GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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La guerra Russo-Ucraina spinge la Finlandia verso la NATO

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La storia è l’archivio degli avvenimenti accaduti nel passato, che spesso ci riporta alla mente gli errori già visti durante i conflitti bellici. L’esempio può essere tratto dalla vicenda finlandese, dove il territorio della Finlandia fu oggetto dell’invasione e dell’occupazione ostile da parte dell’Unione Sovietica, a causa del rifiuto del governo di Helsinki di cedere parte dell’istmo di Carelia e di accettare basi navali sovietiche sul proprio territorio, tanto che fece irritare Stalin per l’intransigenza di quel piccolo Paese che osò sfidare il potente vicino.

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Il dilemma strategico della Russia

Se si esamina con attenzione una carta geografica della Russia appare evidente, anche all’occhio del neofita, che l’immensa estensione territoriale di questo paese è controbilanciata, con esito negativo, dalla pressoché assoluta mancanza di accesso diretto alle rotte commerciali oceaniche che costituiscono, da sempre, la base sulla quale si sviluppa e progredisce l’economia di un grande paese.

Analizzando più nel particolare la situazione russa si può vedere che i pochi porti di cui dispone (davvero in numero esiguo non solo in relazione alla sua grandezza territoriale) sono caratterizzati da due fattori geopolitici limitativi che ne riducono l’importanza e ne condizionano l’utilizzazione.

Il primo è che i porti di Vladivostock a Est e di San Arcangelo a Ovest insistono in un’area geografica dove il mare ghiaccia per lunghi periodi dell’anno.

Il secondo fattore, di gran lunga più determinante nel dettare la linea geostrategica della politica russa, è quello che sia Vladivostok sia i due porti principali in acque calde, San Pietroburgo e Novorossiysk, insistono in un complesso di acque chiuse i cui accessi al mare aperto (gli Oceani Atlantico e Pacifico) sono controllati da alleanze di cui la Russia non fa parte o da Paesi con i quali non esiste un rapporto stabile di fiducia o che, addirittura, possono essere considerati potenzialmente ostili.

Da qui discende direttamente l’impostazione che ha guidato la politica estera della Russia, zarista e non, durante gli ultimi trecentocinquant’anni della sua storia.

Rifiutare di riconoscere o di considerare questo imperativo geopolitico, quando si ha che fare con la Russia, non solo è un errore macroscopico di valutazione ma è estremamente pericoloso.

Cambiando la carta geografica con una carta geopolitica non è difficile vedere che sia l’accesso diretto al Pacifico che quello all’Atlantico sono condizionati da alcuni punti di passaggio di importanza strategica per il controllo delle vie di comunicazione che non sono in mano russa. Da questa analisi deriva uno degli assi portanti della politica estera russa.

Nel settore asiatico la controversia, che da circa settant’anni contraddistingue le relazioni russo-giapponesi, ha come base il possesso delle isole Kuryli che sono la naturale chiusura della rotta verso il mare aperto (e caldo) su cui insiste la direttrice di Vladivostok.

La situazione è molto più complessa e delicata nello scacchiere euroasiatico dove la rotta di San Pietroburgo, che attraverso il Mar Baltico porta al mare del Nord e poi all’Atlantico, deve passare attraverso due strozzature naturali (il Golfo di Finlandia e gli Stretti di Danimarca) dove tutti i Paesi costieri ad eccezione di Svezia e Finlandia (a tutt’oggi) appartengono alla NATO.

Ancora più intricata è la situazione del porto di Novorossiysk, sul Mar Nero la cui rotta di accesso al mare caldo è limitata da due chiuse strategiche: il Bosforo e i Dardanelli per il Mar Mediterraneo e Gibilterra per lo sbocco nell’Atlantico. Anche in questo caso il controllo degli stretti in questione appartiene a Paesi membri della NATO.

Mettendo in relazione questa situazione con la posizione privilegiata in termini geopolitici di cui godono i principali antagonisti della Russia, gli Stati Uniti, la Cina, l’India, appare evidente lo sforzo di Mosca per assicurarsi, con ogni mezzo disponibile, l’accesso sicuro alle vie commerciali marittime mondiali.

Come si evince dall’analisi della storia della Russia il cardine di ogni sua direttrice politica è sempre stato condizionato dalla necessità di rompere l’accerchiamento dei Paesi considerati ostili e avversari non solo sulle sue frontiere terrestri ma, soprattutto, quello di cercare di acquisire il possesso e il controllo degli stretti fondamentali al fine di concretizzare quel concetto di sicurezza che permea la visione russa da sempre.

Fatta questa premessa, non può quindi sorprendere la direttrice strategica della politica che negli ultimi anni ha guidato le relazioni internazionali russe.

Limitando l’analisi al solo settore euroasiatico, appare abbastanza evidente per quanto precedentemente detto, che è attraverso tale chiave di lettura che devono essere considerate le azioni che hanno portato nel 2014 all’annessione plebiscitaria e unidirezionale della Crimea e che adesso stanno condizionando gli sviluppi del conflitto con l’Ucraina. La concentrazione dello sforzo militare russo sulla costa del Mar Nero implica il conseguimento di una condizione di stabilità che consenta lo sfruttamento del porto di Sebastopoli in aggiunta a quello Novorossiysk con una striscia di retroterra che garantisca un miglior collegamento con la Crimea.

Ulteriormente legato a questo imperativo geopolitico risulta essere la volontà russa di limitare l’espansione della NATO verso i suoi confini. La percezione di assedio e di mancanza di sicurezza che costituiscono il motivo principale del contrasto con l’Occidente si basano principalmente sulla paura di poter essere soggetti a un blocco economico disastroso se le rotte commerciali venissero strozzate e chiuse mediante il blocco degli stretti.

L’approccio politico nei confronti della Turchia, tendente a staccarla dall’orbita dell’Occidente e dalla NATO, le operazioni in Ucraina, miranti strategicamente a incrementare il controllo sulla sponda europea del Mar Nero, la ricerca di riacquisire una possibile influenza sui Paesi nel Mar Baltico, sono tutti elementi che adducono allo stesso obiettivo: garantire un accesso sicuro alle rotte commerciali atlantiche!

A questo punto, senza voler in alcun modo giustificare la modalità intrapresa per sostenere questa visione strategica e, quindi, condannando senza riserve il ricorso ad azioni militari come quella in corso, non si può non considerare con maggiore attenzione gli sviluppi che stanno caratterizzando lo scenario internazionale euro atlantico.

Il casus belli utilizzato dalla Russia, come giustificazione per lo scatenare il conflitto in atto, è stato la mancata considerazione delle sue legittime preoccupazioni (reali o solo presunte fa poca differenza) per la sicurezza dei suoi confini minacciati da un’espansione ulteriore della NATO, con la presunta adesione dell’Ucraina. Conflitto durante, tale elemento giustificativo è stato ulteriormente rafforzato da altri due eventi che incidono sulla questione citata delle rotte commerciali.

Il primo riguarda sia il blocco dei porti del Mediterraneo per l’attracco alle navi russe che ha causato notevoli problemi al trasporto, sia la richiesta di chiudere gli stretti del Bosforo presentata alla Turchia che, anche se non attuato ha comunque, ulteriormente, inasprito la posizione russa.

Il secondo molto più recente, invece, è la risonanza mediatica data ad una possibile, ancorché ancora in una fase iniziale di valutazione, adesione alla NATO da parte di Svezia e Finlandia, ipotesi prevalentemente e grossolanamente sostenuta, con enfasi, dagli USA e dal Regno Unito.

Queste mosse non hanno fatto altro che inasprire una situazione già tesa e drammatica e non sembrano essere frutto di una valutazione strategica attenta e lungimirante basata su una vision consolidata e studiata.

Fermo restando la indiscutibile volontà degli Stati di perseguire quelli che ritengono i loro interessi nazionali, ciò che appare evidente è l’assoluta mancanza di una visione strategica di vasta portata che possa contraddistinguere il campo occidentale.

L’abbandono da parte della Svezia di una neutralità, di comodo e spesso interessata, ma soprattutto la decisone simile della Finlandia, sulla base di una presunta minaccia alla loro sicurezza, non rappresenta certo la scelta migliore in un momento come quello attuale.

È un inutile ed è un pericoloso azzardo che non serve a dimostrare né la volontà americana di ricoprire il ruolo del difensore della democrazia e dell’Europa (recuperando un senso di fiducia ormai logoro), né il modo per poter indebolire e far cadere Putin!

La NATO è stata, e continua a essere, una organizzazione di estremo valore fondamentale per l’equilibrio geopolitico euroasiatico, ma non può essere trasformata in uno strumento di pressione nei confronti della Russia per servire una politica miope, demagogica e priva di profondità strategica come è quella che adesso caratterizza la presidenza americana.

Il dilemma strategico della Russia che riguarda come conseguire la sicurezza dell’accesso agli Oceani esiste è reale e non è legato alla presenza di Putin.

Putin non piace al consesso internazionale occidentale può anche essere; è sicuramente colpevole di aver iniziato un conflitto devastante che ha riportato la lancetta della storia indietro di mezzo secolo, è vero; ma non è negando la geopolitica e la geostrategia della Russia che l’Europa e gli USA possono cercare di eliminare un avversario scomodo e pericoloso, e nello stesso tempo sostenere e diffondere la visione occidentale che ricerca l’equilibrio di un sistema di relazioni internazionali basato sul rispetto della democrazia, del diritto e dei valori individuali e umani.

Genesi del riarmo tedesco

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L’invasione russa in Ucraina, come noto, sta portando con sé grandissimi stravolgimenti a livello di relazioni internazionali. Tra questi, uno dei più importanti, è sicuramente la notizia del riarmo tedesco. Ma cosa c’entra il riarmo della Germania con la guerra in Ucraina? Per capire il perché questi due fatti siano tra loro collegati bisogna fare un passo indietro e analizzare il ruolo e la posizione che gli Stati Uniti ricoprono all’interno dell’arena internazionale.

Fino al 1991 il mondo era fondamentalmente controllato da due super potenze in competizione tra loro, Stati Uniti e Unione Sovietica. Questi due Paesi si fronteggiarono durante il periodo della così detta “Guerra Fredda”, fredda perché non portò mai un reale scontro armato. Questa “guerra” ha visto il trionfo degli Usa dopo che l’Urss, implosa su sé stessa, ha issato bandiera bianca. Dunque, dopo la fine di questo conflitto senz’armi, Washington, dato che la sua diretta concorrente aveva deciso di ritirarsi dai giochi, si è ritrovata ad essere la sola super potenza economica e militare all’interno dello scacchiere internazionale.

Tuttavia, dal 1991 sono passati ormai 30 anni e molte cose sono cambiate. Gli Stati Uniti continuano, sì, ad essere la più grande potenza economico-militare al mondo ma alcuni Paesi hanno cominciato a mettere in discussione la sua leadership. Primo su tutti la Cina che, da quando il suo allora Presidente Deng Xiaoping decise di aprire al mercato nel 1979, da Paese del “terzo mondo” è diventata, oggi, una Super potenza mondiale. In termini di competizione, attualmente, la principale ragione d’attrito tra questi due Paesi è Taiwan. Ma perché? Perché Pechino, qualora riuscisse ad ottenerne il controllo, avrebbe, militarmente parlando, quello sbocco all’oceano che le consentirebbe di diventare una potenza marittima e quindi di acquisire quel peso che le permetterebbe di mettere in discussione il potere statunitense, non solo sotto un punto di vista economico, come accade oggi, ma anche militare.

Tuttavia, il lettore che sta leggendo si starà chiedendo: “sì, va bene, ma cosa c’entrano le relazioni Cina-Stati Uniti con l’Ucraina e il riarmo tedesco?”. Purtroppo, le questioni geopolitiche sono per definizione complesse e la complessità per essere spiegata necessita di un’opera di scavo che richiede di analizzare congiuntamente molteplici questioni. E’ come quando si cerca di fare un puzzle, si devono mettere insieme più pezzi se si vuole ad arrivare a comporne il disegno complessivo.

Ad ogni modo, caro lettore, purtroppo, il chiarimento sui rapporti tra Usa e Repubblica Popolare cinese ancora non basta a spiegare le ragioni che hanno portato al riarmo della Germania. Per farlo occorre aggiungere un altro tassello al nostro puzzle, ovvero analizzare un ulteriore fattore, quello della Russia. Dunque, la domanda da farsi è: “perché Putin ha deciso di invadere l’Ucraina? E perché lo ha fatto proprio adesso? Perché come il Presidente cinese, Xi Jinping, anche Vladimir Putin ritiene che questo sia il momento opportuno per mettere in discussione l’egemonia di Washington.

Dunque, come dicevamo prima, in questo momento storico la principale rivale degli Stati Uniti è la Cina e ciò lo dimostra il fatto che dai tempi dell’amministrazione Obama il governo americano ha deciso di concentrare i suoi sforzi militari nella zona dell’indo-pacifico al fine di contenere l’ascesa del dragone asiatico. Putin questo lo sa bene, come sa bene che gli Stati Uniti in questo momento storico non possono permettersi di essere coinvolti in un’opera di contenimento su due fronti. Questo per dire che, molto probabilmente, il ragionamento del Cremlino potrebbe essere stato il seguente: “Se invadiamo l’Ucraina gli Stati Uniti attaccandoci militarmente potrebbero anche mangiarci il re ma così facendo lascerebbero la regina scoperta alla Cina”. Quindi, uscendo dalla metafora sul gioco degli scacchi, qualora gli Stati Uniti, per contrastare l’offensiva di Putin, concentrassero i loro sforzi militari sul fronte ovest, quello europeo, permetterebbero a Pechino di agire indisturbata sul fronte est e le darebbero amplissime possibilità di prendere la tanta agognata Taiwan. E questo la Casa Bianca non lo può permettere.

Il 24 febbraio (giorno in cui è iniziata l’invasione di Ucraina) segna la data in cui gli Stati Uniti si sono trovati formalmente in “guerra di contenimento” su due fronti: europeo e asiatico. In questo contesto la classe dirigente politica americana si è trovata costretta a dover fronteggiare, oltre a quelle cinesi, anche le rinate vocazioni imperiali di Mosca. Tuttavia, per le ragioni delineate sopra, senza poter reagire ricorrendo all’uso della forza militare. Quindi per fronteggiare le aspirazioni del Cremlino, la Casa Bianca ha avuto la necessità di coinvolgere i suoi Paesi satelliti europei. La linea imposta dal Presidente Biden all’Europa è stata la seguente: “durissime sanzioni economiche, come non si sono mai viste nella storia”.

Ecco adesso parte del puzzle sembra finalmente cominciare a comporsi. Almeno quella che riguarda i ragionamenti sul ruolo egemone degli Stati Uniti e i fattori che lo mettono in discussione. Ed è solo alla luce di ciò che si può comprendere cosa gli Usa facciano per cercare di mantenere la loro posizione di dominio all’interno dell’arena internazionale e conseguentemente il senso del riarmo tedesco.

Torniamo adesso, finalmente, alla Germania. Membro Nato, potenza geoeconomica e locomotiva dell’Unione Europea. Dalla descrizione appena fatta non è difficile capire che si tratta di una delle pedine più importanti dello scacchiere internazionale.

Per quanto concerne le sue relazioni con la Russia, la Germania è il Paese dell’Ostpolitik, il Paese che sin dai tempi dell’Unione Sovietica con Mosca ha sempre cercato la distensione piuttosto che la tensione, soprattutto in nome della sua vocazione economicista, che dal secondo dopo guerra ha sempre messo gli affari davanti alla politica. Quello tedesco è uno Stato, economicamente parlando, legato a filo doppio con l’ex impero degli Zar. A livello europeo è uno dei Paesi che più di tutti avrebbe da perdere nell’imporre sanzioni al Cremlino. E, data la sua posizione di rilievo a livello internazionale e i suoi interessi comuni con Mosca risulta evidente come persino gli Stati Uniti, pur di ottenere l’allineamento di una pedina fondamentale, siano stati costretti scendere a compromessi con la Germania per farla rompere con l’ostpolitk e dunque integrarla a pieno titolo nel se pur indiretto ma sempre conflitto contro la Russia.

Ma per capire questa dinamica occorre prima di tutto chiarire cosa sia un compromesso in termini di relazioni internazionali. Si può definire compromesso un accordo a cui due parti giungono per dirimere una controversia insorta, al fine di trovare una soluzione che porti a danni e vantaggi reciproci alle parti in questione.

Banalmente le domande da porsi per capire un compromesso sono sempre le seguenti: cosa perde e guadagna l’uno? cosa perde e guadagna l’altro?

Dunque, per comprendere il compromesso tra Usa e Germania occorre ragionare secondo la prospettiva di entrambi i Paesi.

 

Dalla prospettiva statunitense.

 

Guadagno: è rappresentato dalla parola delega, ovvero delega del controllo militare a un alleato che faccia da deterrente nei confronti delle aspirazioni imperiali del rivale russo sul fronte europeo ovest, per poter concentrare liberamente le proprie forze su quello est dell’indo-pacifico in chiave anti cinese.

 

Perdita: rinuncia a un’egemonia totale all’interno della Nato. Concessioni militari a una Germania che potenzialmente tra non troppi anni potrebbe mettere in discussione la propria posizione di Paese satellite e insieme la stessa Alleanza Atlantica

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Dalla prospettiva tedesca.

 

Guadagno:

passaggio da mera potenza geoeconomica a potenza geopolitica di prim’ordine internazionale. (Si stima che nel giro di dieci anni la Germania diventerà la terza forza militare al mondo alle spalle di Usa e Repubblica popolare cinese)

Aumento di capacità contrattuale sia in seno alla Nato che all’Ue.

 

Perdita:

 allineamento alle politiche sanzionatorie indette dagli Stati Uniti con conseguenti pesanti sacrifici economici, soprattutto per quel che riguarda l’accesso alle risorse energetiche

 

 

Dunque, da tutto ciò si evince come il riarmo tedesco sia un compromesso. A primo sguardo, un compromesso tra Stati Uniti e Germania. Sicuramente lo è ma ad uno sguardo più attento è altresì possibile affermare che il riarmo tedesco prima di tutto un compromesso a cui gli Stati Uniti sono dovuti scendere con se stessi nel tentativo di mantenere la loro supremazia mondiale. Ciò lo dimostra il fatto che questo sia avvenuto esattamente nel momento in cui si sono trovati, il 24 febbraio, catapultati in guerra di contenimento su due fronti. Riarmare Berlino, infatti, mette in questione la strategia di Washington dal 1945 a oggi: tenere sotto controllo la Germania.

Macron 2.0 :più Francia e meno Europa

Domenica prossima la Francia andrà al voto di ballottaggio per eleggere il Presidente della Repubblica.

Il copione non presenta nessuna novità di rilievo, è lo stesso ormai da circa 20 anni. Due candidati che rappresentano le due anime di una nazione, da una parte il difensore dello stato di diritto e delle libertà individuali (Macron) e dall’altra il bieco nazionalista, nemico della repubblica, paladino delle forze conservatrici più oscure e convinto liberticida (la famiglia Le Pen).

Il risultato è scontato, come sempre; fronte comune contro la destra ed elezione del candidato opposto, anche se magari non sia proprio il modello ideale di leader che si vorrebbe avere.

Tutto a posto quindi, la Francia è un paese sovrano, democratico e libero che sceglie il proprio Presidente come desidera e su questo non si discute!

Quello che, invece, merita maggiore attenzione è il sensibile cambio di indirizzo che il programma politico annunciato da Macron, in caso (scontato) di rielezione, prevede di attuare.

La visione europeista che aveva caratterizzato il mandato dell’attuale Presidente volta a costruire sotto l’egida di Parigi un’Europa più unita, più forte, dotata degli strumenti necessari a sostenere una politica comunitaria più incisiva sulla scena mondiale, come un sistema di difesa comune (staccando la spina a una NATO in fase terminale), un’Europa green e inclusiva con a capo una Francia in grado di guidarla verso il conseguimento di questi obiettivi, è scomparsa lasciando il posto a un’altra visione più nazionalistica e più “francocentrica” si potrebbe dire.

Infatti, leggendo il programma politico per il nuovo mandato, si possono scorgere importanti cambiamenti di indirizzo volti a ripensare una Francia più attenta alle esigenze interne, con un approccio più nazionalista in termini di politica estera, meno disponibile ad affidare il proprio destino a organismi sovranazionali, meno convinta che un esercito europeo (ancorché guidato da Parigi) possa garantire la sicurezza dei propri interessi e soprattutto una Francia meno green e molto meno accogliente e inclusiva di quanto lo fosse stata prima.

L’intenzione di rafforzare il proprio strumento militare, non solo con l’incremento di risorse finanziarie, ma aumentando anche la percentuale di riservisti, sottolinea la volontà di Parigi di poter contare su uno dispositivo di ampliate capacità per poter effettuare scelte politiche più autonome bypassando i limiti imposti da alleanze scomode (NATO ad esempio) e quelli che nuove organizzazione potrebbero costituire (esercito europeo). Il tutto in linea con un rinnovato proposito di poter ricoprire quel ruolo da protagonista sulla scena mondiale che la Francia ritiene le spetti di diritto, ma che non viene condiviso né riconosciuto a livello internazionale. Prova di questo la mancanza di qualsiasi risultato che gli interventi del Presidente Macron hanno avuto su Putin all’inizio e nello svolgimento della crisi ucraina, a conferma che il ruolo riconosciuto alla Francia nell’arena geopolitica internazionale è di irrilevante valore.

È prevista, anche, una revisione in chiave restrittiva delle politiche di accettazione nei confronti del flusso di migranti che vede nell’Europa e nella Francia il luogo dove poter ricevere accoglienza, sicurezza e garanzia di diritti. Una considerazione più attenta delle necessità nazionali richiede la messa in atto, secondo il programma politico, di una maggiore severità nelle norme che regolano l’immigrazione consentendo “procedure di espulsione più rapide”, con il rifiuto della domanda d’asilo che “varrà come obbligo di abbandonare il territorio” francese, e di condizionare la concessione di permessi di soggiorno di lunga durata “a un vero processo di integrazione professionale di 4 anni o più”.

Quindi il tramonto di una società multiculturale aperta, inclusiva e progressista e la rinascita di una identità nazionale forte, precisa e caratterizzata da una necessaria integrazione come premessa fondamentale per poterne essere accettati.

Anche il settore dell’autonomia energetica è destinato ad essere stravolto dal nuovo programma, che prevede sì l’indipendenza dal gas e dal petrolio come obiettivo nell’immediato futuro (prima nazione ad attuarlo!!!!!), ma non con risorse green o rinnovabili ma con la costruzione di nuove centrali nucleari.

Altro calcio dato al concetto di un’Europa unita e comune viene dalle politiche agricole dove l’interesse è quello di rivedere il concetto di produzione in netto contrasto con la visione europea del Farm to Fork (F2F – è il piano decennale messo a punto dalla Commissione europea per guidare la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente) dove la autonomia alimentare viene messa al primo posto rispetto ad altri parametri, perché sono prevedibili delle “crisi alimentari profonde soprattutto fuori dal nostro continente e l’Europa non può permettersi di diminuire la produzione”.

Ovviamente il programma prevede anche aumenti alla ricerca indirizzata verso l’innovazione tecnologica puntando ai settori “del futuro”: aerospazio, semiconduttori, biomedicina, cloud sempre in un’ottica di rendere la Francia sempre meno dipendente da fattori esterni.

Il programma considera poi la necessità di adottare delle riforme interne di carattere sociale che ribaltano le scelte proposte nel precedente mandato affondate dalla rivolta dei gilet gialli.

Essendo una Paese sovrano, come detto, tutto questo è sacrosanto e rappresenta la visione politica di una élite che sta ai cittadini, attraverso l’espressione del loro diritto di voto, approvare o rigettare.

Tuttavia, questo programma offre una chiave di lettura abbastanza significativa sulle conseguenze che il conflitto russo ucraino ha scatenato e sul cambiamento di paradigma che tali conseguenze hanno imposto all’attenzione di un’Europa che, bruscamente, è stata risvegliata dal suo torpore fatto di eccessiva sicurezza e permeato da una visione intrisa di buone intenzioni e di pie illusioni.

La crisi conseguente allo svilupparsi del conflitto ucraino ha investito l’Europa facendo traballare le certezze che si consideravano acquisite e immutabili, conseguenza di un nuovo ordine mondiale che la fine della guerra fredda credevamo avesse creato.

Lo sviluppo di un’Unione Europea, effimera politicamente ma rilevante nel campo economico finanziario, alla quale devolvere sia la nostra sicurezza sia il nostro benessere sociale, la convinzione che un sistema basato sulla condivisione di un diritto internazionale e sul rispetto assoluto dei diritti della persona a scapito di quelli dello Stato, la capacità di poter offrire asilo e ospitalità a chiunque lo chiedesse senza porre alcun vincolo o nessuna regola, la spinta verso una società multiculturale dove rinunciare alle caratteristiche proprie della nostra cultura per non offendere le altre era ritenuto un dovere irrinunciabile, sono tutti concetti che la crisi ucraina ha spazzato via in un momento, riportandoci ad una realtà dura e difficile da comprendere che ha stimolato i fantasmi peggiori di un passato che consideravamo ormai dimenticato.

La risposta a questo è il programma politico che la Francia si appresta a validare e approvare, dove unità europea, condivisione, futuro green e inclusione sono concetti che cedono il passo a una visione più nazionale, dove l’interesse dei cittadini francesi e delle aspirazioni nazionali francesi hanno la preminenza su tutto il resto.

Nella nostra Unione Europea una visione politica di questo tipo, dove l’interesse nazionale viene anteposto a chiare lettere agli aspetti comunitari, non è una novità di adesso, basti pensare ai recenti contrasti politici che hanno animato i rapporti con Paesi come l’Ungheria e la Polonia.

Tuttavia, vedere che la Francia sta ripensando il suo futuro con una svolta di questo tipo (e la Germania sta tentennando verso l’adozione di simili strategie politiche) deve fare pensare se davvero siamo alla fine di un’ideale, quello dell’Unione Europea come entità politico economica in grado di avere un ruolo fondamentale nel contesto internazionale, oppure se questo passo non sia solamente la risposta ad una sensazione di paura e di disorientamento che il manifestarsi della crisi ucraina ha indotto nella nostra aspirazione di universalità, prodotto dalla nostra cultura e dalla nostra storia, dove l’Europa unita possa svolgere un ruolo determinate verso la costruzione di un mondo libero, democratico e aperto.

 

Crisi ucraina: le ultime dal fronte

Guerra in Ucraina di

 

Il Donbass sarà la parte di territorio ucraino dove si svolgeranno, presumibilmente, le ultime e più importanti battaglie del conflitto. Ancora una volta, come nel 2014, la presa o la resistenza di Mariupol sarà decisiva. Intanto gli ucraini ne smentiscono la presunta conquista del porto da parte dell’esercito russo. Tuttavia, questa volta la città sembra molto vicina alla capitolazione e i civili fuggono.

Oltre a Mariupol sono sotto attacco anche Kharkiv, Izium e Dnipro.

Stando all’Institute for the Study of War una battaglia importantissima per il futuro prossimo della guerra avrà luogo a Slovyansk. Sempre secondo il centro di ricerca: “Se le truppe che avanzano da Izium sono in grado di prendere la città, potrebbero scegliere di avanzare a est verso Severodonetsk per circondare un gruppo relativamente piccolo di forze ucraine, o dirigersi più a sud per circondare un contingente ucraino più grande”. Poi gli studiosi di affari militari aggiungono che questo nuovo fronte potrebbe anche non essere così favorevole ai russi in quanto sembra che le forze ucraine siano ben attrezzate per fronteggiare la “nuova invasione”. Di fatti, è dal 2014 che da Kiev stanno pianificando la difesa del territorio fortificando le città. Secondo i filorussi, ad esempio, la resistenza ucraina starebbe facendo saltare dighe per allagare le zone occupate dall’esercito di Mosca.

Anche il Presidente Volodymyr Zelensky ha ribadito la centralità strategica di Mariupol affermando che qualora cadesse il Cremlino avrebbe altre truppe da aggiungere all’offensiva nel Dobass. Ma per quanto concerne il presente il vicesindaco della città ha dichiarato: “I russi hanno occupato temporaneamente parte della città. I soldati ucraini continuano a difendere le parti centrali e meridionali della città, così come le aree industriali”. La situazione, quindi, non sembra delle migliori.

Dunque, all’interno di una situazione dove si continua a parlare di battaglie decisive, risulta evidente come la possibilità di un compromesso tra le parti sia ancora molto lontana. L’impressione, infatti, è che Putin non si siederà ad alcun tavolo prima di aver conquistato il Donbass e averlo collegato con la Crimea. Anche se qualora lo Zar del XXI secolo raggiungesse questo suo obiettivo e accettasse un compromesso col nemico si tratterebbe, molto probabilmente, non della fine del conflitto ma di un congelamento temporaneo della guerra. Magari in attesa di attendere tempi migliori per cercare di collegare i territori della Transnistria ai nuovi possedimenti ottenuti.

Zelenky, invece, forte degli aiuti militari europei e statunitensi sa che potrebbe non solo difendersi ma addirittura sconfiggere i russi sul campo. E se Kiev dovesse cacciare i russi dal Donbass Putin si potrebbe trovare costretto a dover rinunciare anche alla Crimea.

Ad ogni modo, dati gli sviluppi attuali una trattativa sembra un’ipotesi ancora molto remota. A confermare questa idea sono state anche le parole di ieri del Cancelliere austriaco, Karl Nehammer, in visita a Mosca che ha detto: “Non è stato un incontro amichevole” e che ha poi aggiunto che momentaneamente il Cremlino non vuol sentire parlare di compromessi.

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