reclamasse, dopo la liberazione dalla dittatura non fu inserita nella Regione Autonoma e, ancora prima dell’inizio del conflitto con lo Stato Islamico, rimase uno dei contenziosi sempre aperti tra la capitale nazionale e quella regionale. Un altro forte motivo del contendere è una diversa interpretazione della Costituzione irachena (approvata con voto popolare) in merito al possesso e allo sfruttamento dei nuovi pozzi petroliferi. I curdi sostengono che solo quelli in territorio arabo debbano essere gestiti a livello statale, mentre quelli nuovi aperti e sfruttati nel Kurdistan devono essere gestiti, anche per la vendita, direttamente dalla Regione. Naturalmente, Baghdad sostiene che tutto quanto si trovi all’interno dello Stato Iracheno costituisca una proprietà statale indivisibile e che la commercializzazione del petrolio debba tutta passare dall’Ente statale SOMO. Anche i diritti doganali sono un oggetto del contendere perché’ Erbil rivendica a sé tutto quanto derivi dalle merci in transito sul proprio territorio. Perfino nelle modalità di accesso c’erano differenze: se un Europeo atterrava a Baghdad, per entrare nel Paese doveva essere munito di visto; se, invece, si fosse diretto solo in Kurdistan nessun visto gli era richiesto.

A seguito di quel contenzioso e nonostante numerosi tentativi di negoziazione, dal febbraio 2014 Baghdad ha sospeso il pagamento del 17% del budget pubblico statale che, secondo Costituzione, dovrebbe essere versato al KRG. Nel frattempo, nel 2013, cominciarono gli scontri con le truppe del “Califfo” e l’eliminazione delle entrate previste fece sì che la situazione economica della Regione iniziasse a diventare rischiosa. Fino a quel momento il Kurdistan era andato sviluppandosi velocemente grazie a investimenti locali e stranieri e alle nuove entrate petrolifere. Purtroppo la fine dei versamenti in arrivo da Baghdad, i prezzi in calo del petrolio (tra l’altro venduto necessariamente a prezzi piu’ bassi del valore di mercato, causa le diffide lanciate dal Governo iracheno a chi avesse comprato direttamente dai curdi), il costo della guerra in corso e il dover provvedere alla gestione di quasi due milioni di rifugiati (la popolazione autoctona della regione curda non arriva ai sei milioni) misero le finanze del Governo locale in ginocchio. Una grande fetta degli abitanti lavora nell’apparato pubblico o dipende da esso e, per la carenza di denaro, molti stipendi dovettero essere tagliati anche del 75%. Baghdad aveva interrotto anche l’aiuto umanitario destinato ai rifugiati ed elaborato un piano finanziario per il 2018 che prevedeva forti tagli delle somme destinate alla regione curda. Fu anche per cercare di tacitare il calo dei consensi popolari e obbligare gli altri partiti a ricompattarsi attorno al Governo che il Presidente Barzani decise il referendum. Non tutti erano convinti che fosse la soluzione giusta ma opporvisi pubblicamente sarebbe suonato come il tradimento di una secolare ambizione comune.

L’intervento dell’esercito iracheno e delle milizie sciite iraniane di Al Shaabi su Kirkuk sembra sia stato preceduto da un colloquio del Generale iraniano delle Guardie Rivoluzionarie Qassem Suleimani con alcuni esponenti del partito (PDK) del defunto leader Jalal Talabani e tutti oggi pensano che ciò spieghi perché’ i Peshmerga filo-PDK dispiegati alla difesa della città si allontanarono senza combattere appena le truppe nemiche si avvicinarono. La reazione del partito di Barzani fu immediatamente di gridare al tradimento e forti critiche furono lanciate verso gli USA che, implicitamente, avevano consentito l’operazione senza battere ciglio. Furono notati sul campo carri armati e armi a suo tempo forniti dagli americani agli iracheni per essere usate contro lo Stato Islamico e questo confermò i curdi nella convinzione che anche gli “amici” americani avevano tradito chi era stato fino a quel momento il loro maggiore alleato nella zona.

BREVE STORIA RECENTE: SIRIA

Anche in Siria, le forze di combattimento curde sono state indispensabili per la sconfitta dell’ISIS. Dopo la strenua difesa di Kobane ampiamente coperta dai media occidentali, i curdi avevano dato vita ad un esercito che, oltre ai locali Peshmerga, comprendeva gruppi arabi uniti a loro nella lotta contro i terroristi. Nella Siria degli Assad i curdi non erano considerati cittadini come gli altri e non godevano della cittadinanza o degli stessi diritti degli altri cittadini. Piu’ volte erano stati aperti contatti con il Governo di Damasco per ottenere un riconoscimento o una qualche autonomia gestionale, ma sempre con scarso successo. Allo scoppio del fenomeno ISIS e non parteggiando per Assad, le comunità curde avevano approfittato della situazione per creare una loro “zona franca” e impedire allo Stato Islamico e a chiunque altro di entrare nei loro territori. Ciò aveva consentito all’esercito siriano di concentrare le proprie forze su altri campi di battaglia, lasciando che fossero i curdi stessi a contrastare il comune nemico in quelle aree. Chi non si disinteressò, invece, di ciò che succedeva in quei luoghi fu la Turchia che denunciò il locale partito PYD di essere legato al PKK (considerato internazionalmente un gruppo terrorista curdo-turco). I Peshmerga siriani, la forza armata del partito denominata YPG, fu accusata immediatamente di ricevere armi e ordini dal PKK. La cosa è verosimile, anche se sia il PYD si l’YPG hanno sempre smentito ogni collegamento. Per questi motivi, durante l’assedio di Kobane, Ankara impedì che curdi di Turchia potessero unirsi ai difensori della città e, solo dopo le pressioni internazionali, consentì che vi arrivassero Peshmerga del partito iracheno PDK, considerati più vicini ai propri interessi. Va però aggiunto che, almeno in un primo tempo e non ufficialmente, armi turche erano a disposizione dello Stato Islamico per essere usate sia contro Saddam sia contro i curdi di Siria. La preoccupazione della Turchia era, fin dall’inizio, che una possibile caduta del regime di Damasco consentisse la nascita di una nuova enclave curda vicino al proprio confine. Se fosse nata una regione amministrata da curdi o addirittura se fosse nato uno Stato curdo in Siria, ciò avrebbe galvanizzato i seguaci del PKK incoraggiandoli nella loro lotta e rendendo piu’ difficile bloccare il desiderio di autonomia curda all’interno della Turchia. Anche quando Ankara, dopo l’accordo con i russi, virò decisamente a favore della lotta contro gli Islamisti, la preoccupazione che nessuna enclave curda potesse nascere in Siria continuò a essere presente nei suoi incubi.

Chi, al contrario, vide nell’YPG una forza utile per i combattimenti sul campo furono i russi e gli americani. La Russia nel periodo di forte crisi con Ankara aveva consentito a Mosca l’apertura di un ufficio di rappresentanza del PYD e si suppone che abbia anche contribuito agli armamenti dell’YPG. Gli Usa, con la filosofia di “No boots on the ground” videro nei Peshmerga siriani le truppe di terra che non volevano mandare direttamente e organizzarono addestramenti, informazioni tattiche e fornitura di armi letali. L’accordo tra americani e curdi siriani si dimostrò molto efficace sul campo di battaglia e i miliziani dell’YPG cominciarono a dilagare anche fuori dalle aree abitate prevalentemente da curdi. Nella conquista della “capitale” dell’ISIS, Raqqa, il loro contributo fu determinante, così come lo fu nella conquista di molti altri villaggi. Preoccupati che russi, turchi e iraniani si fossero messi d’accordo per spartirsi il futuro della Siria, con o senza Assad, gli americani individuarono nei curdi una loro possibile roccaforte nell’area e, all’inizio di gennaio, annunciarono l’intenzione di continuare a presidiare l’area assieme ai curdi, anche finita la guerra, con almeno 30.000 soldati. Evidentemente, perché’ questa ipotesi potesse realizzarsi, occorreva che gli americani dessero per scontato che una qualche entità istituzionale curda potesse nascere in loco. Fu questa ipotesi a convincere definitivamente Ankara ad intervenire direttamente, prima che fosse troppo tardi.

LA SITUAZIONE OGGI IN IRAQ

Come abbiamo visto, la situazione economica della Regione Autonoma Curda si trova oggi in gravi difficoltà, perfino piu’ pesante dopo la perdita di Kirkuk e la rinuncia del Presidente Barzani ad accettare una proroga del suo mandato. Il Governo di Al Abadi è uscito finora vincente dal confronto e sta cercando di capitalizzare quanto ottenuto imponendo ai curdi condizioni inaccettabili che costituiscono un passo indietro perfino rispetto all’autonomia prevista dalla Costituzione e alle libertà di cui già godevano. I posti di frontiera con l’Iran sono stati rimessi in funzione e dal 16 gennaio sembrerebbe che anche un accordo per la riapertura degli aeroporti possa essere raggiunto. Tuttavia, tra le condizioni poste ( ben tredici) per iniziare nuove negoziazioni ci sono: a)la dichiarazione scritta che il referendum sia considerato totalmente nullo, b)la rinuncia ad ogni futura richiesta di indipendenza, c)negli aeroporti curdi di Erbil e Suleimaniya devono essere presenti rappresentanti permanenti dell’Autorità dell’Aviazione Civile Irachena, d)tutti i valichi frontiera, compresi quelli con la Turchia, devono non essere piu’ controllati da forze curde ma solo da quelle irachene, e)tutti i pubblici ufficiali curdi che vogliono recarsi all’estero per qualunque motivo devono ottenere l’autorizzazione da Baghdad, f)tutti i futuri proventi doganali o derivanti dalla vendita di petrolio devono essere lasciati alle autorità Federali e la vendita degli idrocarburi deve essere effettuata solo attraverso la SOMO (l’Ente petrolifero nazionale), g)il controllo delle dighe su territorio curdo dovrà passare sotto il controllo dello Stato centrale, ecc.

È evidente che queste richieste, se mai saranno accolte, significano la fine non solo della (im)possibile indipendenza ma anche di gran parte dell’autonomia usufruita in precedenza. Il controllo iracheno di aeroporti e frontiere implica che gas, petrolio e traffici di merce varia saranno strettamente controllati da Baghdad e non sarà piu’ possibile per il KRG condurre qualunque tipo di affare con società straniere senza il permesso del Governo centrale. Perfino l’impossibilità di recarsi all’estero senza autorizzazioni per i pubblici ufficiali significa che i rapporti internazionali, tessuti accuratamente dai curdi in questi anni, dovranno anch’essi sottostare al placet iracheno.

La rinuncia di Massoud Barzani alla posizione di Presidente (nonostante resti il capo carismatico del partito di maggioranza PDK) si era resa indispensabile per cercare di rendere possibile il dialogo con le Autorità centrali senza una presenza diventata troppo ingombrante per il suo ruolo nell’indizione del referendum. Tocca ora al cugino, il Primo Ministro Nechirvan Barzani, giocare il ruolo del “moderato” e in questa veste, per cercare supporto, si è recato a Parigi, a Davos e ha chiesto di incontrare Erdogan. Nella località svizzera ha potuto incontrare molti capi di Stato e anche il Segretario di Stato americano Tillerson. Sia quest’ultimo che Macron, così come hanno fatto altri esponenti politici di altri Paesi (pure l’UE) sono intervenuti su Al Abadi, invitandolo ad aprire i negoziati senza irrigidirsi. Almeno in apparenza tutte queste azioni diplomatiche hanno ottenuto un qualche successo, tant’è che Baghdad ha preannunciato l’istituzione di una commissione parlamentare composta da curdi e da arabi iracheni che avrà il compito di affrontare tutti i motivi della discordia. Sarà composta da sette persone, di cui però cinque arabe e solo due curde. La strada di un possibile accordo è però complicata dal fatto che a maggio si terranno le elezioni nazionali e locali in tutto l’Iraq e ciò obbliga i politici delle due parti ad essere prudenti nelle rispettive concessioni. Che la situazione resti molto complicata lo si può vedere dal seguito dell’incontro avvenuto a Davos tra Al Abadi e Nechirvan Barzani. Dopo il loro colloquio avvenuto in forma riservata, il Primo Ministro iracheno ha detto ai giornalisti (e ripetuto nel suo intervento ufficiale) che un accordo era stato raggiunto in merito alla diatriba petrolifera e che i curdi avevano accettato di lasciare tutto nelle mani della SOMO. Appena informato della cosa, il Barzani si è precipitato a smentire quanto affermato dalla controparte dicendo che si trattava di una menzogna e che il loro (breve) incontro aveva solo accennato ai vari problemi senza nemmeno toccare la questione petrolifera. Il ministro curdo ha aggiunto che l’unico accordo raggiunto era che ci sarebbe stato un altro incontro nella settimana seguente.

Mentre la contrapposizione con Baghdad quindi continua, anche in casa curda i problemi non mancano. Il partito dell’Unione Islamica del Kurdistan, il maggior partito islamico della regione, ha annunciato di voler uscire dalla maggioranza di Governo per unirsi agli altri due partiti di opposizione, Goran e il Gruppo Islamico Curdo che già si erano ritirati in precedenza dopo esservi entrati nel 2013. Il Governo resta stabile poiché’ su 111 parlamentari 38 appartengono al PDK, 18 al PUK e altri voti utili sono quelli del piccolo Partito Cristiano e quello dei Turkmeni, consentendo così di arrivare a 72 voti. Anche il maggior alleato del PDK, il PUK, dopo la morte del suo capo carismatico Talabani attraversa un periodo di grande incertezza. Da piu’ di due anni non riesce a tenere il previsto congresso ed è sostanzialmente diviso in almeno tre spezzoni. La voce piu’ importante al suo interno resta quella della signora Hero Talabani, moglie del defunto leader, che ha potuto imporre uno dei figli, Qubad, al posto di Vice Primo Ministro. Tuttavia le contestazioni contro di lei sono in costante crescita e viene da molti ritenuta la vera causa della crisi interna. Hero Talabani è donna di fortissimo carattere e fu una combattente tra i Peshmerga nelle guerre contro Saddam, rimanendo pure ferita in combattimento. La persona che sembrava potesse far contenti tutti, almeno in attesa del congresso annunciato ora per il 5 marzo prossimo, sarebbe stato il Vice Presidente del Kurdistan Kosrat Rasul, già capo dei Peshmerga di Suleimaniya. Costui era appena rientrato dalla Germania ove si era recato per ricevere importanti cure mediche e qualcuno aveva pensato di affidare a lui l’incarico ad interim per guidare il partito fino al congresso. Lui stesso aveva annunciata l’intenzione di creare un nuovo esecutivo provvisorio con l’intento di includervi rappresentanti di tutte le fazioni. Il tentativo è però fallito per l’opposizione di alcuni membri dell’Ufficio Politico in carica che hanno rifiutato di dimettersi. Non manca di qualche peso anche il sospetto che una parte del partito abbia “negoziato” il ritiro da Kirkuk con gli iraniani. Ai due Barzani e al PDK non conviene enfatizzare troppo tale questione per non dover subire ricadute nella maggioranza che sostiene il Governo ma è certo che la cosa prima o poi tornerà a galla.

LA SITUAZIONE IN SIRIA

Il 20 gennaio scorso, con un’operazione chiamata (ironicamente?) Ramo d’Ulivo, l’artiglieria e gli aerei turchi hanno iniziato il bombardamento della zona di Afrin, città vicina al confine e una delle roccaforti dei curdi siriani dell’YPG. Dopo aver dichiarato che lo scopo era quello di “pulire” il terreno dalla presenza dei “terroristi”, le truppe turche sono entrate in territorio siriano e sono arrivate in prossimità della prima città obiettivo. Accompagnate da miliziani dell’Esercito Libero Siriano composto da 25.000 uomini hanno occupato il Monte Bursaya che sovrasta Afrin e conquistato il villaggio di Qestel Cindo che sta ai piedi del monte. Ufficialmente, l’azione turca si era resa indispensabile come risposta ad attacchi di missili curdi contro le cittadine turche di confine Kilis e Hatay ma è certo che il lancio di missili in territorio turco avvenne soltanto dopo i primi bombardamenti subiti dai curdi.

Ankara aveva sempre chiesto agli alleati americani (senza mai ottenerne l’assenso) di poter creare una zona cuscinetto in territorio siriano che non vedesse la presenza di popolazioni di etnia curda e ciò sempre per la paura che avere un’entità curda vicino al confine avrebbe consentita la possibilità di passaggio di armi e gruppi armati da e per il PKK. Aveva anche chiesto che gli Stati Uniti smettessero di fornire armi all’YPG e ne avevano ottenuto una dichiarazione in linea di massima che le forniture sarebbero cessate. Dichiarazione però che diventava poco credibile dopo l’annuncio dell’intenzione americana di creare un corpo di 30.000uomini armati proprio a ridosso del confine. A quel punto Erdogan ha dato il via all’operazione militare, ribadendo che considerava l’YPG, il PYD e il PKK come un’unica organizzazione terroristica e che andasse distrutta in ogni modo. Anche il Primo Ministro Binali Ildirim non è stato da meno e ha annunciato l’intenzione di “liberare” una zona di almeno 30 chilometri a partire dalla stessa Afrin. Non è la prima volta che le truppe turche varcano il confine siriano perché’ già lo fecero con carri armati e aerei nell’agosto 2016 tramite l’operazione detta Scudo dell’Eufrate. Allora, la motivazione data fu la volontà di allontanare l’ISIS dal confine e impedire l’avanzata delle milizie curde.

In realtà Ankara, con l’attuale intervento, oltre a voler impedire la creazione di un Governo curdo locale, vuole anche diventare protagonista ineludibile negli assetti della futura Siria e un’azione militare come quella ora in corso le consentirà di negoziare il futuro da una posizione di relativa forza anche con gli alleati russo e iraniano.

La reazione internazionale all’invasione turca non è stata positiva: i francesi, memori del loro ruolo storico di colonizzatori della Siria, hanno immediatamente chiesto che si riunisse d’urgenza il Comitato di Sicurezza dell’ONU e il Ministro degli Esteri Le Drian ha telefonato al collega turco Cavusoglu chiedendo di fermare ogni ostilità. Anche gli americani avevano, già il 19 gennaio, invitato i turchi a non intraprendere nessuna azione bellica in Siria, garantendo che non avrebbero costituito nessuna forza militare al confine turco siriano. Ciò nonostante i richiami sono caduti nel vuoto, perché come dice un analista politico turco: “Il dentifricio non si può rimettere nel tubetto” e: “Erdogan ha passato il suo Rubicone”. Il vice Primo Ministro turco Bekir Bozdag è arrivato a definire le richieste americane come “vuote e prive di senso”. Non bisogna dimenticare che Erdogan sta da tempo conducendo una cruenta battaglia in patria contro l’etnia curda e che la maggior parte della popolazione lo appoggia in questa direzione. Dopo l’inizio dei bombardamenti, il partito curdo di Turchia l’HDP ha invitato a scendere in piazza per contestare la decisione del Governo ma pochi sono stati i cittadini che hanno raccolto l’invito e anche i partiti che più si oppongono in Parlamento ad Erdogan si sono dichiarati favorevoli all’intervento militare.

Gli americani hanno le mani legate: i loro rapporti con Ankara sono già molto tesi a causa dell’avvicinamento turco a Mosca e per l’arresto di funzionari e diplomatici americani a Istanbul con l’accusa di sostenere i golpisti. Non va dimenticato che, subito dopo il tentato golpe, a tutto il personale americano presente nella base aerea di Incirlik fu proibito di uscire per diversi giorni e che Washington ancora rifiuta di consegnare alla Turchia la presunta mente del colpo di stato Fetullah Gulen.

Sembrerebbe, piuttosto, che prima di lanciare le proprie truppe, Erdogan si sia consultato con Mosca per averne l’avallo, ma dal Cremlino non si fanno commenti. Tuttavia (da fonte russa che cita un giornale turco) sembra che il generale Hulusi Akar a capo dell’esercito turco, prima di effettuare azioni aeree, abbia consultato la sua controparte russa Valery Gerasimov. Di certo, nell’incontro che si è tenuto negli scorsi giorni a Sochi, organizzato da Mosca con l’obiettivo di definire il futuro asseto della Siria, nessun rappresentante curdo è stato invitato, anche per il veto posto dalla Turchia. La conferenza ha previsto la partecipazione di ben 1600 invitati da Iran, Turchia, Russia e dalla stessa Siria. Europei ed americani avevano rinunciato a parteciparvi ribadendo che il luogo e il formato del negoziato rimanevano Ginevra e l’ONU mentre l’inviato ONU, Staffan De Mistura, che già era stato presente ai precedenti incontri ad Astana, ci è andato.

CONCLUSIONI

Le opinioni pubbliche occidentali e la maggior parte dei giornalisti quando parlano dei curdi pensano ad una popolazione compatta, unita dagli stessi interessi e divisa tra vari Stati (Siria, Iraq, Iran e Turchia) solo in base alla decisione di potenze straniere, decisione presa nell’unico interesse di quest’ultime. Ciò è vero solo in parte. Nel corso dei secoli, il popolo curdo ha attraversato storie ed evoluzioni diverse e anche la lingua, di origine simile al farsi, è suddivisa in piu’ dialetti rendendo non sempre facile la comprensione reciproca. Se pur è assodato che tutti condividono formalmente il desiderio di vedersi riunificati in uno Stato/Nazione, gli attuali interessi di ciascuno sono diversi e, a volte, contrastanti. Non è un caso che Massoud Barzani, intervistato dalla BBC, nel rispondere se i Peshmerga curdi sarebbero intervenuti in aiuto dei “confratelli” siriani ad Afrin, si è limitato a dire che condannava l’intervento militare perché “non è con le armi che si risolvono i problemi e mandare i Peshmerga non avrebbe risolto la situazione”. Ha aggiunto: “La piu’ grande assistenza che noi possiamo dare è cercare di fare il nostro meglio per fermare le ostilità”.

Anche in questo caso, la realtà vera è che i curdi iracheni hanno bisogno della Turchia sia come aiuto negoziale con Baghdad sia come unico sbocco per le loro comunicazioni con l’estero. Infatti, raggiungere il Golfo Persico significherebbe dover transitare da Baghdad, la Siria è nella situazione che si sa e di andare verso l’Iran non se ne parla. La stessa Iran è un altro fattore di divisione tra gli stessi curdi iracheni: mentre il PDK di Barzani ha da tempo identificato nella Turchia un interlocutore privilegiato, messo in forse solo dalla questione referendum, il PUK della famiglia Talabani ha da molto tempo un canale di comunicazione privilegiato con Teheran. L’Iran, ha già grande influenza su ogni Governo possa esserci a Baghdad e approfitta dei suoi amichevoli rapporti con il PUK per tenere sotto controllo anche il Governo di Erbil e impedire che la regione sia egemonizzata dai turchi, attualmente alleati ma concorrenti nell’ambizione di esercitare una leadership sul Medio Oriente. Il PUK ha anche contatti “riservati” con il PKK, anche se, piu’ o meno ufficialmente, il Governo Regionale Curdo iracheno collabora attivamente con Ankara nel combattere questi terroristi.

In Siria, nonostante il PYD, attraverso l’YPG controlli il territorio, una buona parte della popolazione curda non vi si riconosce e guarda piuttosto a Barzani come leader naturale. La concorrenza tra le varie fazioni è a volte palese, a volte sotterranea e smentita a gran voce, ma anche le ambizioni personali dei vari leader hanno la loro parte non insignificante.

Di tutte queste divisioni tra i vari gruppi curdi hanno sempre approfittato le potenze straniere interessate a quelle zone e, ahimè, bisogna ammettere che si sono ammazzati piu’ curdi tra loro di quanti ne abbiano uccisi armi straniere. Un esempio eclatante del secolo scorso è la strage degli armeni. È risaputo che furono i reparti curdi arruolati nell’esercito ottomano a commettere i maggiori eccidi; eppure, dove si rifugiavano gli armeni che riuscivano a scappare dalle carneficine? Presso altre tribù curde, nemiche delle prime perché’ affiliate al regno Persiano.

Anche oggi sulla pelle dei curdi si giocano partite che non li riguardano ma cionondimeno li coinvolgono. Quanto sta succedendo in Siria è anche uno scontro incrociato e a distanza tra Iran, USA, Russia, Turchia e monarchie del Golfo. Ognuno di loro vuole avere un modo per controllare tutta l’area, ma soprattutto vuole impedire che sia l’altro a farlo. Lo stesso succede in Iraq ove, non a caso, i curdi di Barzani godono l’appoggio di Arabia Saudita ed Emirati (e Israele) in funzione anti-Iran. L’inerzia (o la complicità) americana a Kirkuk li ha fatti gridare al tradimento perché’ la Regione curda ha rappresentato, e rappresenta, il miglior caposaldo a stelle e strisce in un’area egemonizzata da Teheran.

Tutti, quindi li vogliono, da una parte e dall’altra. Ciò che però tutti gli attori stranieri condividono è che nessuna fazione curda debba poter diventare troppo forte da sola e, soprattutto che i curdi non si riunifichino mai sotto un’unica nazione.

La coalizione saudita scaglia un attacco di 15 raids aerei in territorio yemenita

MEDIO ORIENTE di

La coalizione saudita, sostenuta dalle forze americane, venerdì ha sferrato quindici attacchi nella provincia yemenita di Dhamar, nel sud est del paese.

 

Tre di questi erano incursioni aree che hanno colpito lo stadio situato della città di Dhamar, causando vari danni alla struttura. Due raids aerei hanno invece colpito il Central Security Forces camp, gli attacchi hanno causato anche il danneggiamento di diverse case situate nel vicinato.

 

Altri due raids si sono abbattuti su un accampamento militare della polizia in Dhamar-alGarn, mentre tre incursioni aeree dirette all’Istituto Industriale e Tecnologico di Thi-sher, nell’area del distretto di Ans, hanno apportato diversi danni ai laboratori, le aule e le strutture dell’istituto.

 

Infine almeno altri cinque attacchi arei erano diretti a Samh, ad un campo nel distretto di Ans.

 

UNIFIL,Bint jbail: inaugurati i primi progetti di supporto alla popolazione del 2018

MEDIO ORIENTE di

​E’ stata svolta a Bint Jbeil, alla presenza del Generale di Brigata Rodolfo Sganga, comandante del Settore Ovest di Unifil a guida italiana su base Brigata Paracadutisti Folgore, una cerimonia per l’inaugurazione di due importanti progetti realizzati mediante i fondi della Cooperazione Civile-Militare italiana.

In particolare si è trattato della fornitura e dell’installazione di nuovi cartelli stradali e la sostituzione di altri cartelli deteriorati e la fornitura e l’installazione nel Palazzo della Prefettura dell’Unione di Bint Jbeil dell’impianto di illuminazione fotovoltaico.

Questi progetti, nati dalle richieste del Presidente dell’Unione delle Municipalità di Bint Jbeil, Ing. Atallah Chaeyto, e del Qaimaqam di Bint Jbeil, Prof. Khalil Dbouk, contribuiscono ad apportare, oltre ad un risparmio energetico tramite l’impiego dei pannelli fotovoltaici, un significativo miglioramento dell’efficienza della rete viaria, migliorando le condizioni di sicurezza per la popolazione locale.

UNIFIL ha avuto sin dai primi anni del suo dispiegamento nel 1978, una forte inclinazione umanitaria nell’affrontare le conseguenze delle guerre e dell’occupazione nel sud del Libano. I contingenti UNIFIL quali quello a guida italiana schierato nel settore Ovest del Sud del Libano, forniscono assistenza medica, dentale, veterinaria e di altro tipo e conducono vari programmi di formazione per le persone in settori quali informatica, lingue, produzione di pizza, maglieria, yoga, taekwondo e molti altri.

L’Italia e UNIFIL sono sempre con la popolazione, per la popolazione e tra la popolazione del Libano.

Un bilancio militare della guerra in Yemen

MEDIO ORIENTE di

L’agenzia di stampa yemenita (SABA) ha rilasciato un bilancio dell’anno 2017 che riporta tutti i traguardi bellici dell’armata yemenita inflitti nei confronti della coalizione americano-saudita. Dalle forze navali, a quelle di aviazione fino ai danni prodotti da parte dei missile lanciati, vengono elencate le perdite subite dal nemico.

Stando a quanto afferma l’agenzia di stampa l’esercito ha lanciato 45 missili balistici ed è stato colpevole della distruzione di 1,569 veicoli militali, otto unità navali e 29 aereoplani.

Un rapporto stilato dall’ufficio informazioni militare stima la distruzione di otto carrarmati, 196 veicoli corazzati e 1,337 vari armamenti.

 

Le forze navali hanno distrutto otto navi militari distribuendo due navi quattro navi corazzate, un sottomarino spia e una fregata. L’aviazione invece ha abbattuto 29 veicoli militari di diverso tipo.

 

Le unità di cecchini militari yemeniti hanno ucciso 399 soldati sauditi e 1,894 mercenari.

“Afghanistan; l’esercito afghano, assistito dagli advisor italiani, neutralizza alcuni capi dell’insorgenza locale a Farah”

MEDIO ORIENTE di

Si è conclusa nei giorni scorsi una importante offensiva dell’Esercito afgano contro alcuni capi dell’insorgenza locale presenti nella provincia sud della Regione ovest dell’Afghanistan sotto il controllo del contingente italiano su base Brigata “Sassari”.

Autorevoli fonti locali hanno infatti confermato il successo dell’operazione condotta a guida intelligence che aveva l’obiettivo di disarticolare la catena di comando e controllo dei nemici dell’Afghanistan, avvenuta attraverso l’impiego degli elicotteri in dotazione alle forze armate afgane. L’intervento chirurgico condotto dai militari locali, senza alcun impiego di militari italiani in attività operative cinetiche, ha portato alla neutralizzazione delle forze insorgenti limitando qualsiasi rischio di coinvolgimento del personale civile e conseguendo risultati di grande rilevanza per la sicurezza della città e dell’intera area di Farah.

L’operazione, frutto dell’attività di Train, Advise e Assist (TAA) a favore del 207˚ Corpo d’Armata dell’Esercito afgano ha rappresentato per il contingente italiano – forte della grande esperienza acquisita negli anni e delle capacità professionali specifiche maturate in fase di preparazione della missione – il risultato di anni di lavoro e addestramento svolto in sinergia con le controparti locali, per le quali l’esperienza degli advisor dell’Esercito ha consentito l’innalzamento degli standard operativi.

Altre operazioni continueranno ad essere pianificate e condotte nelle prossime settimane,  con lo scopo di garantire il controllo da parte delle istituzioni locali nelle aree meridionali della regione ovest ed, al contempo, una elevata cornice di sicurezza per la popolazione civile.

Irak, la Task Force Praesidium continua il coordinamento della sicurezza della DIga di Mosul

MEDIO ORIENTE/SICUREZZA di

​Prosegue il lavoro di coordinamento tra la Task Force Praesidium e le Forze di Sicurezza Irachene per implementare il sistema di cooperazione integrato messo in atto per garantire la sicurezza della Diga di Mosul e del personale. Attività che nei giorni scorsi, hanno portato alla Diga i vertici di USACE (U.S. Army Corps of Engineer) e del CJFLCC (Combined Joint Force Land Component Command) dell’Operazione Ineherent Resolve. Cinque diverse Forze di Sicurezza che operano sotto il diretto controllo di tre diversi ministeri del Governo di Baghdad e che la Praesidium ha inserito in un sistema che permetta un costante scambio informativo attraverso la standardizzazione delle procedure e lo sviluppo di attività congiunte. In occasione di entrambe le visite è stata ribadita l’importanza strategica della Diga che rappresenta un progetto prioritario per lo sviluppo e la stabilizzazione dell’area.

Apprezzamento per il lavoro svolto dal 3° Reggimento Alpini per implementare la sicurezza dell’infrastruttura è giunto dal Generale David Hill, Comandante della Divisione Transatlantica di USACE, l’Unità che ha il compito di coordinare e gestire i progetti di USACE in Medio Oriente, Asia e Egitto per oltre 8 miliardi di dollari. Nel corso della visita il Generale Hill è stato scortato dalla Praesidium con il concorso del personale del Counter-Terrorism Service. La cornice di sicurezza e la tutela del personale di USACE che opera alla Diga sono state riconosciute come azioni determinanti alla piena operatività degli ingegneri che affiancano la ditta Trevi nei lavori per la messa in sicurezza della struttura.

Il Generale Charles Costanza, Vice Comandante di CJFLCC e responsabile del coordinamento delle Operazioni della Coalizione nel nord dell’Iraq, ha invece riconosciuto il fondamentale lavoro svolto dalla Task Force Italiana per integrare le diverse componenti delle Forze di Sicurezza Irachene in un sistema di controllo che permetta una cornice di sicurezza più ampia, attraverso il coordinamento dei check-point gestiti da Counter-Terrorism Service, National Security Service, Esercito Iracheno,  Polizia Federale e Polizia del Ministero delle Risorse Energetiche.

Dopo un aggiornamento operativo fornito dai membri iracheni del tavolo di lavoro realizzato dalla Praesidium, il generale Costanza ha potuto constatare i controlli effettuati dalle Forze di Sicurezza di Baghdad presso i diversi check-point lungo le strade che conducono alla Diga. In particolare ha assistito al transito di una colonna di camion che scortati dall’Esercito Iracheno e supportati dalla TF Praesidium garantiscono i costanti rifornimenti di materiali per i lavori alla Diga. Nell’occasione il Gen. Costanza ha sottolineando l’importanza del lavoro svolto per costruire un sistema integrato che offra all’intera area, standard di sicurezza elevatissimi per la tutela della Diga e delle migliaia di persone che vi operano, mantenendo nel contempo un costruttivo rapporto di collaborazione sia con le Unità Irachene che Curde.

Redazione
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