GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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EUROPA - page 63

Il Regno Unito, dopo le elezioni che non rafforzano la May

EUROPA di

Il ricorso alle elezioni anticipate, per la premier britannica Theresa May, si è rivelato un boomerang.   Il 18 aprile aveva annunciato la sua decisione sul voto, nonostante la legislatura fosse iniziata soltanto due anni fa e i Tories avessero ancora numeri sufficienti per governare, proprio nell’intento di ottenere una maggioranza ancora più ampia che le consentisse di affrontare il negoziato di uscita dall’Unione Europea in una posizione più forte, per ottenere condizioni più favorevoli.   Ha ottenuto, invece, un risultato esattamente contrario.   I Tories hanno vinto, sì, ma di stretta misura e senza ottenere la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei Comuni. Né possono contare, al momento, su un possibile sostegno dei liberaldemocratici – di cui a suo tempo si era giovato Cameron – che hanno visto aumentare i propri seggi, ma non sembrerebbero più disponibili ad un’alleanza con i Tories.

May si trova oggi con una maggioranza relativa che, teoricamente, non le consentirebbe di governare e anche se qualche alchimia parlamentare rendesse possibile l’insediamento di un nuovo esecutivo a guida Tory, questo sarebbe probabilmente soggetto a continui e stringenti condizionamenti parlamentari e dovrebbe sottoporsi a frequenti ed estenuanti negoziazioni interne, anche per la definizione di termini e condizioni delle trattative “esterne” per l’uscita dall’Unione Europea.   E quest’ultimo negoziato appare, già di per se stesso, assai complicato, considerando l’atteggiamento in qualche modo “risentito” ” – in termini politici, naturalmente – che Brexit sembra, talvolta, aver suscitato nei vecchi partners europei e nelle leadership di Bruxelles.

Quindi la May si verrebbe a trovare, di fronte alle autorità dell’Unione Europea e ai governi dei paesi membri, proprio nella condizione opposta a quella vagheggiata, al momento di decidere il ritorno alle urne. Una condizione di complessiva debolezza, con margini limitati di discrezionalità politica, tanto nei confronti degli ex partners europei, tanto di fronte all’opinione pubblica di casa sua, spaccatasi prima sulla Brexit e ora sulle consultazioni politiche.   Il voto si è svolto, peraltro, in un’atmosfera di tensione e preoccupazione innescata dalla vittoria della Brexit stessa nel referendum di un anno fa e dai recenti drammatici episodi di terrorismo che hanno colpito il Paese.

Lo psicodramma indotto dalla storica decisione popolare di abbandonare l’Unione Europea si rivela tuttora incombente e alimenta le incognite sui destini economico-finanziari del Paese e, più in generale, sul suo ruolo futuro nello scacchiere internazionale e nei rapporti con l’Unione Europea.   Permane, probabilmente, in larga parte dell’opinione pubblica, la sensazione del salto nel buio, di un azzardo che, ancorché agevolare la soluzione dei nodi più insidiosi, abbia posto il Paese di fronte a nuove sfide e nuove insidie.    Ed è su questo scenario di persistente attenuazione di equilibri e di certezze che è calato di nuovo, sul Paese e sulla sua Capitale, l’incubo della minaccia terroristica e della sfida dell’estremismo fondamentalista, riflesso dei tormentati conflitti mediorientali, ma anche delle insufficienze rivelate dai processi di integrazione delle comunità di immigrati di più generazioni.

In questo scenario, tra i più cupi nella storia recente dell’isola che in passato ha esercitato un ampio dominio sui mari e su molte popolazioni del mondo, la risposta del Paese all’appello del Primo Ministro ad una investitura popolare che ne consolidasse la delicata missione si è rivelata alquanto tiepida, confermando la condizione di netta frattura politica, già evidenziata dal voto su Brexit.   Anzi, forse il trauma della Brexit ha alimentato la freddezza verso la leadership della May che, dopo un tiepido consenso al “remain” durante la campagna referendaria, è ora decisa fautrice di una “hard Brexit”.

In un’epoca di pesanti incognite sul fronte dello sviluppo economico, della conservazione del welfare e delle diseguaglianze sociali, il rischio di desertificazione della City e di perdita di quel ruolo di massimo crocevia della finanza internazionale rappresentato da Londra, ha indotto parte della popolazione e molti giovani, in particolare, a rifuggire quell’attrazione dell’euroscetticismo che nel Regno Unito sembrava irresistibile e riscoprire quelle istanze di solidarietà e di condivisione che sembrano incarnate proprio dal principale avversario della May, il leader laburista Jeremy Corbyn. Con il suo programma, nettamente distinto e contrapposto a quello conservatore,   che segna una sorta di discontinuità rispetto alla linea tendenzialmente centrista dei laburisti, inaugurata da Blair negli Anni Novanta, Corbyn rilancia i temi originari della sinistra radicale, propugnando la nazionalizzazione delle imprese operanti in determinati settori di pubblico interesse (energia e trasporti), l’imposta patrimoniale sui grandi redditi, imposte più alte per le società e pesanti stanziamenti per la spesa sociale e per l’edilizia popolare.

Particolare attenzione ha suscitato nei giovani, in particolare, il proposito di questo “New Old Labour” di eliminare la retta per l’iscrizione all’Università e ridurne comunque i costi assai elevati.   Questo programma ha consentito al partito di Corbyn di recuperare terreno, rispetto ai Tories, nei sondaggi delle ultime settimane che hanno preceduto il voto.     Il risultato elettorale però ha superato i sondaggi più favorevoli al Labour, piazzandolo due punti di percentuale al di sotto dei conservatori.   Il recupero, realizzatosi in seguito alla divulgazione di un programma che potremmo definire, appunto, di sinistra radicale, può ritenersi rivelatore di una diffusa stanchezza del Paese, rispetto alle politiche di questi anni e, in particolare, all’involuzione indotta dalla Brexit che a molti settori della società e, in particolare, ai giovani, è apparsa come un fenomeno di retroguardia e di potenziale decadenza.

Il risultato deludente della May, il sensibile incremento di un Labour tornato su posizioni di sinistra tradizionale, l’avanzata dei liberali – come Corbyn, contrari alla scelta del “leave” -, il totale insuccesso dell’UKIP, il partito che dell’uscita dall’Unione aveva fatto la sua ragion d’essere, evidenziano una ricerca di certezze, di soluzioni positive, di costruzione di un futuro che non possa esaurirsi nei muri, nelle regressioni, nelle discriminazioni, nelle chiusure.   Il voto evidenzia un’aspirazione a riforme migliorative ed inclusive che garantiscano un futuro ed esorcizzino gli incubi dello scenario presente.   Non sappiamo se le ricette prospettate dal New Old Labour siano quelle risolutive per il Paese, ma almeno hanno suscitato delle speranze in aree sfiduciate del tessuto sociale.

Si pone ora un serio problema di governabilità.   Theresa May ha voluto le elezioni per trattare una “Hard Brexit”, per la quale si sentiva troppo debole e precaria con i suoi 15 deputati di maggioranza.   Ora non ha più nemmeno una maggioranza parlamentare. Difficilmente potrà insistere per una “Hard Brexit”.     La mancata acquisizione di quella maggiore legittimazione popolare per una dura trattativa dovrebbe spingere la leader ad un negoziato che prescinda da atteggiamenti rivendicativi o di rivalsa, o da striscianti risentimenti ed ostilità – e questo vale, naturalmente, anche per le controparti di Bruxelles, che, a volte, tradiscono un’inutile e controproducente “reattività”, nei confronti degli ex partners che hanno dato forfait (per ora) dal disegno europeo – ma persegua un accordo equo che, comunque, garantisca libero scambio e cooperazione sui grandi temi della sicurezza, delle migrazioni, della formazione e della cultura, senza inutili e anacronistiche penalizzazioni, dall’una e dall’altra parte, lasciando che la grande isola continui a rappresentare un’opportunità per tanti cittadini del continente e non solo e l’Europa, nel suo complesso, resti anch’essa un’occasione preziosa per i cittadini britannici.

Sicurezza grandi eventi, il piano è attivo ?

Difesa/EUROPA/Varie di

Dopo l’attentato di Manchester si è parlato molto delle misure di sicurezza per gli eventi che accolgono grandi numeri di pubblico, limitazione, vie di fuga, piano operativi ma qual è lo stato del’arte?

Ancora sembra essere tutto in fase di studio e non applicato ai grandi eventi.

Un esempio il WIND MUSIC AWARD di Verona che si svolge nell’Arena di Verona dal 5 al 7 di giugno.

un evento che attira migliaia di giovanissimi e non solo ad assistere alle performance di artisti molto seguiti come Nek, Fedez, Giorgia, Gualazzi, il Volo, RenatonZero e molti altri.

Un esibizione in diretta nazionale su RAI 1 con milioni di ascolti consolidati è una grande visibilita.

Un contesto questo ideale per un eventuale attacco terroristici sullo stile di quello inglese che fortunatamente non è accaduto.

Nonostante un sostenuto dispiegamento di forze all’esterno e all’interno dell’Arena nessun controlli approfondito è stato eseguito all’entrata, nessun metal detector, nessun controllo dentro le borse.

fortunatamente non è successo nulla ma l’effetto mediatico di un eventuale attacco di un lupo solitario avrebbe avuto un effetto amplificato dall’esposizione televisiva dell’evento.

All’indomani dell’attentato di Manchester il Ministro dell’Interno ha convocato il coordinamento delle funzioni di sicurezza e antiterrorismo CASA per discutere lo scenario internazionale e i piani per la protezione di possibili obiettivi sensibili,saranno poi i prefetti a verificare localmente le possibili criticità.

A Verona ieri sera nessuna misura di controlli all’accesso all’Arena, forse il piano procede a rilento.

 

 

Manchester 22 morti al concerto, è terrorismo

EUROPA di

Il bilancio delle vittime dell’attentato di Manchester è salito subito a 22 tra i quali molti bambini, oltre 59 i feriti ricoverati nei vicini ospedali. L’esplosione è avvenuta alle 22:35 alla fine del concerto di Ariana Grande, famosa pop star americana molto amata dai teenager che affollavano il concerto, fuori dai cancelli come consuetudine i genitori ad attenderli per ricondurli a casa.

È stato appurato dagli investigatori che l’esplosione ha coinvolto anche l’attentatore che si è fatto esplodere poco dopo che la cantante aveva finito il concerto, un boato ee poi le grida dei feriti, il panico ha scatenato una fuga verso l’esterno coinvolgendo e calpestando i malcapitati che non sono riusciti a restare in piedi. All’esterno i genitori hanno tentato di entrare per raggiungere i figli alimentando il caos.

Il Sindaco di Manchester Ian Hopkins ha dichiarato che è “l’incidente più orribile” che la città aveva mai affrontato. Partite immediatamente le indagini per catturare eventuali complici e per capire se si tratta di un “Lupo solitario” o di una cellula terroristica.

L’esplosione è avvenuta poco dopo che Ariana Grande è andato a lasciare la scena all’arena – la più grande sede interna della città con una capacità concertistica di circa 21.000. Il capo della Polizia ha dichiarato che in questa prima fase delle indagini si pensa ad un solo uomo ma si indaga a 360 gradi.

L’Islam in Italia. Quale patto costituzionale?

EUROPA di

La Sala Mappamondo ha aperto le sue porte ad un convegno che ha attraversato le tappe principali del viaggio di integrazione dell’Islam in Italia, analizzando le questioni nei diversi ambiti interessati: da quello politico con l’On. Manciulli, a quello  ministeriale  grazie alla partecipazione del prefetto Gerarda Pantalone, quello costituzionale grazie agli interventi di Stefano Ceccanti e Ciro Sbailò fino a  quello religioso rappresentato dall’Imam Yahya Pallavicini. La carta d’imbarco per questo lungo ed impegnativo viaggio è stata la proposta di legge del gennaio 2016 degli On. Manciulli, Dambruoso ed altri deputati: “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jiadista”, ancora in fase preparatoria; tale proposta è finalizzata alla costruzione di un dialogo inter-religioso tra comunità cristiana e comunità islamiche e nuove misure di prevenzione al terrorismo. Il progetto di legge, presentato da Dambruoso,  rinforza anche i casi riconducibili a condotte criminali: un uso eccessivo del web ai fini di auto addestramento o auto arruolamento o  l’organizzazione di viaggi in luoghi noti per essere sedi di incontro delle milizie, rientrerebbero nelle cause di persecuzione. Si stimerebbe inoltre la produzione di norme per una più adeguata formazione degli insegnanti nelle scuole italiane, dato l’alto afflusso di studenti islamici negli ultimi anni e il loro inevitabile aumento. “Interculturalità” dovrà essere l’aspetto chiave degli ambienti, giovanili e non, della società italiana. Dambruoso ha sottolineato gli interventi che si dovranno impiegare anche in campo giuridico-penale, rivolti specificatamente alla formazione del personale nelle carceri e all’individuazione di predicatori islamici al lato dei prigionieri; è questo un punto evidente  della necessaria cooperazione tra i rappresentanti istituzionali italiani e quelli islamici verso l’integrazione, essendo importante sia l’investimento, italiano, per queste figure sia la loro giusta selezione, compito islamico. Un ultimo elemento è una “contro narrativa” anti- jiadista, essendo sempre più un fenomeno comune quello della formazione “domestica” dei militanti che spesso riesce a raggiungere persino gli smartphone dei più giovani membri delle comunità islamiche.

Un secondo documento di viaggio fondamentale, presentato dal prefetto Pantalone, è il “Patto Nazionale per un Islam italiano, espressione di una comunità aperta, integrata e aderente ai valori e principi dell’ordinamento statale” risalente al 1 febbraio 2017,  redatto dal Ministero dell’interno ed i rappresentanti delle associazioni e delle comunità islamiche. Qui si sono poste le basi per una futura ed eventuale “intesa” tra l’Islam e lo Stato italiano, allo stato attuale ancora presentabili come due soggetti separati e per questo riconoscibili in un “patto” , ma i cui statuti si rispettano reciprocamente. È proprio questo l’elemento di forza, sottolineato dallo stesso prefetto: la natura pattizia, in quanto sintesi delle volontà dei soggetti firmatari. Il prefetto infine risponde, con grande convinzione, ad una domanda del pubblico alquanto polemica circa l’integrazione svolta solo a livello statale e non anche regionale o nel resto delle autonomie locali, replicando che invece sono sempre più i comuni e le regioni ad essere partecipi a questo processo di integrazione e di dialogo.

La terza tappa è rappresentata dall’intervento del prof. Ceccanti il quale risponde in maniera chiara e schietta ai quesiti postigli: per quanto riguarda i presupposti per procedere ad un’intesa come quella discussa, essi dal punto di vista tecnico-giuridico si presentano più che sufficienti, a dimostrarlo è la stessa Costituzione italiana con la libertà religiosa e la scelta di cambiare la propria fede; sono al massimo le posizioni di alcuni parlamentari, ritiene il professore,  che rimangono ancora un po’ scettici e con una visione ancora poco “multiculturale”. Bisogna partire da ciò che si ha per poter costruire qualcosa di fondato e senza dubbio i passi svolti fino ad ora sono stati fatti nella giusta direzione, aggiunge il professore. Quanto alla seconda domanda, ritiene che l’ “identità costituzionale”, nel nostro paese, a differenza di molti altri, non è usata come una “clava” ma come piuttosto uno fra gli strumenti di confronto per la costruzione del patto con l’Islam. Ed infine il terzo quesito era relativo alla lotta al jiadismo: “bisogna stare attenti a non fare il loro stesso gioco” suggerisce Ceccanti, riferendosi al fatto che l’obiettivo dell’ISIS stesso è quello di dividere la popolazione islamica dal resto della popolazione, e bisogna dunque cercare più un’ integrazione che una separazione; la Costituzione e se si vuole anche il Corano se utilizzati correttamente non possono che essere strumenti di grande supporto per tale scopo.

La rotta del viaggio si sposta poi verso il fronte religioso, pur sempre in collegamento con le istituzioni, avendo preso la parola l’Imam Pallavicini il quale ha dato una visione dello scenario attuale delle comunità islamiche sul territorio italiano, riconoscendo le numerose iniziative che si portano avanti ormai già da qualche anno. Ciò nonostante ha parlato di un “pluralismo eterogeneo di musulmani” in Italia, che si presenta con i vari gruppi di minoranze la cui formazione è ancora molto elementare e povera. Il  livello di scarsa conoscenza e coscienza di questi gruppi è soprattutto relazionato alla mancanza di consapevolezza della loro importanza europea e mondiale, ciò che davvero sia la tolleranza religiosa; la causa di tutto ciò è la mancanza di adeguati strumenti. Le sigle come  CICI, l’unico ente con statuto riconosciuto dal Presidente della Repubblica, COREIS, UCOI, CII, sì hanno una forte valenza ma non sono solo queste a rappresentare un Islam organizzato e a poter risolvere quindi la questione. Pallavicini ha anche lui affrontato i due temi fondamentali del riconoscimento ufficiale di uno o più interlocutori dell’Islam italiano e la possibile sottoscrizione di un’intesa; conclude l’intervento con l’enunciazione di criteri, provocatori,  di selezione dell’interlocutore islamico che potrebbe essere identificato al giorno d’oggi, che si potrebbero tradurre come la forte necessità di superare tutti i  pregiudizi che ancora resistono nella nostra realtà. Alla domanda dal pubblico, anch’essa alquanto provocatoria, risponde che non si vogliono né si devono raggiungere gli estremi: la trasformazione dello Stato laico  italiano in uno Stato confessionale o l’islamizzazione della società.

Il viaggio si conclude con Ciro Sbailò, esperto di sistemi giuridici islamici che riprende la questione esposta dall’Imam secondo cui spesso le comunità islamiche non sono a conoscenza della loro dottrina e dell’ambiente che le circonda, e per tale motivo definisce questo prossimo obiettivo un’ “operazione ermeneutica”, intendendo la necessità di istruire innanzitutto l’interlocutore per poter promuovere possibili modifiche e rinnovamenti. I flussi migratori dovranno poi essere il soggetto della futura intesa, ritenendo che quella parte di popolazione che è già consapevole, istruita e quindi desiderosa di collaborare, è già firmataria del patto avviato. La disintegrazione dei sistemi di violenza deve inoltre avere una soluzione, “non si può costruire sul nulla”: secondo il professore  bisogna eliminare ma altresì iniziare a proporre per la ricostruzione, altrimenti il viaggio intrapreso non avrà mai una meta, così come ritiene sia stato il fallimento del multiculturalismo. L’ultimo elemento esposto da Sbailò per il miglioramento del  processo di intesa riguarda l’uniformazione dei soggetti: gli imam e le istituzioni dovrebbero poter comunicare più liberamente, dotati soprattutto degli stessi strumenti.

di Laura Sacher

 

Verso un’Europa a più velocità

EUROPA di

Martedì 9 maggio scorso l’Unione Europea ha festeggiato l’ennesima ricorrenza di quest’anno.                  Dopo i 60 anni dai Trattati di Roma è stata la volta dei 67 dalla Dichiarazione di Robert Schuman, all’epoca Ministro degli Esteri della Francia, che, mettendo fine al contrasto secolare con la Germania, pose le basi per la creazione della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio, antesignana dell’Unione Europea.

Eppure questo 2017 non è stato caratterizzato da sole celebrazioni. Olanda e Francia, i due Paesi che dodici anni fa votarono contro il progetto costituzionale europeo, hanno respinto la minaccia anti-europeista, eleggendo rispettivamente Mark Rutte ed Emmanuel Macron. Quest’ultimo, tra l’altro, nella sua prima visita ufficiale, ha incontrato la Cancelliera Angela Merkel, nel segno di un ritrovato asse franco-tedesco, assopitosi durante la Presidenza Hollande.

E qual è dunque il problema? Si può parlare di fine della crisi? Jean Monnet aveva predetto che l’Europa sarebbe nata da situazioni di crisi e sarebbe stata forgiata, nel tempo, dalle soluzioni ad esse date. Ma il problema risiede proprio nel fatto che, a livello comunitario, le soluzioni scarseggiano.

Se la recente Dichiarazione di Roma, seppur celebrativa e rinnegata in patria da curiose propagande anti-europeiste (avanzate da alcuni firmatari della stessa) è stata considerata come un documento politico impegnativo (in termini di sicurezza, diritti, occupazione, ruolo internazionale), il Libro Bianco sull’Unione Europea, presentato dal Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker come contributo al Vertice di Roma, non può essere definito come tale, configurandosi come mero esercizio espositivo. Voci di corridoio giustificherebbero questo documento annacquato in nome di una strategia attendista e neutrale rispetto alle recenti e prossime tornate elettorali, fondamentali per il futuro dell’UE: le già citate elezioni olandesi e francesi oltre a quelle tedesche di settembre.

Tra i cinque scenari delineati per il futuro dell’Unione, è facile scartarne subito alcuni, palesemente inattuabili al momento, mentre la tendenza sembrerebbe quella di propendere verso il terzo, cioè il principio per cui “chi vuole di più, fa di più”, ribadita “morbidamente” nella Dichiarazione di Roma:

 

“Agiremo congiuntamente, a ritmi e con intensità diversi se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati e lasciando la porta aperta a coloro che desiderano associarsi successivamente. La nostra Unione è indivisa e indivisibile”

 

Questa opzione consentirebbe, agli Stati che lo desiderano, di dar vita a coalizioni ristrette in ambiti specifici come la difesa, la sicurezza interna, o su questioni sociali e/o fiscali. Proprio in relazione alla Difesa, il tema è talmente “affascinante” politicamente che è stato ripreso da molti esponenti politici, anche di diversa fazione, che però non hanno fornito alcuna indicazione sulla fattibilità del progetto. Alle difficoltà pratiche (si pensi ad un ripensamento dell’industria bellica europea e alla creazione di economie di scala) ed ideologiche (difficoltà di coniugare l’autonomia strategica con la dipendenza dalla NATO), si aggiungono alcune intrinseche contraddizioni in termini di legittimità democratica e di responsabilità decisionale ma soprattutto rispetto al processo di integrazione dell’Europa a 27.

In passato abbiamo già assistito a diverse forme di integrazione “à la carte” o a geometria variabile, dallo spazio Schengen all’Euro, dove, tra l’altro, assistiamo anche oggi a diverse velocità: quella tedesca (e olandese), rispetto a quella mediterranea. Corsi e ricorsi storici. Da Khol che nel 1994 propose un’Europa di Serie A ed una di Serie B in relazione alla moneta comune (che portò ad una frattura con l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi), passando per il celebre discorso di Sarkozy sulle due velocità, arrivando all’odierna multi-velocità Merkeliana, magari spalleggiata dalla nuova Francia “en Marche”.

Certe scelte, così come certe dichiarazioni rimangono nella memoria collettiva, rimarcando ed incentivando fratture già esistenti, dal Gruppo di Visregard (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca), al cosiddetto Club-Med (spesso guidato dalla Grecia), dai Paesi Baltici ai Paesi Nordici, oltre ad acuire la propaganda anti-europeista di alcuni governi nazionali (ungherese e polacco fra tutti) e confermare se non il fallimento definitivo, un’ulteriore sconfitta della politica di allargamento.

Al momento la cooperazione rafforzata sembra essere l’unica opzione. Tale scelta può essere interpretata come un atto di realismo di chi riconosce che un’Europa a più velocità esiste già, o forse è la solita via di fuga rispetto al progetto di Unione Federale.

Di Matteo Ribaldi

UE condanna Italia per le discariche

EUROPA di

La commissione Europea deferisce l’Italia alla Corte per non aver bonificato o chiuso 44 discariche.

La Commissione  ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’UE per la mancata bonifica o chiusura di 44 discariche che costituiscono un grave rischio per la salute umana e l’ambiente.

Malgrado i precedenti ammonimenti della Commissione, l’Italia ha omesso di adottare misure per bonificare o chiudere 44 discariche non conformi, come prescritto dall’articolo 14 della direttiva relativa alle discariche di rifiuti (direttiva 1999/31/CE del Consiglio). Come altri Stati membri, l’Italia era tenuta a bonificare entro il 16 luglio 2009 le discariche che avevano ottenuto un’autorizzazione o che erano già in funzione prima del 16 luglio 2001 (“discariche esistenti”), adeguandole alle norme di sicurezza stabilite in tale direttiva oppure a chiuderle.

Considerata l’insufficienza dei progressi in quest’ambito, la Commissione ha trasmesso un parere motivato supplementare nel giugno 2015, nel quale si esortava l’Italia a trattare adeguatamente 50 siti che rappresentavano ancora una minaccia per la salute e l’ambiente. Nonostante alcuni progressi, nel maggio 2017 non erano ancora state adottate le misure necessarie per adeguare o chiudere 44 discariche. Nell’intento di accelerare il processo la Commissione ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

A norma del diritto dell’UE, gli Stati membri sono tenuti a recuperare e smaltire i rifiuti in modo tale da non mettere in pericolo la salute umana e l’ambiente, vietando l’abbandono, lo scarico e lo smaltimento incontrollato dei rifiuti. In Europa si dovrebbero svolgere solo attività di discarica sicure e controllate. La direttiva sulle discariche (direttiva 1999/31/CE del Consiglio) stabilisce norme per proteggere la salute umana e l’ambiente, in particolare le acque superficiali, le acque freatiche, il suolo e l’atmosfera dagli effetti negativi della raccolta, del trasporto, del deposito, del trattamento e dello smaltimento e mira a prevenire o a ridurre il più possibile le ripercussioni negative delle discariche di rifiuti, durante l’intero ciclo di vita della discarica.

Esistono molti modi per smaltire i rifiuti. L’interramento nel suolo, ossia nella discarica, è il modo meno sostenibile dal punto di vista ambientale e dovrebbe essere limitato al minimo assoluto.

Questa causa fa parte di un esercizio orizzontale che interessa altri sei Stati membri: Bulgaria, Cipro, Spagna, Romania, Slovenia e Slovacchia. La Corte ha già pronunciato sentenze di condanna nei confronti di Bulgaria, Cipro e Spagna.

Emmanuel Macron è il nuovo Presidente della Francia

EUROPA/POLITICA di

Emmanuel Macron è il nuovo presidente della République Française, il candidato del nuovissimo movimento En Marche! ha sorpassato nettamente l’altra candidata al ballottaggio, ovvero come tutti sappiamo l’esponente del Front Nationale Marine Le Pen. I dati delle proiezioni danno il nuovo presidente eletto con una forza pari circa al 60-65% ed oltre, il che sarebbe una percentuale abbastanza storica per il più giovane Monsieur Le President, la realtà che più che il voto per Macron, quella di oggi è stata una lotta ad arginare le idee decisamente più estremiste della Le Pen, che certamente, tra le altre cose, cavalcando la scia del populismo avrebbe proposto l’uscita della Francia dall’Unione Europea. La Francia oggi si è espressa più in questo senso che compiendo una vera scelta politica, o meglio, una non-scelta (quella della Le Pen) che si è rivelata una scelta (quella di Macron).

Fatto sta che Emmanuel Macron è – nel bene e nel male – il nuovo presidente della Repubblica Francese: è un leader che si mostra profondamente repubblicano, ma durante il suo discorso ufficiale ha pronunciato parole fortemente socialiste come “solidarietà” ed uguaglianza sociale. Per tirare brevemente le somme si può dire quanto Macron sia un presidente “ibrido”, ma questo pare non spaventare la Francia, che comunque non ha scelto la via populista. Certo è che come ribadito per suo conto da Marine Le Pen al momento del suo discorso, le forze politiche tradizionali si devono riorganizzare e ristrutturare per adattarsi al nuovo scenario politico. La stessa Le Pen ha decretato la morte del Front National a vantaggio della creazione di una nuova forza politica, che probabilmente non faccia più risentire gli eventuali candidati della “fama nera” proprio del partito politico a cui i Le Pen sono a capo da più di una generazione.

Che cosa succederà adesso in Francia? Sicuramente il giorno dopo questo ballottaggio è l’8 Maggio, la festa nazionale francese che celebra la liberazione dal nazifascismo: in molti domani sentiranno ancora più rinnovata questa festività  come un pericolo di estrema destra scampato. Un altro dato certo è quello che in fine dei conti la vera vincitrice di queste elezioni, quella che può tirare il più profondo sospiro di sollievo è proprio l’Europa come Istituzione e come unione di cittadini, che anche questa volta ha visto la sua Unione fortemente minacciata. Come reagiranno le forze politiche? Quali sono le alleanze che si andranno a creare una volta in Parlamento? Al momento En Marche “”è solo Macron”, quali forze saprà coinvolgere nelle sue operazioni di Governo? Macron parla di “un lavoro incessante per la Francia”, per ridurre le disparità sociali, per rendere di nuovo un paese coeso ed unito, che punti alla lotta al terrorismo, ma anche alla cooperazione internazionale.

Chi ha votato Macron? Non c’è nulla di strano a dire che il voto giovanile è quello che ha preferito un volto più favorevole all’Unione Europea, ma si sta parlando solo di questo secondo turno, perché al primo turno la scelta di Macron era quello di un elettorato più maturo, ma in questo caso i giovani si sono uniti per scegliere un candidato che abbia un’impronta fortemente europeista.

Il difficile ruolo dell’Alto Rappresentante UE Federica Mogherini

EUROPA di

Federica Mogherini ha un lavoro impossibile? La risposta è semplicemente si.

L’Alto Rappresentate UE per la politica estera e di sicurezza incarna una figura unica. Federica Mogherini oltre ad indossare il doppio cappello di Vice-Presidente della Commissione e Presidente del Consiglio Affari Esteri (il cosiddetto “Pattana”, cioè un mix di Pattern e Solana), deve coniugare la più classica funzione diplomatica con le diverse dimensioni della politica estera: dalla difesa alla cooperazione allo sviluppo, dalle politiche di allargamento al commercio. Il tutto senza per altro disporre, per sua scelta e in controtendenza rispetto ai suoi predecessori (Ashton e Solana), di un sistema di delegation che sarebbe necessario vista la fitta agenda.

Presenza sul campo e coordinamento sono sicuramente i due elementi che contraddistinguono il suo mandato. Sempre in prima linea nel presiedere i tavoli dei Ministri degli Affari Esteri e della Difesa, Federica Mogherini si è fatta promotrice di un coordinamento estremo con tutti gli apparati dell’Unione, dalla NATO all’Agenzia europea della Difesa, dal Parlamento Europeo (Strasburgo e Bruxelles) allo stretto rapporto con i due Commissioners a lei più prossimi in termini di dossier: Cecilia Malmstrom (commercio) e Johannes Hahn (allargamento).

Risulta veramente complicato assegnare dei voti al lavoro della Mogherini, costretta dalla stessa natura del suo incarico, ad oscillare tra una funzione “comunitaria e sovranazionale”, nel ruolo di Vice-Presidente della Commissione, ad un ruolo “intergovernamentale”, come rappresentante delle 28 diplomazie nazionali. A livello comunicazionale l’Alto Rappresentante svia le domande relative a questa contraddizione con una metafora musicale:

 “non serve un’unica voce per l’UE, serve cantare la stessa canzone; ogni geografia, come ogni strumento, aggiunge qualcosa all’UE”.

Molto significativa ma forse troppo semplicistica, specialmente quando si è nel campo della politica estera e di difesa, fortemente caratterizzato da una miscela di sovranismi e interessi nazionali talvolta difficilmente conciliabili.

Ci ha provato Politico.eu,[1] in occasione del giro di boa del mandato dell’Alto Rappresentante, a valutare il lavoro svolto finora, alternando giudizi positivi, ad esempio in relazione al ruolo dell’UE nella descalation nucleare dell’Iran (da condividere con Kerry), a voti intermedi riguardanti il rapporto con la Russia (e le criticate sanzioni), ma anche negativi per l’eccessiva lentezza e passività nei confronti del vicinato balcanico.

Quanto alla Global Strategy, resa nota pochi giorni dopo la Brexit, c’è chi la considera vuota in termini sostanziali, ma prima di dare giudizi sul merito bisognerà attendere l’interpretazione della stessa in fase d’implementazione (seguendo le linee guida del Piano d’Azione pubblicato nel Novembre 2016). Sicuramente Federica Mogherini si è tolta una soddisfazione personale considerando che l’ultima Strategia europea risale al 2003 (relativa ai rapporti USA-UE sulla questione irachena e afgana) e visti i precedenti fallimenti di Solana (che tentò di rinnovarla nel 2007, riuscendoci parzialmente un anno dopo) e di Ashton (2013).

 A mio avviso sul giudizio di fine mandato peseranno le future e prossime scelte su due dossier Libia e Siria. Spesso si tende a dimenticare ciò che è stato fatto sul fronte Meridionale, a partire dallo sforzo per spostare l’attenzione dal versante Est a quello Sud, passando per la capacità di coordinare un’azione partecipata nel Mediterraneo a servizio della missione marittima Sophia (25 Stati membri) all’interno di una strategia migratoria a lungo termine che prevede alcune concessioni (attraverso Accordi di Partenariato) ai paesi di origine e di transito in cambio di una gestione collaborativa del fenomeno migratorio. Quanto alla Siria l’Unione Europea ha l’opportunità di giocare un ruolo importante di mediatore fra Trump e Putin, facendo da garante al cessate il fuoco alla ricerca di una stabilizzazione sul piano politico, anche se dovrà fare i conti se’ stessa e con l’accordo di convenienza” firmato con un Erdogan uscito rafforzato dal voto referendario, per quanto concerne la questione migratoria (da Est) e il flusso siriano.

Tornando al ruolo, dato l’ampio raggio d’azione, ha una forte caratterizzazione personale. Nonostante le critiche iniziali, dovute più che altro al grado di seniority oltre a trascurabili dibattiti interni di partito (PD), la Mogherini è riuscita a stupire in un periodo segnato dalla minaccia terroristica e dal voto britannico. Meno interventista di Solana (ex Segretario Generale della NATO) ma sicuramente più attiva e presente di Lady Ashton, la Mogherini sta plasmando un ruolo molto delicato con stile e sobrietà. Ad un’interpretazione pro-attiva e presenzialista del ruolo deve però coincidere un cambiamento a livello strutturale. Il continuo richiamo all’Unione come primo attore economico e commerciale e primo donatore di aiuti monetari dà un lato denota una strategia di comunicazione prettamente renziana volta all’esaltazione delle conquiste, dall’altro una totale mancanza dell’altra faccia della medaglia: il cosiddetto “hard power”. L’obiettivo a medio e lungo termine al quale dovremmo mirare, non per avere un’Europa militarizzata o per sostituirsi alla NATO, ma per dare concretezza e valorizzare il cosidetto “soft power“, integrando lo strumento militare con quello economico, diplomatico e civile in una strategia europea lungimirante e al servizio della pace.

di Matteo Ribaldi

[1] R. HEAT, Mogherini’s mid-term report card, Politico.eu , 4/12/17 4/18/17

La Francia al bivio, tra Il tecnocrate europeista e La “pasionaria” sovranista

EUROPA di

Dal primo turno delle elezioni presidenziali francesi, che si è svolto domenica 23 aprile, è sembrato emergere un temporaneo rallentamento dell’ascesa di Marine Le Pen, da molti temuta e da altri – ma molti di meno – auspicata.     Si è attestata tra il 21 e il 22% e, considerando la mancanza di alleati e la chiusura, nei suoi confronti, dei concorrenti “caduti” al primo turno, un incremento di consensi tale da portarla alla vittoria al secondo sembra un obiettivo di difficile realizzazione.

Benché i sondaggi di queste ultime due settimane abbiano, in certe fasi, registrato una crescita di consenso più rapida di quella di Macron, la forbice a favore di quest’ultimo sembra tuttora piuttosto ampia.     Ma le diffuse preoccupazioni in ordine alla sicurezza, alle migrazioni, al terrorismo internazionale, la delusione verso la governance europea rivestono un peso che non deve essere sottovalutato.

E occorre inoltre considerare le incognite legate al disimpegno sulla candidatura Macron da parte di Mélenchon, candidato al primo turno del movimento di sinistra “La France Insoumise”.     A chi andranno quei voti, circa il 20 % ?   La stessa astensione, secondo autorevoli osservatori, giova soprattutto all’appassionata Marine.

La corsa di Macron all’Eliseo ha colto, comunque, una congiuntura favorevole, segnata dal declino dei maggiori partiti e dalla tendenza della classe politica tradizionale a fare quadrato, a tutti i costi, per impedire la vittoria della destra “sovranista” di Marine Le Pen, arrivata, come era prevedibile, al ballottaggio.   L’aspettativa per la vittoria di Macron si è così consolidata, dopo il primo turno.   Già in ambito internazionale, gli ambienti politici cominciano ad interrogarsi sulla possibile reiterazione, negli altri contesti nazionali, di un modello analogo a quello realizzato in Francia dal giovane tecnocrate e outsider e dal suo nuovo movimento denominato “En Marche !”.     Soprattutto in Italia, in cui le incognite su equilibri, alleanze e identità stentano a trovare soluzione, sembra si sia scatenata la caccia per individuare, nel confuso scenario contingente, il possibile “nuovo Macron” !

Il fondatore e leader di “En Marche !” è un tecnocrate, un manager che è stato chiamato, in virtù delle sue competenze e delle qualificate esperienze professionali, a rivestire l’incarico di Ministro dell’Economia nel secondo governo Valls e che ha lasciato il Partito Socialista, ancora maggioritario nel Parlamento uscente, ma in condizioni di rapido declino, come ha dimostrato il risultato di Hamon – e la stessa rinuncia a ricandidarsi del Presidente Hollande, inconsueta nella storia della Quinta Repubblica, dopo un solo mandato – e ha fondato lo scorso anno un nuovo movimento, dall’identità ancora un po’ vaga e incerta, ma in grado di suscitare interesse e fiducia in una parte crescente di elettorato, ormai stanco dello schema di contrapposizione tradizionale socialisti-gollisti, ma spaventato dalla possibile alternativa lepenista.

En Marche! ha assunto una connotazione di centro, centrosinistra, che non disdegna tuttavia il dialogo con il centrodestra, tanto che Fillon, candidato appunto del centrodestra (“Les Républicains”, di matrice gollista) al primo turno, subito dopo si è affrettato ad invitare i suoi elettori a sostenere Macron nel ballottaggio.   E altrettanto ha fatto Hamon, candidato socialista.   Ma i sondaggi registrano anche possibili defezioni, tra gli elettori di Fillon e Hamon, rispetto ai richiami dei due leaders in favore di Macron.   Defezioni tendenti all’astensione, o addirittura all’opzione Le Pen (questo, in misura maggiore, è stato riscontrato nell’area di centrodestra).

La convergenza di Fillon e Hamon su Macron è dovuta soprattutto all’esigenza di arginare le possibilità di vittoria di Marine Le Pen, ma forse si può ritenere agevolata proprio da quella sorta di equidistanza che l’identità non ancora ben delineata, o comunque fuori dagli schemi, del nuovo movimento, fondato dall’ex ministro dell’Economia, sembra evidenziare rispetto alle due forze che fino ad ora si sono contese la guida della Quinta Repubblica.

Macron è un convinto europeista e ritiene che la globalizzazione possa costituire un’opportunità, non una minaccia per l’economia francese.     Intende innovare e moralizzare il confronto politico nel suo paese e superare lo schema destra-sinistra, secondo nuove interpretazioni delle sfide che investono il nostro tempo.     Si pone nell’alveo progressista, ma non appare neppure troppo lontano dalle posizioni neogolliste, tanto che Fillon non ha manifestato un particolare imbarazzo, assicurandogli il proprio sostegno.

Che possa essere questo, forte proprio di tale pragmatismo post ideologico, il segreto del successo conseguito dall’ex banchiere ed ex ispettore delle finanze, già consigliere di Hollande e ministro socialista e rappresentare quindi la ricetta per affrontare la crisi dei partiti tradizionali di governo anche in altri paesi d’Europa, arginando, con realismo e concretezza, scevra di tentazioni demagogiche, la crescita dei cosiddetti populismi antieuropei e sovranisti ?   Fenomeni questi, efficaci quando assecondano e stimolano paure e diffidenze diffuse nell’opinione pubblica, ma più carenti nella progettualità e nell’individuazione di soluzioni alternative alle politiche che contestano.

La ricetta Macron, considerando l’appoggio incassato dal repubblicano Fillon e dal socialista Hamon, dovrebbe ritenersi orientata, in caso di vittoria nelle presidenziali, a privilegiare comunque il dialogo con quelli che sono stati finora i due maggiori partiti, o comunque con uno dei due.   Questo dialogo si renderà necessario, perché difficilmente il “giovane” movimento di Macron, anche a seguito dell’eventuale elezione alla Presidenza del suo leader, potrà ottenere, nelle successive elezioni legislative di giugno, una maggioranza autosufficiente nell’Assemblea Nazionale.

Il sistema semipresidenziale vigente nella Quinta Repubblica francese richiede la creazione di un rapporto fiduciario tra l’Assemblea Nazionale e il Governo, costituito da un Primo Ministro e dai ministri che saranno nominati dal nuovo Presidente.   Sempre nell’ipotesi di elezione di Macron alla Presidenza, il suo movimento, pur traendo certamente un sensibile beneficio da questa vittoria nelle elezioni dell’Assemblea Nazionale, potrebbe scontare, in quell’occasione, lo scarso radicamento territoriale dovuto al suo recentissimo esordio sulla scena politica.

Parlamentari uscenti e dirigenti di lungo corso dei due partiti che si sono, per oltre mezzo secolo, contesi il governo della Quinta Repubblica potrebbero dare filo da torcere, nei singoli collegi, ai neofiti seguaci di Macron e riscattare, in quella fase, l’insuccesso dei rispettivi candidati – Fillon e Hamon – alla Presidenza.

Dunque, in questa prospettiva, Macron, per evitare il rischio di una sostanziale ingovernabilità, dovrebbe sviluppare affinità e convergenze con i partiti tradizionali, finalizzate non soltanto all’esigenza di contrastare l’estrema destra lepenista, ma anche ad una condivisione programmatica, senza la quale non si può realizzare una coalizione di governo. Difficile poi prevedere, al momento, se le convergenze dovranno ricercarsi con i repubblicani o con i socialisti, o forse con entrambi, nell’eventuale prospettiva di Grande Coalizione che potrebbe costituire, peraltro, la direttrice della politica europea dei prossimi anni, spostandosi gradualmente il confronto, dallo schema popolari-socialisti a quello sovranisti-europeisti (potrebbe essere il caso della Germania, dopo le prossime elezioni politiche, forse anche dell’Italia,… chissà !?…ipotesi “futuribili”, indotte tuttavia da una evidente crisi di rappresentatività delle “categorie” politiche cui da tempo ci eravamo assuefatti).

Ancor più critico apparirebbe il quadro, in caso di vittoria, nel ballottaggio, di Marine Le Pen, perché poi, nelle elezioni legislative, potrebbe ottenere ancor meno seggi parlamentari.   Un partito isolato, come il Front National, non è molto competitivo, con il sistema a doppio turno e avrebbe ancor meno possibilità di quelle di Macron di ottenere una maggioranza nell’Assemblea Nazionale, anzi, in genere stenta ad ottenere una sia pur minima rappresentanza.   Con l’elezione della sua leader alla Presidenza della Repubblica si verificherebbe forse un effetto trascinamento, ma difficilmente potrebbe conseguire una forza parlamentare, in grado di reggere da sola le sorti del governo.   Ne potrebbe derivare il ricorso alla “coabitazione” tra la nuova Presidente e un Primo Ministro del tutto eterogeneo e politicamente ostile, con riflessi assai problematici, per la navigazione governativa.

Un quadro, dunque, incerto, per il futuro istituzionale di questa grande potenza europea, un futuro che ora è affidato alla scelta del popolo sovrano che si pronuncerà domenica 7 maggio.

Alessandro Forlani

Kosovo: I medici militari italiani nelle scuole di Pec/Peja per parlare di droga e alcol

Difesa/EUROPA di
​Il 28 aprile 2017 si è concluso un ciclo di lezioni tenuto dai medici militari del Contingente italiano mirante a sensibilizzare gli studenti delle scuole superiori di Pec/Peja sui gravi rischi circa il consumo di sostanze stupefacenti e l’abuso di alcool.
Il progetto, è frutto della collaborazione tra l’assessorato all’ istruzione e il Multinational Battle Group West (MNBG-W), è stato realizzato grazie all’impegno profuso dagli ufficiali italiani che operano nell’ambito delle operazioni civili – militari.
Le lezioni che si sono svolte in sei scuole della municipalità a partire dal mese di marzo, sono state tenute dal capitano Marco Romano, direttore dell’infermeria di Campo Villaggio Italia e hanno riscosso grande interesse da parte degli studenti. L’Assessore all’Istruzione Besim Avdimetaj nel discorso pronunciato in occasione della conclusione del progetto, si è detto entusiasta della collaborazione con i militari italiani di KFOR e ha affermato la grande utilità delle problematiche trattate. Il MNBG-W è un’Unità a leadership italiana attualmente su base 32 Reggimento Carri con cui operano anche militari austriaci, sloveni e moldavi.
Redazione
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