GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Difesa - page 18

Panorama ISIS, da insurgens a nuovo terrorismo

Difesa/Medio oriente – Africa di

Ai famosi Al Quaeda e le sue varie ramificazioni, Talebani e Boko Haram si è aggiunto prepotentemente l’ISIS, nuova realtà proveniente dallo stesso substrato culturale ed ideologico che si è dimostrata meglio strutturata e dagli obiettivi più chiari.

L’esperienza vissuta soprattutto dagli  Stati  Uniti negli ultimi decenni con i gruppi estremisti ha mostrato come questi fino a poco tempo fa rispondessero più alle caratteristiche tipiche dei gruppi di insurgens (combattenti che utilizzano sistemi e metodi terroristici per i loro fini) piuttosto che a quelle delle organizzazioni terroristiche.

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La definizione di insurgens richiama quelle frange estremiste che si limitano a compiere attività in un determinato territorio e che emergono proprio per compiere insurrezioni verso un preciso e contestualizzato nemico. Queste realtà restano però fuori da una logica di mondializzazione della loro azione.

Quello che invece caratterizza Al Quaeda e l’ISIS è, oltre all’utilizzo di metodi terroristici, il fatto che inseriscano le loro azioni e la loro stessa esistenza in un più vasto obiettivo che è quello di diffondere la religione musulmana. Al Quaeda e lo Stato islamico, entrambe organizzazioni provenienti da realtà localizzate hanno con il tempo costruito un sistema, un vero e proprio apparato che per vivere ha bisogno di essere nutrito massicciamente dall’esterno.

Certamente, elaborando il concetto di insurgens dal quale avevano preso vita per poi applicarne le tattiche fino a scollegarsi dall’utilizzo esclusivo di  tale metodica per intraprendere una strada propria. Dal momento in cui la rivoluzione islamica ha intrapreso un cammino globale si è riformata, ricostruita, iniziando una sorta di nuova guerra terroristica il cui scopo non era più solo scacciare un invasore o rivendicare un ruolo su un territorio preciso.

Dati alla mano, vite perse alla mano, le strategie intraprese dai vari governi che hanno agito di loro iniziativa e dalle varie coalizioni che si sono impegnate, non si può non riconoscere che buona parte degli sforzi compiuti abbiano avuto poco successo. Sul fronte dell’eliminazione della minaccia terroristica in generale i progressi sono stato pochi mentre su quello della cooperazione si sono avuti risultati sicuramente più concreti.

Eppure non solo molte di queste organizzazioni restano in vita, ma ad essere divenute più efficienti sono le loro reti di supporto e paradossalmente la loro credibilità agli occhi delle popolazioni interessate. Se Bin Laden dal canto suo a partire degli anni ’80 era riuscito a costruire una rete capillare in decine di Stati composta da migliaia di seguaci, strutturati canali di finanziamento, riciclaggio e stabili rotte commerciali, lo Stato Islamico ha sviluppato questi meccanismi rendendoli più efficienti ed anche più palesi agli occhi di tutti.

Non é infatti una novità che i suoi canali di finanziamento comprendano anche la vendita ed il contrabbando di greggio. L’ISIS è in grado di generare da solo una grande fetta degli introiti con cui nutre le sue politiche. Il paradosso che ne consegue è che mentre Bin Laden era stato costretto a sviluppare una rete di intermediari finanziari invisibili nascondendosi a sua volta, lo Stato Islamico oltre a questo dimostra ogni giorno che può vivere ed operare alla luce del sole.

Sebbene il territorio di operazioni e su cui lo stesso Stato vanta sovranità sia costituito da deserto e non abbia ai suoi confini barriere, reti o mura, l’ISIS sembra ancora lontano dall’essere sconfitto. Grazie sicuramente ad una vasta rete di supporto economico anche esterno si sostiene che i guadagni che lo Stato Islamico genera e di cui gode siano enormemente più elevati di quelli della “primitiva” Al Quaeda, quasi passata di moda.

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Se il secolo da poco terminato ha visto tra le minacce proprio questi gruppi terroristici, è lecito domandarsi se qualcosa stia cambiando all’interno del modo di concepire queste organizzazioni da parte dei leader stessi. Lo Stato Islamico potrebbe certo essere un’eccezione ma a giudicare dal successo che sta ottenendo e dalla mondializzazione della sua idea di rivoluzione islamica, si pone il rischio che questo gruppo divenga sempre più un esempio nel favorire l’insorgenza di nuovi attori ad esso simili. Attori che molto spesso non nascono come statali. Questa concezione non gli appartiene dal momento che nascono in clandestinità ed in clandestinità essi vivono.

Il degrado permanente che caratterizza particolari forme di società viene spesso sorretto da forme autoritarie di governo e l’appellativo di “organizzazioni terroristiche” rischia di trasformarsi in una definizione vecchia ed inadeguata: la minaccia si è accentuata da quando si è passati dal controllo del territorio all’amministrazione del territorio.

Questo pare vero se guardiamo allo Stato Islamico, al momento unico rappresentante di questo nuovo terrorismo. Di conseguenza, la poca concretezza degli interventi messi in piedi all’inizio della campagna militare forniscono un margine di manovra ancora più ampio all’ISIS. Possiamo infatti notare come dalla metodica dell’insorgenza armata propria di molti gruppi terroristici si sia giunti ad Al Quaeda. Non è un caso che il nome significhi oltre “la base” anche “la regola”, il che fa pensare ad una concezione di tipo organico da applicare e diffondere su vasta scala dell’organizzazione e della sua ideologia. Da Al Quaeda il passo successivo degno di nota è stato lo Stato Islamico, che ha fatto proprie tutte le armi di cui poteva disporre.

E’ bene però sottolineare un punto generale che serve ad inquadrare il panorama all’interno del quale l’ISIS si muove, che non è solo quello che appare all’esterno: dalla tecnologia alle armi di distruzione di massa, dai semplici fucili all’utilizzo dei media le mire di queste organizzazioni saranno sempre più alte. Quanto più sarà disponibile sul mercato, tanto più esse saranno pericolose. Continue esecuzioni, persecuzioni, rapimenti, rastrellamento di villaggi. Il grande tema dello Stato Islamico resta la reazione che viene opposta, ma attorno ad esso vi è un insieme di Stati deboli, distratti o più interessati alla propria sicurezza interna e competizione internazionale per rappresentare una proposta concreta.

 

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Corporate security e protezione della rete: il caso F 35

Difesa/INNOVAZIONE di

Le intrusioni e i furti di dati aziendali non potranno che crescere data l’importanza che il web riveste nel commercio, nei servizi, nelle comunicazioni. Questo genere di argomento, però, risulta tanto attraente quanto poco apprezzato sotto il profilo dell’importanza che riveste.

Mossi dalla consapevolezza dell’esistenza di nuove minacce, Stati ed aziende hanno iniziato a prendere contromisure dotandosi, per così dire, di pool di esperti informatici. E’ ragionevole pensare che attacchi di una certa importanza avvengano di continuo e l’ipotesi che attori statali ne siano coinvolti in veste di attaccanti ed attaccati  non è né remota né fantascientifica. Ne è esempio il caso dell’ormai famigerato velivolo da combattimento F 35.

Il progetto di questo caccia di nuova generazione è stato al centro di un vero e proprio attacco informatico nel 2012, un’azione di spionaggio condotta a regola d’arte, che ha causato non poco imbarazzo tra le alte sfere militari ed aziendali coinvolte. La serie di eventi verificatisi ha messo in serio pericolo alcune delle armi più avanzate sul mercato, esponendo l’intero apparato ad azioni di sabotaggio e quindi di interruzione dei progetti stessi, infiltrazione all’interno dei sistemi di rete di un elevato numero di computers appartenenti ad aziende che hanno sottoscritto contratti di milioni di dollari con il governo degli Stati Uniti e quindi alla potenziale penetrazione dei sistemi informatici degli stessi apparati istituzionali.

Quella che ha descritto Shane Harris sulla base di fidate fonti d’intelligence è a tutti gli effetti un’operazione di guerra condotta da un gruppo di informatici nelle maglie di una parte del sistema industriale e della difesa statunitense. La quantità di dati rubati è impressionante: si stima sia stato sottratto l’equivalente del 2% dell’intera biblioteca del Congresso americano. Decine di progetti, migliaia di files riservati relativi allo sviluppo di tecnologia, mezzi, armamenti.

Diversamente da quanto accade per i sistemi informatici governativi che per ovvie ragioni sono altamente sorvegliati e protetti (molto spesso le informazioni classificate non sono tenute in sistemi connessi alla rete), questo non accadeva con le aziende che collaboravano con il governo. Di conseguenza accedere a queste ultime è stato più semplice. Le indagini scontratesi con il primo ostacolo di una tardiva scoperta dell’attacco hanno dovuto affrontare poi la difficoltà di dover risalire alla fonte da cui l’infiltrazione era partita.

La complessità dell’apparato dei contractors industriali statunitensi ha reso l’operazione titanica, ed il tutto era complicato dalla particolarità del progetto del caccia stesso: l’utilizzo massiccio di alta tecnologia che permette al velivolo di compiere anche un semplice volo fa affidamento su milioni di codici che riguardano la logistica, l’avviamento dei sistemi di bordo, delle comunicazioni ecc. Un sistema così complesso ed interconnesso si è dimostrato una vera e propria spina nel fianco per gli investigatori, che hanno dovuto compiere un lavoro enorme per identificare la faglia tra le centinaia di imprese che a vario titolo erano impiegate nel progetto F 35. Insomma, continua Harris, le spie si sono trovate in quello che potrebbe definirsi un target-rich environment, un ambiente ricco di obiettivi.

Molti esperti definiscono il progetto dello Joint Strike Fighter juicy, ossia succoso per molti hackers; alcuni commentatori ritengono che il sistema alla base del funzionamento dell’aeroplano (un cervello elettronico) lo renda simile ad un drone, asserendo che il pilota più che pilotarlo si limiti a copilotarlo.  Il caccia utilizza quello che viene definito sistema fly by wire, un complesso impianto che commuta i comandi e qualunque altro tipo di indicazione in segnali elettrici, i quali intervengono in ogni istante modificando, stabilizzando, correggendo gli assetti, fornendo informazioni, dati rilevati ed occupandosi di tutto ciò che riguarda il volo ed il velivolo. Questo sistema, in uso da anni ma sempre più presente e pervasivo, gestisce e permette qualunque attività e richiede un continuo controllo e monitoraggio: proprio tale dipendenza renderebbe questa formidabile arma molto più vulnerabile ad attacchi cyber.

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Quello che stupì maggiormente i tecnici militari e dell’ FBI quando bussarono alla porta delle aziende coinvolte non deve sorprendere: alcuni manager delle compagnie i cui sistemi di sicurezza erano sottoposti ad investigazione ignoravano l’esistenza dell’aspetto cyber nella logica di protezione aziendale, sebbene la totalità delle informazioni fosse conservata online o facilmente accessibile attraverso la rete. Assieme a progetti ed informazioni sottratte riguardanti l’ F 35, le ricerche hanno portato alla luce attacchi relativi al programma missilistico Patriot, all’elicottero Black Hawk ed al famoso precursore della nuova generazione di aerei militari made in USA, l’ F 22 Raptor.

Questa vera e propria emergenza nazionale ha sollevato importanti dubbi sulle modalità di concepire e realizzare un sistema di sicurezza aziendale. L’indagine si è spinta fino ad ispezionare quali tipi di computers e quali programmi utilizzassero gli impiegati ed i dirigenti delle aziende a vario titolo coinvolte, quali dati di accesso fossero necessari, quali e quanti sistemi di sicurezza ogni impianto contemplava per la salvaguardia delle informazioni. Uno dei timori maggiori era infatti che tra i dati sottratti vi fossero quelli relativi ai sistemi di difesa ed attacco del velivolo, il che avrebbe potuto portare in caso di utilizzo dello stesso ad una perdita totale di efficacia del mezzo in caso di combattimento. In sintesi, la paura era che il caccia si trovasse ad affrontare altri velivoli in combattimento in una condizione di totale inferiorità.

L’indagine ha potuto evidenziare i punti deboli dei sistemi di sicurezza e quali colli di bottiglia presentavano le varie catene di realizzazione dei progetti portando grandi benefici alla cooperazione tra apparato governativo ed aziende. A seguito dell’inchiesta si è dato il via ad un processo di riscrittura dei codici software del velivolo che ha portato ad oltre un anno di ritardo sul progetto iniziale ed un aumento dei costi di circa il 50%.

Stando alle informazioni che la fonte di Harris rivela è verosimile che tale serie di attacchi provenisse dalla Cina, sebbene non se ne possa avere la totale certezza. Perché proprio la Repubblica Popolare? Due plausibili spiegazioni: la crescita e lo sviluppo tecnologico strabiliante conosciuto dal governo di Pechino (che secondo autorevoli membri dell’ FBI è da ritenere un risultato in parte ottenuto grazie alle informazioni sottratte) e la forte somiglianza che lega l’ F 35 e l’ F 22 con il J 20 ed il J 31 cinesi (vedi foto sopra).

Al momento la tecnologia americana resta la più avanzata ed in caso di confronto i caccia americani avrebbero di gran lunga la meglio sui rispettivi asiatici. Il punto però è anche questo: sottrarre informazioni, ammette l’FBI, permette ai competitors di superare limiti temporali legati alle tempistiche dello sviluppo di nuova tecnologia necessaria accorciando il divario con le grandi potenze e permette di ottenere guadagni significativi sui costi di sviluppo e ricerca.

La pericolosità e la gravità di tale evento ha avuto come risultato l’immediata convocazione di un tavolo di esperti del settore pubblico e privato che ha portato ad un saggio scambio di dati, pareri, buone prassi; la collaborazione ha fatto si che fossero diffusi all’interno della rete così creatasi dati relativi ad appalti, forniture, personale impiegato, software ed infrastrutture utilizzate. Ciò detto, occorre precisare che proprio gli Stati Uniti da anni sono tra gli attori principali nella guerra cibernetica e che non è recente l’utilizzo massiccio di tale tecnologia per i fini più disparati che riguardano da un lato la protezione di dati relativi ad interessi industriali e dall’altro la sacrosante sicurezza nazionale, per continuare con azioni di sabotaggio industriale ed economico nei più svariati settori.

 

L’Europa schierata a Bangui

Difesa di

La Repubblica Centrafricana  in passato colonia francese dal 1960 indipendente è stata governata per 30 anni da governi di forma paramilitare. Solo nel 1993 dopo libere elezioni si insediò un governo civile che è durato dieci anni fino al colpo di stato del Generale  François Bozizé.

Da quella data La Repubblica Centrafricana è stata teatro, di violenti scontri e diffuse violazioni dei diritti umani ad opera dei gruppi armati contrapposti  che hanno causato la dissoluzione dell’autorità statale e migliaia di vittime tra la popolazione civile, oltre all’esodo di un milione di persone.

Da febbraio 2014 l’Europa  istituisce una missione di peacekeeping sotto egida ONU adottando la risoluzione 2014/73, con cui veniva istituita la Missione multinazionale EUFOR RCA, che iniziava formalmente il 01 aprile 2014, avente per Area di Operazioni tre zone sensibili della capitale centrafricana Bangui: l’aeroporto internazionale di M’poko e i quartieri 3 e 5, in passato colpiti da violenti disordini tra milizie contrapposte e attualmente in via di stabilizzazione.

La missione EUFOR RCA comprende asset di 13 nazioni che operano con i propri contingenti coordinati das un comando opertaivo centrale in Grecia.

L’Italia ha schierato un distaccamento dell’8° reggimento Genio della Brigata paracadutisti Folgore che verrà avicendato dagli alpini della Julia in questi gioerni.

Tra i compiti dell’assetto genio figurano il supporto e il mantenimento della mobilità delle forze EUFOR, la ricognizione e il mantenimento degli assi di comunicazione, il supporto alla forza in materia di residuati bellici, e il contributo al mantenimento e alla difesa passiva dei compound di EUFOR. A questi compiti si aggiunge la realizzazione di lavori infrastrutturali di base in favore della popolazione e del governo locale e il monitoraggio di un importante progetto di ricostruzione di un ponte, finanziato dall’UE e affidato a imprese locali.

La Francia ha assunto il comando della missione dell’Unione Europea con il Generale di Divisione Philippe Pontiès, quale Operational Commander presso l’EU OHQ di LARISSA e con il Generale di Brigata Thierry Lion, quale Force Commander a Bangui.  Il mandato di EUFOR-RCA è stato di recente esteso fino al 15 marzo 2015

Alessandro Conte

Un “ponte per Bangui” missione per evitare crisi umanitaria

Difesa di

Segno concreto dell’efficacia dell’integrazione europea, nell’ambito della difesa e della politica estera comune, è senza dubbio la missione EUFOR IN Repubblica Centrafricana, nata proprio all’inizio del semestre di presidenza Italiana dell’ U.E. a cui il nostro Paese contribuisce con un contingente di genieri alpini del 2° guastatori di Trento che da poco ha avvicendato i colleghi genieri paracadutisti della Folgore.

Sono 13 le nazioni che compongono con proprie unità il contingente EUFOR in Centrafrica, composto da circa 700 uomini dislocati presso la capitale Bangui, ma il supporto finanziario e logistico della missione coinvolge tutti i 28 Paesi dell’Unione Europa.

L’arrivo delle forze internazionali a Bangui ha scongiurato il rischio di una catastrofe umanitaria in tutto il Centrafrica , dopo gli scontri interconfessionali scoppiati alla fine del 2013 che hanno causato migliaia di vittime e l’esodo di oltre un milione di persone.

Grazie ad un ritmo operativo molto intenso, la missione europea EUFOR ha rianimato tre zone sensibili della città, contribuendo a creare un ambiente più sicuro per la popolazione e le organizzazioni internazionali ed umanitarie, facilitando al tempo stesso lo schieramento della missione ONU denominata MINUSCA votata dall’assemblea generale delle nazioni unite con la risoluzione 2014/73,  .

In tale contesto, il contingente italiano composto da genieri e tecnici altamente specializzati, ha operato e tutt’ora opera per ripristinare la viabilità della città, sia riparando sia realizzando strade vitali per garantire la libertà di movimento ed il libero scambio, è impegnato nella diuturna bonifica dei canali di scolo intasati, nei quali proliferano insetti e zanzare fonti di trasmissione della malaria  ancora oggi la prima causa di morte infantile a Bangui, inoltre  rafforzando la sicurezza dell’aeroporto hanno implementato la sicurezza dell’area che ospita un campo profughi con 20.000 sfollati (100000 prima dell’arrivo di EUFOR).

Malgrado mesi di attività e controlli  la sicurezza a Bangui rimane volatile, come dimostrano i violenti scontri episodici tra le frange estremiste dei gruppi musulmani e cristiani, che hanno causato numerose vittime e in più di un occasione hanno coinvolto sia le forze ONU appena schierate sia quelle europee, fermo restando che EUFOR gode di notevole popolarità tra la gente di Bangui.

I prossimi mesi saranno dedicati al passaggio di consegne definitivo ai caschi blu della missione MINUSCA, ed il conseguente ripiegamento del contingente europeo che dovrebbe avvenire entro il prossimo mese di  marzo, tuttavia sarà portato a termine in parallelo un progetto che vedrà i genieri italiani protagonisti della costruzione di un ponte destinato a riunificare due quartieri che furono divisi dalle ostilità, una riunificazione non solo simbolica ma altrettanto necessaria per ridare slancio all’indotto economico e commerciale.

Il progetto “ponte per Bangui”  è una bella iniziativa di cooperazione europea (l’U.E. è infatti il primo partner della Repubblica Centrafricana);   il ponte costruito in Polonia, è stato fornito dalla Repubblica Ceca, trasportato con un volo della Germania, e sarà appunto installato dal contingente italiano, un coordinato e perfetto gioco di squadra!

 

Rischio e cambiamento climatico

Difesa di

Il cambiamento climatico è ormai diventato un argomento molto diffuso, grazie anche ai dibattiti accademici e scientifici che stanno coinvolgendo la società. Innanzitutto, conviene specificarlo, i cambiamenti climatici non sono una novità: quello che spaventa scienziati e politici è la proporzione che questi hanno assunto negli ultimi decenni. Alcuni studi affermano che negli ultimi 30 anni la temperatura è cresciuta ad un ritmo maggiore di quanto non si sia verificato negli ultimi 1400 anni. I ricercatori sono d’accordo nel definire il clima come un acceleratore di instabilità ed un catalizzatore di effetti o, meglio ancora, un ingrediente in grado di esacerbare tensioni ed aumentare il rischio di conflitti. Agendo direttamente sui bisogni fondamentali esso è in grado di stressare società, economie, infrastrutture.

Possiamo dividere i rischi partendo da una prima importante categorizzazione. I rischi diretti, quelli cioè derivanti da fenomeni naturali sempre più frequenti come tempeste, precipitazioni consistenti ecc, che hanno un impatto diretto ed immediato sull’ambiente e sulle società; i rischi indiretti, in grado di causare effetti di natura collaterale anche molto gravi, la cui pericolosità deriva da un’osservazione fondamentale: più le nostre vite e le nostre abitudini sono dipendenti dalla tecnologia, dalle infrastrutture, da servizi di diverso genere per soddisfare i nostri più svariati bisogni, più cresce la preoccupazione che questo genere di eventi sia in grado di minacciare la nostra sicurezza, la qualità della nostra vita.

L’interconnessione dei commerci, della finanza, del trasporto di merci, persone, informazioni è senza dubbio l’elemento caratterizzante questo secolo e nel prossimo futuro lo sarà in maniera sempre più diffusa e pervasiva. Di conseguenza possiamo affermare che eventi climatici naturali locali o regionali, sono in grado di avere effetti importanti su larga scala. Il punto su cui dovrebbero convergere le politiche e gli sforzi del settore pubblico e privato è uno e molto importante: bisogna che si decida quanta percentuale di rischio siamo disposti a considerare. Tenendo presente che inevitabilmente fenomeni climatici straordinari impatteranno in maniera seria su economie e società e considerando l’assenza di una zero risk policy bisogna agire in maniera differente nel breve, medio e lungo periodo, approntando le necessarie misure e precauzioni sulla base delle previsioni e soprattutto sul modello di vita che prospettiamo per le generazioni future. Questo genere di decisioni non possono essere più rimandate ad una data da destinarsi.

La conclusione più saggia è sicuramente quella che conduce ad un rafforzamento della cooperazione internazionale. Ci sono fenomeni che sicuramente non possono essere fermati, altri che possono essere misurati e quindi in parte affrontati con appropriate misure di sostenibilità ambientale, economica, sociale. Quello che prospettano le ricerche e le proiezioni degli analisti è un aumento dell’instabilità a livello nazionale ed internazionale, che va però sommata ai cambiamenti sociali ed economici e che rischia di mettere in pericolo (o quanto meno causare ulteriori tensioni e stress) le comunità che ne saranno interessate direttamente ed indirettamente. Un esempio fra tutti le migrazioni forzate a causa di carestie e siccità. In un mondo così interconnesso, in cui regioni distanti sono influenzate da cambiamenti di natura politica, disastri ambientali, politiche di tipo conservativo non sono assolutamente la strada corretta da intraprendere. Eppure gli esperti ritengono che siamo ancora in tempo per intraprendere misure in grado di ridare col tempo un assetto più equilibrato all’ecosistema.

Alcuni studi suggeriscono che anche nel caso di misure aggressive per fermare l’inquinamento, il nostro pianeta necessiterebbe decine e decine di anni per ritornare ad un proprio stato d’equilibrio: uno scenario sicuramente non rassicurante. Nel suo studio Degrees of risk – defining a risk management frameworkfor climate security Mabey afferma che alcune politiche di riequilibrio dovrebbero andare di pari passo con l’aumento della temperatura globale, precisando che gli scenari di mitigazione divergono fortemente sulla base dei diversi livelli di emissioni e che, date delle politiche di riduzione e contenimento delle emissioni che siano generalmente condivise ed adottate, le applicazioni devono divergere ed essere tarate sulla base delle necessità e possibilità dei singoli Paesi. C’è poi un collegamento interessante tra i dati di questi studi e l’elemento governance. A causa degli impatti che il clima avrà sulle società (l’innalzamento della temperatura ad esempio sarà in grado di far sentire i suoi effetti sull’agricoltura, sulla vivibilità di centri urbani ecc), il modo in cui i governi decideranno di intraprendere politiche responsabili sarà in parte in grado di determinare il loro grado di sopravvivenza, competizione o fallimento. La differenza tra politiche di mitigazione che avranno impatti positivi o negativi sulla società avrà il suo peso laddove i governi siano caratterizzati da deboli istituzioni. Sebbene il richiamo di Mabey di restare sotto la soglia dell’aumento di 2°C sia stato già superato, lo studioso propone tre differenti approcci al problema: obiettivi di mitigazione per un aumento di 2°C ( siamo in presenza in questo caso di un aumento gestibile) e politiche di resilienza sviluppate a partire da quadri nazionali indipendenti, egli considera la possibilità di un aumento ulteriore tra i 2°C ed i 4°C suggerendo di adottare strategie internazionali di gestione delle risorse e coordinare interventi umanitari. Il terzo e più estremo degli scenari (un innalzamento che arriva ai 7°C) non lascerebbe altro spazio se non quello di preparare piani di emergenza che siano in grado di far fronte a dei veri e propri disastri. E’ chiaro che queste sono previsioni basate su trend storici e calcoli di proiezione, ma quanto detto riguardo la teoria della mitigazione del rischio fornisce un utile spunto e strumento che può servire l’investigazione di quelle politiche che saranno sempre più comuni nel prossimo futuro e diverranno sicuramente un punto importante di discussione e frizione tra gli stati.

La minaccia terroristica interna alla sopravvivenza di Israele

Difesa/Medio oriente – Africa di

E’ pacifico ormai interpretare il perenne conflitto in Medio Oriente come lo scontro tra uno Stato in espansione (Israele) ed un territorio in continua difesa (Gaza), nella parte del più debole. E’ indubbio, certamente, che un paragone tra i due governi (o come li si voglia definire l’uno in rapporto all’altro) non possa porsi. D’altra parte, però, senza negare la sofferenza cui gli abitanti della striscia sono sottoposti ed anzi, sottolineandone la paradossale ed incomprensibile inevitabilità, vale la pena girare intorno al tavolo e sedersi dall’altro capo.

Mettiamo per un attimo il conflitto con la striscia di Gaza da parte. Israele sin dal momento della sua nascita ha dovuto fare i conti con vicini tutt’altro che amichevoli. Ha dovuto nel tempo e deve attualmente affrontare una minaccia terroristica di diversa provenienza e natura. Sebbene si tratti di terrorismo, esso è però caratterizzato da una pluralità di manifestazioni di cui il lancio di razzi o mortai dalla striscia di Gaza (spesso lanci alla cieca) rappresenta solo una parte e, come dimostrano le analisi ed i dati del Sommario Annuale 2013 sul terrorismo e le attività di contrasto, in alcuni periodi non rappresenta neanche la minaccia più grave. Israele deve fare i conti con dimostrazioni di ostilità che spesso sono condotte non dall’esterno verso l’interno dei suoi confini, ma con attacchi che nascono e si concludono nel suo territorio. In particolare nella città di Gerusalemme e nelle aree di Giudea e Samaria. Oltre a ciò, permane  il pericolo che la regione del vicino Sinai continui a rappresentare un focolaio incontrollato ove gruppi terroristici di matrice islamica fondamentalista possano trovare terreno fertile per accrescere la loro influenza ed aumentare dunque il rischio per la sicurezza d’Israele e non solo.

Nello specifico, Giudea e Samaria hanno visto nel 2013 un forte incremento degli attacchi terroristici, più che raddoppiati rispetto all’anno precedente, caratterizzati da lanci di granate o esplosioni di ordigni improvvisati. L’area di Gerusalemme, al contrario, ha visto un calo di attacchi. Le minacce si riferiscono ad una serie di tipologie di azioni ostili che vanno dal lancio di granate all’uso di veicoli, dal lancio di razzi ad omicidi condotti con uso di armi alla deflagrazione di ordigni improvvisati inesplosi (IED). La possibilità che alcuni gruppi appartenenti alla cosiddetta jihad islamica globale mantengano il controllo di parte dell’area della penisola del Sinai, ha inoltre spinto le autorità israeliane a cooperare con quelle egiziane al fine di ridurre la pericolosità di queste organizzazioni terroristiche, tanto che negli ultimi anni si è potuto notare una diminuzione degli attacchi provenienti da queste regioni. Il problema è infatti a doppio filo anche egiziano, poichè l’attuale governo di Al Sisi affronta gli stessi disagi: tunnel sotterranei, disordini, minaccia allo Stato, conflitti localizzati. Fortunatamente, alla riduzione degli attacchi è corrisposta una riduzione del numero delle vittime. Un ulteriore rischio per Israele è rappresentato (con potenziali critiche ripercussioni in scala temporale) dagli arabi israeliani che abbandonano la loro terra per recarsi a combattere all’esterno. Questo esodo, sebbene ridotto, dal punto di vista di Israele è visto a ragione come possibile minaccia in quanto questi individui si recano in territori stranieri (ad esempio in Siria) per essere coinvolti in conflitti o movimenti di vario genere. Ciò implica un attivismo che spesso giunge fino al combattimento armato, che presume tra l’altro un addestramento di tipo militare. Il pericolo (come prova l’arresto di Yusef Higla nel 2013) è che questi soggetti mantengano contatti con organizzazioni o elementi  coinvolti in attività ostili ad Israele e, che possano essere poi utilizzati per condurre attacchi di varia forma contro il governo israeliano o i suoi abitanti. A questo spesso poco citato argomento,  si aggiunge il rischio politico sociale proveniente dalle ali estreme della destra e della sinistra in seno al menage politico interno, ma che si trasformano in attacchi mirati da parte di radicali contro specifici settori della popolazione (attacchi a persone quali accoltellamenti ed alle proprietà, come incendi dolosi).

Una realtà, dunque, lontana da quella che spesso ci viene proposta. Israele è al centro di numerosi possibili attacchi condotti da altrettanto numerosi soggetti singoli o organizzati i cui obiettivi sono spesso civili (nelle strutture e nelle persone che ne sono coinvolte). E’ chiaro che, in una situazione in cui ad una forte minaccia per così dire interna si aggiungono uno o più conflitti esterni (entrambi in buona parte riconducibili alla stessa matrice di rivalità storico religiosa), quel forte Stato che risponde al lancio di razzi con invasioni militari assume un aspetto più realistico, meno eroico e soprattutto più in preda ad una situazione di costante stress ed allarme. Sotto un ulteriore punto di vista, allargando la nostra visione all’area regionale in cui esso è inserito, l’esistenza stessa di Israele, poi, apparrebbe sotto tutt’altro punto di vista qualora si evidenziasse il ruolo di cuscinetto per nulla scontato che esso svolge nell’area medio orientale. Le preoccupazioni israeliane sull’esistenza di gruppi terroristi fondamentalisti ai suoi confini o al suo interno è una preoccupazione che, qualora venisse a mancare l’impegno israeliano, peserebbe interamente su parte degli stati con esso ora confinanti.

Il lungo scivolo e la sindrome del combattente. L’altro lato dell’utilizzo dei droni per missioni di targeted killing.

Difesa di

Quando la minaccia è il terrorismo asimmetrico, la risposta è altrettanto asimmetrica. La vittoria in uno scontro è basata sull’asimmetria, se così possiamo dire, dell’utilizzo delle risorse disponibili. I problemi sorgono quando, per debellare una minaccia, si finisce per causarne indirettamente un’altra, più pericolosa.

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L’utilizzo dei droni (arma tra le più controverse ma sicuramente tra le più utili) ha modificato ulteriormente i conflitti moderni, rendendola l’arma più asimmetrica tra le armi asimmetriche. Ma fin qui, se gli obiettivi fossero sicuri e mirati, non ci sarebbe nulla di scandaloso. Il cosiddetto “targeted killing” ha avuto un esponenziale crescendo in questi ultimi anni nelle operazioni militari. L’utilizzo, in questo caso, di droni da parte di Stati nei confronti di singoli individui al fine di eliminare il portatore di una minaccia o la minaccia stessa sembra essere la nuova frontiera delle operazioni militari. L’impiego massiccio di questo tipo di tecnologia non riesce però ad evitare che, all’interno delle statistiche, finiscano per essere riportati anche target che sono tutt’altro che sensibili. Le vittime civili legate all’utilizzo dei velivoli senza pilota come armi di precisione sono un aspetto ormai innegabile di questa nuova politica dei conflitti. Quello che dovrebbe preoccupare maggiormente è l’effetto che questi danni collaterali hanno sulla popolazione inerme che diventa protagonista del conflitto in atto. Sono cioè partecipi di attacchi (che spesso hanno tra le vittime bambini) che sebbene abbiano l’obiettivo di essere precisi, spesso non riescono ad esserlo.

Il risentimento che l’utilizzo di queste armi crea nelle popolazioni sta mettendo seriamente a rischio la strategia e la politica che ci auguriamo sia dietro queste operazioni militari, preparando un lungo e pericoloso scivolo su cui gli Stati Uniti ed i loro alleati in possesso di tale tecnologia faranno meglio a non incamminarsi. Il senso di onnipotenza che questi nuovi droni creano, rende gli eserciti che li posseggono destinatari di un odio ed uno sdegno ancora più profondo, viscerale, anche da parte di chi non ne ha mai visto uno. E’ quanto ammesso dal Generale McChrystal, ex comandante forze ISAF in Afghanistan. Lo stesso presidente Karzai si era pubblicamente esposto affermando di non accettare missioni statunitensi di questo tipo sul territorio afgano, in seguito alla conferma dell’uccisione di due bambini. Ciò che è sicuro, è che il numero delle nazioni che si stanno dotando di questa tecnologia sta aumentando. E ne è aumentato il loro impiego.

Al crescere di una tensione che sta creando sempre maggiori obiezioni interne e sempre maggior odio esterno verso governi che legittimano l’uso massiccio di queste armi, dovrebbe accompagnarsi un pubblico dibattito legale e sociale su questi temi. Sarebbe bene far uscire fuori da questa patina di mistero la nuova guerra dei droni, per evitare che in Pakistan, in Afghanistan, in Iraq e altrove si scateni quella che possiamo definire la “sindrome del combattente”. Non esistono zone neutrali, tutte le persone sul terreno sono considerate combattenti. In sintesi quello che esprimeva il Maggiore David Stockwell in merito ad un raid statunitense nella missione “Restoring Hope” in Somalia, dopo che erano state accertate sessanta vittime civili. L’ironia della sorte è che per mezzo dell’utilizzo spesso opinabile della tecnologia dei droni, la sindrome da combattente si sta diffondendo per inerzia in maniera massiccia proprio a causa dell’indiscriminato utilizzo di tali armi, facendo aumentare il numero di volontari che si arruolano in questa o quella milizia locale perchè esausti delle continue vessazioni, privazioni e perdite civili cui assistono e che non riescono a spiegarsi. Arab News riporta che, secondo Human Rights Watch, il fronte dell’ISIS in questi ultimi mesi ha reclutato giovani ragazzi (in alcuni casi bambini) come cecchini. I video li riprendono sfilare sui convogli insieme ai loro fratelli soldati, proprio come nelle migliori tradizioni delle guerre dell’ultimo mezzo secolo.

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Predator, l’occhio del drone

Difesa/INNOVAZIONE di

Conosciuto come Predator, il velivolo prodotto dalla Generale Atomics statunitense appartiene alla categoria degli aeromobili a pilotaggio remoto (APR). Si tratta di un drone, una macchina cioè in grado di operare attraverso un sistema di comandi a distanza, via radio, senza mettere in pericolo la vita dell’essere umano (alcune versioni sono in grado di impiegare missili, permettendone così l’utilizzo non solo come ricognitore ma anche con compiti di attacco). Il Predator, in realtà, costituisce solamente l’aspetto visibile di un intero sistema composto, oltre che dal velivolo stesso, da una stazione di controllo al suolo ed un satellite. Al suolo sono presenti il pilota, un operatore ed un ingegnere di volo, che coordinano e gestiscono i dati inviati in tempo reale dal velivolo. Il satellite rappresenta invece l’elemento che permette ai sensori a bordo di inviare informazioni a terra ed alla postazione a terra di comandare il velivolo. Grazie a questa triangolazione, i dati rilevati dal radar e dal sensore ottico posto sotto il muso del Predator garantiscono di operare ognitempo garantendo efficacia e versatilità.

Entrato in servizio negli Stati Uniti già negli anni novanta, è attualmente utilizzato anche dall’Aeronautica Militare Italiana, che gestisce le operazioni dal 28 gruppo Velivoli Teleguidati di Martina Franca e dal 32 stormo con sede ad Amendola.  L’Italia è infatti la prima nazione europea a dotarsi di questi velivoli.

Contrariamente a quanto potrebbe a prima vista sembrare, il Predator non è destinato ai soli impieghi in teatri di guerra, ma può assolvere a diversi compiti in altrettanti scenari operativi. Numerose e differenti sono state, infatti, le occasioni che lo hanno visto operare: da Antica Babilonia in Iraq all’Afghanistan, al supporto fornito durante il G8 svoltosi a L’Aquila. Inoltre, è attualmente operativo con compiti di ricerca e soccorso nella missione Mare Nostrum. Il Predator, infatti, diventa fondamentale ausilio in missioni di ricognizione, sorveglianza ed acquisizione di obiettivi, compiti che sono alla base dello sviluppo del suo progetto. La sua versatilità inoltre ne rendo l’impiego molteplice, in quanto si rivela indispensabile nel riconoscere pericoli e gestire eventi di grande importanza e situazioni di rischio, quali ad esempio cataclismi naturali, contaminazioni biologiche o nucleari, ecc. Il suo utilizzo si apre ad un’ampia gamma di operazioni, anche e soprattutto nel campo della prevenzione e protezione civile, grazie a caratteristiche e capacità operative che ne garantiscono l’impiego ad alte quote pur mantenendo ottime prestazioni in termini di qualità d’immagini e video trasmessi.

L’innovazione bellica raccoglie come sempre critiche e consensi. Numerose sono state le contestazioni mosse contro lo sviluppo e l’utilizzo di questo tipo di tecnologia. Se ne è criticato infatti l’eccessivo costo, ponendo l’attenzione sulle enormi risorse finanziarie che questo tipo di programma comporta, oppure sull’effettivo utilizzo di queste macchine a volte (non è il caso italiano) utilizzate per perseguire scopi politici o militari al di fuori delle missioni ufficiali in cui esse devono essere impiegate.

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L’ISIL rispolvera l’antico mito del califfato. Come e perchè il ritorno ad un califfato può rianimare gli spiriti arabi nella regione.

Difesa/Medio oriente – Africa di

Sarà un caso che il movimento per lo Stato Islamico per l’Iraq e il Levante (ISIL) abbia ritrovato tra la sabbia il life motiv che ha per secoli moderato e diretto le politiche estere nel quadrante medio orientale?

In realtà il califfato (in arabo “vicariato”) ha per secoli regnato in varie forme nel Medio Oriente ed in Africa spingendosi fino in Spagna: rispettivamente i califfati di Baghdad, Il Cairo e Cordoba. Il termine stesso richiama alla memoria nostalgica i racconti del grande impero islamico e del sogno di riunire sotto un unico califfato appunto, tutte le genti di fede islamica. L’ISIL ha ormai messo in atto una politica di vera e propria riconquista dei territori tra Iraq e Siria e sicuramente, se l’obiettivo resta quello dichiarato, ci si può attendere un ulteriore inasprimento dei conflitti.

Le parole del segretario di stato americano Kerry che invita a considerare la minaccia come pericolo imminente per tutta la regione sono senz’altro da prendere in seria considerazione, data la capacità che certi richiami hanno di far rivivere un grande spirito unitario nel mondo arabo. Di certo occorrerebbe indagare quali possibili legami potrebbero esserci tra questo gruppo ed i vari governi interessati direttamente o indirettamente alla questione. Quale che sia il retroterra culturale del gruppo dell’ISIL, che ormai conta numerosi membri provenienti anche dall’esterno dei confini iracheni ed arruola nel percorso anche giovani e giovanissimi, non vi è dubbio che il collante che rende tale appello di grande portata e che stimola un forte senso di appartenenza sia quello del richiamo alla comune fede islamica. Richiamo che è in grado di rappresentare un fortissimo elemento coagulante non solo per i fedeli iracheni o siriani ma per i musulmani di tutta l’area.

Il mondo islamico, da sempre intrappolato all’interno di confini stretti e scomodi, spesso risultato di divisioni straniere ed appannaggio di governi dittatoriali non è mai stato percepito, come invece accade per le altre religioni, come un mondo all’interno del quale convivessero diverse realtà statuali accomunate dalla fede. E’ piuttosto un’unione di fedeli che non riconoscono, a differenza degli occidentali barriere o confini. Senza esagerare, possiamo affermare che la prospettiva di un nuovo califfato sarebbe in grado di raccogliere consensi da una larga parte del mondo musulmano, parte del quale sicuramente avrebbe da ridire però sulle modalità terroristiche di conduzione di tale processo da parte del gruppo.

Il carattere intimamente e dichiaratamente universale della religione islamica è da sempre al centro di un duplice e contrastante antagonismo: la sua tendenza universale (che nella storia ha conosciuto illuminati periodi di convivenza con tutti gli altri credi) si frappone ad un forte sentimento nostalgico il cui riferimento risiede in un passato glorioso di cui ci si augura il ritorno. Il contrasto tra una pressione potremmo dire fisiologica  verso l’esterno tipica di una religione che si è spinta fino in Europa ed uno sguardo sempre puntato al passato rendono la fede islamica, soprattutto se collocata in un mondo globalizzato, estremamente instabile in alcune sue derivazioni e soggetta spesso alle più diverse manipolazioni.

La creazione di un nuovo ordine che l’ISIL riconosce nel fondamentalismo islamico, sebbene sia in grado di attirare l’attenzione di tutto il mondo musulmano poichè richiama la resistenza all’oppressione occidentale e la riunione del popolo musulmano, sembra però essere meno pervasiva di quanto sembra. Gli episodi di massacri e violenze perpetrati durante le continue avanzate e ritirate dei miliziani non sono di certo una buona pubblicità per le finalità del gruppo. Esso non ha al momento appoggio interno né esterno in grado di legittimare a livello popolare le operazioni di guerriglia. Sta ingaggiando conflitti perfino in Siria, dove anche le forze ribelli approntano sbarramenti e si oppongono. Bisogna però augurarsi che le azioni dell’ISIL non fungano da esempio per i vari gruppi fondamentalisti che sono sparsi al di fuori della regione, dal Corno d’Africa all’area sahelo-sahariana.

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Francesco Danzi
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