GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Mustang, Un inno alla vita e alla libertà

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di Marco Cacioppo

Mentre la Turchia conservatrice esce vittoriosa dalle ultime elezioni, c’è chi come la regista Deniz Gamze Ergüven si fa portavoce di un messaggio progressista e bramoso di cambiamento, in nome di una libertà di espressione e modi di essere che il suo Paese conosce benissimo, ma che la direzione sempre più radicale della politica di Erdogan sembra reprimere.

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Fin dal titolo scelto per il suo esordio al lungometraggio, dopo il diploma alla Fémis di Parigi e due cortometraggi, la Ergüven reclama a squarciagola il superamento di certi tabù e vincoli culturali particolarmente restrittivi ma ancora in voga soprattutto nelle aree più provinciali e isolate della nazione, e che nulla hanno da invidiare alla tradizione più tipicamente islamista di alcuni Paesi mediorientali limitrofi. “Mustang”, infatti, è il nome con cui viene chiamata una particolare specie di cavalli selvatici, e ad avere un’indole selvaggia sono anche le cinque giovani protagoniste del film della Ergüven, che dopo l’incetta di premi ottenuti in giro per i festival di tutto il mondo, a cominciare da Cannes, si appresta a rappresentare la Francia – co-produttrice del film – all’edizione degli Oscar 2016 come miglior film straniero.

La cultura cui si oppone Mustang è quella dei matrimoni combinati, del ruolo subalterno della donna alla quale non è dato avere il pieno controllo sulla propria vita, e della repressione sessuale che significa impossibilità di esprimersi non solo attraverso l’interazione col prossimo, ma, in primis, con sé stessi e con il proprio corpo. Non è un caso, infatti, se il film si apra con le cinque sorelle protagoniste che scherzano in acqua con alcuni loro coetanei facendo il gioco della cavallina, e quindi presupponendo un contatto delle loro parti intime con la nuca dei ragazzi, prontamente condannato dalla frangia più oltranzista del paesino. La reazione dei famigliari – lo zio e la nonna, giacché i genitori delle sorelle non ci sono più – è delle più estreme. In un processo di segregazione sempre più soffocante, che ricorda le dinamiche di quel che accade nel film di Sofia Coppola Il giardino delle vergini suicide, alle ragazze viene impedito di uscire di casa, e più loro cercano di ribellarsi e imporre il proprio diritto alla libertà personale più l’abitazione in cui abitano si trasforma in un bunker.

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In realtà la Ergüven, con questo suo film, ci dice di essere critica ma ugualmente ottimista per il futuro. Il raggiungimento della libertà arriverà per tutte, anche se a caro prezzo: attraverso il compromesso, anticipando l’ingresso nell’età adulta, rinunciando alle proprie radici, finanche preferendo la morte come gesto estremo di rivalsa. Perché non c’è rivoluzione, e conseguente cambiamento, senza sacrificio.

Un primo passo, in questo senso, è stato fatto sicuramente dalle famiglie che hanno dato il permesso alle attrici, quasi tutte non professioniste, e alcune delle quali minorenni, di recitare in Mustang, un potente e gioioso inno alla vita carico di una tensione erotica destabilizzante. Soprattutto se messa in relazione con località ortodosse come quella di Inébolu, a 600 km da Istanbul, dove il film è stato girato.

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Much Loved: Sesso è Potere

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by Marco Cacioppo

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Dei Paesi del Nord Africa il Marocco è sicuramente quello più occidentalizzato e apparentemente più permissivo, anche se poi, a scavare neanche tanto sotto la superficie, si svela una società conservatrice e poco incline a superare o riconoscere i propri tabù. La doppia faccia che caratterizza questo paese viene restituita perfettamente da un film molto audace che tratta il tema poco convenzionale – almeno a quelle latitudini – della prostituzione. Senza contare che il regista, Nabil Ayouch, pur vivendo a Parigi, ha origini marocchine e dopo aver fatto il film ha ricevuto minacce di morte, così come le attrici che, al contrario di lui, risiedono proprio nello stato monarchico. Much Loved è uno spaccato estremamente realista, spesso brutale, della vita di un gruppo di professioniste del sesso mostrate in quello che, plausibilmente, rappresenta l’avvicendarsi delle loro giornate tipo.

Non è tanto l’argomento che colpisce, in Much Loved, quanto ciò che Ayouch decide di mostrare e il coraggio da parte delle attrici di concedersi all’occhio della telecamera e allo sguardo incredulo dello spettatore, anche se a shockare veramente, più che le immagini comunque spinte ai limiti della pornografia, sono le parole. La crudezza dei termini ginecologici e la descrizione verbale delle pratiche sessuali a cui sono avvezze queste sboccatissime performer sono così esplicite che un po’ ci si imbarazza. E se già lascerebbero interdetti se provenienti da un film occidentale, figurarsi da uno in lingua araba. Il film si svolge a Marrakech, prevalentemente di notte, e ci conduce all’interno dei postriboli dove donne d’ogni età si concedono a uso e consumo di facoltosi businessmen sauditi dal portafoglio facile.

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Quello che però dev’essere chiaro, in Much Loved, è che il fenomeno della prostituzione così come ci viene mostrato da Ayouch non ha tanto a che fare con una condanna della società araba patriarcale e maschilista che sfrutta la donna, vittima e soggiogata al suo volere. In parte c’è anche questo aspetto, ma quel che rende il film interessante e a suo modo rivoluzionario è piuttosto il ruolo della donna marocchina che, ben consapevole delle debolezze dell’uomo, sacrifica ben volentieri il proprio corpo allo scopo di sfruttare il ricco portafoglio dei clienti che demandano i loro servigi. Perché in fondo è di denaro e di soddisfacimento del piacere che si sta parlando, al contempo due fini e due merci di scambio contrapposte, ma parte della stessa scacchiera. L’amore è importante ma viene dopo tutto il resto e se al momento del conto il denaro non c’è… va bene anche un carico di ortaggi. Basta sopravvivere.

C’è da dire anche che questa doppia natura che contraddistingue la società marocchina in senso lato, e quella araba per estensione, si riflette allo stesso modo anche nella duplice vita di queste avvenenti operatrici di strada, che quando non si spogliano per soldi vanno a pagare pegno, più che a far visita, alle famiglie nascoste sotto il chador. Che quasi sempre non lavorano e dipendono da loro per gli alimenti ma che, ricevuto ciò che gli spetta, disconoscono la figlia perché votatasi al peccato e in controtendenza con i precetti del buon costume. Ironia della sorte ed ennesima contraddizione. Il cerchio è chiuso.

(English) School’s out for Syrian children in Turkey

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By Eleonora Vio

The majority of Syrian children in Turkey are not in school

ISTANBUL, 4 November 2015 (IRIN) – Not so long ago, Syria had an education system that was the envy of the Arab world and was reflected in its 90 percent literacy rate. But education has become yet another casualty of a civil war now in its fifth year.

Nearly half of the four million Syrians who have fled their country are living in neighbouring Turkey where authorities initially welcomed hundreds of thousands of the refugees in camps near the Syrian border. Many have since become tired of camp life and moved to cities in search of a more dignified existence.

Istanbul alone hosts more than 330,000 Syrians, according to 2014 figures from Turkey’s interior ministry, but with international aid mainly going to those living in the camps, urban refugees receive little assistance and live in poor conditions that are worsening as their exile continues and they are barred from the formal employment sector. Their children are paying the highest price for this enforced limbo.

Earlier this year, in the run-up to elections, the Turkish government backtracked on plans to grant Syrians in the country, who have only temporary protection status, the right to work. The government did adopt legislation aimed at improving their access to health care and education, but according to NGOs working on the ground, the majority of Syrian children still aren’t in school.

“Unfortunately, despite this new regulation, in Istanbul only 20,000 out of 80,000 [Syrian] children have access to school and amongst them less than 30 percent are enrolled in free Turkish schools,” said Suleiman Alaaraj, a Syrian staff member of the Syrian Commission for Education (SCE), which provides education services both in Free Syrian Army-controlled areas of Syria and in Turkey, with funding from Qatar Charity and the Islamic Bank.

Some of the Turkish schools simply don’t have space to admit more children while the language difference and Syrians’ lack of the required documents or information about enrolment procedures have also presented barriers.

Karyn Thomas, the founder of Small Projects Istanbul, an NGO based in Fatih, a working-class district with a high number of Syrian residents, noted that “the lack of the right to work for adults has a direct and strong impact on their children’s right to education.”

“People have no jobs, and when they do they are underpaid and exploited, and they can’t afford to pay for their children’s tuition fees”

“People have no jobs, and when they do they are underpaid and exploited, and they can’t afford to pay for their children’s tuition fees,” she told IRIN. “The result is that many young children either stay at home looking after their siblings and household or are forced to work and beg in the streets to provide their families with some income.”

 For the small number of Syrian children in Istanbul who are admitted into free Turkish schools that follow the national curriculum, Alaaraj acknowledged, “it’s often difficult for them to keep up with their classmates because of the language barrier and only one out of 10 succeed [in end-of-term exams].”

Across the city there are 60 Syrian schools (officially referred to as “temporary education centres”) where classes are taught in Arabic using a curriculum created by the opposition Syrian Interim Government, but only six of them are free. Some are located inside mosques and private or public buildings, but often only for a limited period of time before being moved somewhere else. SCE provides the schools with free textbooks, the content of which have been adapted by the Free Syrian Army and purged of what they view as the Syrian regime’s propaganda.

Reema Adadi is a Syrian teacher at a school located in a small mosque in Fatih. “The problem with this school is that each class is composed of kids of different ages,” she said, adding that attendance is sporadic because the children are often forced to work and contribute to the family’s income.

“[There are also] children who suffer from different traumas and should be taught by specialised personnel,” she told IRIN.

At a free school for Syrians hosted inside a mosque in Istanbul, a mentally disabled child tries solve some Arabic grammar exercises

At a free school for Syrians hosted inside a mosque in Istanbul, a mentally disabled child tries solve some Arabic grammar exercises

In addition to the Turkish and Syrian schools, there are several private schools funded by secular or religious organisations, which cost between US$590 and $690 per child for each academic year.  They are often products of community-based initiatives associated with the Syrian opposition in Turkey, and although they are usually well managed, some are still not registered with or recognised by the Turkish government.

Syrian families with several children and no regular income may be able to send one child to school “in the best-case scenario” said Alaaraj of SCE. “In the worst one, if perhaps they live far away from the school and must pay additional money for transport, they drop the whole idea.”

Alaaraj stressed that Syrian children not in school are “easy prey for the radical and criminal groups that are booming across the city.”

Small Projects Istanbul runs an education project aimed at helping Syrians, particularly single mothers who are struggling to make ends meet, enrol their children at Arab-language schools.

“We also hold Turkish classes for them and their children to cope with their daily lives and integrate into Turkish society,” said Thomas.

Teachers with Small Project Istanbul tell a popular Syrian fairy tale to a class of Syrian children in both Arabic and Turkish

Teachers with Small Project Istanbul tell a popular Syrian fairy tale to a class of Syrian children in both Arabic and Turkish

With limited funding, she added, “we do what we can and, unfortunately, it’s only a drop [in the ocean] compared to the Syrian schooling catastrophe we are facing.”

“To not end up with a whole generation of young Syrians without education, and zero prospects for their future inside or outside their home country, there is just one solution,” Thomas told IRIN. “The Turkish government must give Syrians the right to work, and therefore a chance to build a decent life here. Until then, the international community must provide them with financial help, and bring education back to the top of Syrians’ priorities – as it used to be before the war.”

ev/ks/ag

IL BLOG NAWART PRESS SU VITA

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Narin vota a un seggio elettorale di Silvan.

Con la voce scossa, Narin ha detto che sarebbe uscita dalle scene per un po’. Due giorni prima era stata arrestata per aver scortato alcuni stranieri al di là delle barricate, lì dove la città di Silvan, situata nel sud-est turco, ha recentemente dichiarato l’indipendenza dallo stato turco. Con il clima di tensione in città e le elezioni alle porte, lei, in quanto membro del Congresso delle Donne Libere curde (KJA) e del partito filo-curdo HDP, non voleva attirare nuove attenzioni su di sé e la sua famiglia. Come biasimarla.

Ma la notte del 31 ottobre ricevetti una telefonata: “Domani vi va di monitorare il clima elettorale e l’affluenza ai seggi qui a Silvan? Vi porto io.” La notte deve averle portato un diverso consiglio, ho pensato senza farmi però ulteriori domande.

La mattina seguente, 1 novembre, veniamo accolte da Narin nella sede dell’HDP di Silvan. E’ di ottimo umore, tutt’altra immagine rispetto a quella che mi prefiguravo. Fino a qualche mese fa Narin era una giornalista per l’agenzia mediatica DIHA ma, “dopo aver coperto l’assalto e il massacro contro i curdi da parte dello Stato Islamico a Kobane,” spiega, “ho capito che ero troppo coinvolta e che non potevo, e non mi andava, di essere solo una testimone di quello che succedeva.”

“Volevo impegnarmi per la mia gente, e lottare assieme alle donne curde,” Narin continua. In poche ore, e con lei a farci da guida in una città spaccata a metà, dove da un lato regna una calma strana, fatta di tanti elettori che si affrettano verso le urne mentre mezzi corazzati ne osservano i movimenti, e dall’altro ci sono barricate, trincee, tendoni e guerriglieri armati pronti a sfidare l’esercito turco, ci avviciniamo a un mondo dove le donne sono in assoluto primo piano.

Camminare con Narin per la città significa essere fermati ogni due per tre da amici, parenti, compagni di partito. A lavorare dentro uno dei seggi è la sorella, una timida studentessa della facoltà di legge di Kahramanmaras, nel sud conservatore e religioso del paese, dove attacchi e provocazioni contro la minoranza curda si sommano giorno dopo giorno. “Non potete neanche immaginare quante delle sue compagne di classe hanno mollato tutto e si sono unite al PKK,” dice Narin. “Lei dice di non volerlo ma, se decidesse di prendere le armi e reagire contro il sistema, non potremmo farci nulla.”

Al di là delle barricate incontriamo una giovane sorridente dalle guance arrossate dal freddo e il kalashnikov a tracolla, e un’anziana signora in abiti tradizionali seduta di fronte a lei. L’una coordina le azioni paramilitari tra i giovani del suo quartiere, l’altra porta approvvigionamenti ai combattenti perché, “questa battagli ci riguarda tutti, ma proprio tutti, da vicino,” afferma con veemenza.

La lancetta dell’orologio scorre veloce e si fa sempre più vicina alle 4, ora di chiusura dei seggi. Narin deve affrettarsi e tornare al centro dell’HDP per monitorare lo spoglio dei voti, e noi andiamo con lei.

Mentre scompare richiamata da mille voci, ci sediamo in una stanza, dove un gruppo di donne del partito, fumando una sigaretta dopo l’altra e sorseggiando del tè, consultano freneticamente i loro smartphone. “Ottenere seggi in Parlamento è un’ottima opportunità per entrare nell’arena politica,” spiega Zuhal Tekiner, co-sindaca di Silvan, “ma noi abbiamo già il nostro Congresso che, sebbene non riconosciuto dalle autorità turche, viene implementato in tutte le municipalità del Kurdistan turco e da equa rappresentazione a tutte le classi sociali.”

“Donne e uomini indistintamente,” conclude ammiccando alle amiche e colleghe sedute intorno, mentre Narin sporge la testa dentro la stanza e ci saluta tutte con la mano.

Frontiera Melilla, per i siriani un nuovo muro prima dell’Europa – REPUBBLICA

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Taglieggiati per poter fare richiesta d’asilo, costretti a mescolarsi tra i frontalieri o a nascondersi in vani motore delle auto, ricattati e sempre a rischio di espulsione. Anche per molti africani il limbo sul confine Marocco-Algeria è diventato una prigione, cui ormai si preferisce il viaggio mortale attraverso la Libia

di GIULIA BERTOLUZZI

Nel 2015, i primi cento chilometri di muro tra l’Algeria e il Marocco sono stati costruiti e altri 500 sono in cantiere. Una nuova barriera fisica che non sembra però intaccare l’economia di frontiera. Lungo il confine, i commerci di benzina algerina di contrabbando continuano a lucrare, così come il passaggio di persone, dall’Africa Subsahariana e dalla Siria, che transitano in Marocco con il sogno di entrare in Europa.

Tutta la rete è scandita da piccole porticine metalliche che i passeurs conoscono a menadito per connettere la città di Oujda in Marocco con quella di Maghnia in Algeria, i due grandi snodi per i migranti. Come spiega Mohamed Kerzazi dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani) di Oujda “il flusso è per lo più in direzione del Marocco, ma sempre più persone utilizzano il passaggio a ritroso, per tornare in Algeria e da lì dirigersi verso la Libia”.

In senso contrario, sempre più siriani entrano in Marocco illegalmente dall’Algeria. Entrambi i paesi hanno introdotto il visto obbligatorio per i siriani rispettivamente ad agosto e a gennaio di quest’anno, rendendo l’unica rotta possibile quella illegale. Abderazak Ouiam segretario della sezione Oujda di OMDH, ONG partner di UNHCR per la registrazione dei rifugiati, spiega che “la maggioranza arrivano dalla Turchia o dal Libano da dove prendono un volo per il Sudan, uno per la Mauritania e da lì si mettono in marcia per Mali e Algeria via terra e clandestinamente”. Anche le cifre parlano, in Marocco sono solo 834 i richiedenti asilo siriani, nella sola Melilla più di 2000.

“Con la mia famiglia, abbiamo provato in tutti i paesi. Siamo stati in Libano, Turchia, Egitto, Tunisia, Algeria e Marocco. Da nessuna parte abbiamo trovato un rifugio, un posto in cui poter vivere senza minacce o soprusi” racconta Lilia, giovane diciottenne damascena, di cui tutta la famiglia, compresa la figlia di due mesi, è in Europa, mentre lei da sola lotta per la liberazione del marito, in prigione per aver tentato d’immolarsi davanti al confine con Melilla.

La maggioranza dei siriani, stanchi di molte procedure e zero efficacia, si dirigono direttamente alle frontiere, bypassando le istituzioni e tentando l’ultima chance in Europa. Ma nonostante l’apertura di un nuovo ufficio UNHCR per richiedenti asilo sulla frontiera di Beni-Enzar, tutti i richiedenti sono obbligati a pagare il “biglietto” per riuscire ad arrivare fino all’ufficio. I militanti dell’AMDH di Nador da mesi denunciano la corruzione delle guardie di confine (sia marocchine che spagnole) che obbligano i siriani a pagare fino a 1200 euro per poter passare la frontiera e deporre la propria domanda d’asilo. La “difficoltà più grande è far passare i bambini”, spiega Omar Naji, AMDH, “perché se gli adulti riescono a nascondersi tra i lavoratori transfrontalieri marocchini, i bambini devono essere nascosti” e in tanti casi si traduce in una mazzetta più grande sia ai passeurs che alle autorità.

IMG_5555-23Per un migrante africano, avvicinarsi alla frontiera è diventato impossibile. Stéphane Julinet, giurista di GADEM (groupe anti raciste de défence des étrangers et migrants), spiega che “per 6 mesi, nessun africano è riuscito ad entrare a Ceuta o Melilla”, e dei pochi africani che ci sono riusciti, i rischi e i prezzi sono diventati insostenibili. Pagano fino a 3000 euro per essere nascosti nei posti più impensabili di macchine e camion: incastrati dentro i cruscotti e in anfratti sotto i sedili e comunque venendo intercettati e espulsi.

“Le grandi retate contro i migranti che avvenivano in tutto il paese si sarebbero dovute arrestare con la grande regolarizzazione del 2014 in cui 18.000 persone (tra cui anche europei e americani e i rifugiati siriani) ottennero il permesso di soggiorno” continua Stéphane.  Ma lungo tutti i confini settentrionali, la così chiamata “caccia al migrante” resta una prassi. Nei quartieri come Bukhalef a Tangeri, e nei boschi in cui i migranti subsahariani si rifugiano in tende di plastica intorno a Ceuta, a Melilla e nella città di Oujda, la polizia visita regolarmente per bruciare gli accampamenti e deportare in zone più interne del paese tutti gli uomini.

Questa tecnica s’iscrive all’interno della lotta contro la migrazione clandestina, capitolo importante del patto di mobilità firmato da Marocco e 9 stati europeigiugno 2013, “un capitolo molto strumentalizzato” spiega Elsa, volontaria a GADEM, “per cui sotto la bandiera della lotta alla tratta, le autorità marocchine giustificano tutte le azioni di frontiera. Un paragone naturale è quello dei bombardamenti europei ai trafficanti in Libia, in cui la guerra all’immigrazione clandestina viene fatta passare come una lotta contro i trafficanti”.  IMG_5555-19

Con la Spagna da un lato che blocca l’entrata e i flussi di finanziamenti europei per la gestione dei migranti dall’altro, il Marocco ha abilmente giocato le sue carte. Ha accettato di buona lena di diventare un guardiano delle frontiere europee, ma non senza ottenere buoni accordi a livello commerciale, politico e sociale.

Migliaia di africani si sono quindi ritrovati bloccati in Marocco da anni, senza soldi, lavoro, né alloggio, vivendo nei boschi alla mercé del freddo e della polizia. “Alcuni fratelli, non sapendo che altro fare” racconta Theo, giovane camerunense che ha tentato tre volte la traversata senza successo “mi hanno scritto che erano riusciti ad arrivare in Italia, passando dalla Libia”.

“Ormai sono tre mesi che gli africani hanno iniziato a partire verso la Libia” spiega Stéphane Julinet, “da Oujda verso l’Algeria, il Mali, il Niger e riattraversando il deserto verso la Libia”. Questo tragitto è il più pericoloso dell’intero viaggio. Stipati sui pick-up, senza spazio nemmeno per sedersi. “Se cadi sei morto” racconta Theo, “la macchina non si ferma e tu sei destinato a morire nel deserto. Ma qual è l’alternativa?”.

http://www.repubblica.it/esteri/2015/10/26/news/rotte_migranti_siriani_melilla_libia-125934068/?ref=search

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(Français) Vierges au Masculin – Choisir

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Alors que le film « Vierges Sous Serments » de Laura Bispuri1 vient de sortir dans les salles de cinéma francophones. Que reste-t-il de cette ancienne tradition albanaise où “elle” devient “il” pour échapper à un patriarcat étouffant? Qui sont ces femmes qui ont fait serment de virginité pour obtenir les mêmes droits que leurs frères ? Guilia Bertoluzzi et Costanza Spocci deNawart Press a rencontré deux d’entre elles en Albanie.

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(Français) Vierges au Masculin – Choisir

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Alors que le film « Vierges Sous Serments » de Laura Bispuri1 vient de sortir dans les salles de cinéma francophones. Que reste-t-il de cette ancienne tradition albanaise où “elle” devient “il” pour échapper à un patriarcat étouffant? Qui sont ces femmes qui ont fait serment de virginité pour obtenir les mêmes droits que leurs frères ? Guilia Bertoluzzi et Costanza Spocci deNawart Press a rencontré deux d’entre elles en Albanie.

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Costanza Spocci
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