GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Author

Paola Fratantoni - page 4

Paola Fratantoni has 46 articles published.

Digitalizzazione in crescita per l’UE

EUROPA/INNOVAZIONE di

Il 25 febbraio scorso la Commissione Europea ha pubblicato i risultati dell’edizione 2016 dell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI). Notizie incoraggianti, dati i progressi registrati nel complesso; tuttavia, siamo ancora distanti dal pieno sviluppo delle nostre potenzialità digitali.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

Di cosa si tratta?

Il DESI (Digital Economy and Society Index) è uno strumento online che permette di misurare i progressi compiuti dai paesi membri dell’Unione Europea nel campo della digitalizzazione economica e sociale. Più di 30 indicatori vengono utilizzati per definire il DESI e sono raggruppati in cinque distinte aree: connettività (25% del valore totale), capitale umano/abilità digitali (25%), utilizzo di internet (15%), integrazione della tecnologia digitale (20%), servizio pubblico digitale (15%). Questo indice serve, dunque, ad individuare quali sono i settori in cui il paese di riferimento necessita maggiori investimenti per poter migliorare le proprie performance.

L’indice non solo dipinge il quadro generale dell’UE, ancora lontana dai livelli di digitalizzazione di potenze come gli Stati Uniti o il Giappone, ma mette anche in risalto le differenze notevoli tra i paesi membri. Danimarca, Svezia e Finlandia occupano i primi posti non solo a livello europeo ma anche nelle classifiche mondiali. Fanalini di coda, invece, Repubblica Ceca, Bulgaria, Cipro, Francia, Grecia, Ungheria, Polonia e Slovacchia, che non solo hanno un DESI decisamente inferiore alla media UE, ma mostrano anche un ritmo di crescita lento, che porterà a distanziare maggiormente questi paesi dal resto dell’Europa. Il DESI, infatti, indica anche il ritmo di crescita delle nazione nel campo delle tecnologie digitali. Ed è proprio qui che si può notare, ancora una volta, un’Europa a più velocità.

Alcuni paesi presentano un indice DESI superiore alla media europea e registrano anche una crescita più veloce nell’arco dell’ultimo anno. Parliamo di Austria, Estonia, Malta, Portogallo, Germania e Paesi Bassi. Buoni i ritmi di crescita anche in Italia, Croazia, Lituania, Romania, Slovenia e Spagna, anche se l’indice DESI rimane attualmente sotto la media. Tuttavia, secondo gli analisti, vi sono buone le speranze per questi paesi di ridurre le distanze da quelli più digitalmente avanzati. In calo, invece, la crescita di Danimarca, Svezia, Finlandia, Irlanda, Belgio, Lituania e Irlanda, che mantengono, tuttavia, un indice elevato.

Cosa si può fare, dunque, per migliorare la situazione? Lo scorso anno l’UE ha approvato la strategia per il mercato unico digitale, una serie di azioni che i paesi dovranno portare a termine entro la fine del 2016 volte a coordinare e standardizzare il processo di digitalizzazione nei vari paesi. Tale strategia verte su tre pilastri: migliorare l’accesso ai beni e ai servizi digitali per consumatori e imprese in tutta Europa; creare un contesto favorevole e pari opportunità per lo sviluppo delle reti digitali; massimizzare il potenziale di crescita nel settore.

Nei fatti, sembra che la strategia attuata stia dando i suoi frutti. Il 71% delle famiglie europee ha ora accesso alla banda larga ad alta velocità (nel 2014 solo il 62%) e sono in aumento anche il numero degli abbonati alla banda larga mobile con 75 contratti registrati per ogni 100 abitanti (a fronte dei 64 dell’anno precedente). È vero, tuttavia, che c’è ancora molto da lavorare, soprattutto in alcuni settori. Come emerge dal rapporto DISE, ad esempio, quasi il 45% degli europei non possiede competenze digitali di base, come l’uso della posta elettronica o degli strumenti di editing principali. L’e-commerce è una realtà ancora lontana per le piccole medie imprese: soltanto il 16% vende i propri prodotti online e solo il 7,5% anche oltre la frontiera. Non è sufficiente promuovere l’acquisto online: bisogna, altresì, stimolare maggiormente il commercio elettronico, approvando in sede europea una legislazione che protegga adeguatamente i consumatori, specialmente negli acquisti transfrontalieri. Non del tutto soddisfacenti, infine, i dati relativi ai sevizi pubblici: a fronte di una maggior varietà di servizi resi disponibili online dalle Pubbliche Amministrazioni, pare che soltanto il 32% degli utenti usufruisca di queste piattaforme.

Da un lato, dunque, è importante che l’UE fornisca una legislazione coerente ed efficace, che tuteli sia i cittadini che le imprese; dal canto loro, gli stati membri devono sostenere la creazione del mercato unico digitale, investendo in quei settori maggiormente arretrati e promuovendo la digitalizzazione tra la società civile. Realizzare quest’obiettivo permette non solo di rilanciare l’economia europea in generale e di dare nuova competitività al nostro mercato, ma consente anche ai singoli membri di sfruttare al meglio il potenziale inespresso, creando nuove opportunità (soprattutto transfrontaliere) per le imprese ma anche per i singoli.

 

Paola Fratantoni

[/level-european-affairs]

Growing digitisation in the EU

Innovation di

 

On 25th February, the European Commission published the result of the 2016 Edition of the Digital Economy and Society Index (DESI). Good news. Data show a general growth; however, we are still far away from the full development of our digital capabilities.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

What is the DESI?

The DESI is an online tool to measure the progress of EU Member States towards a digital economy and society. More than 30 indicators define the DESI and are grouped into five policy areas: connectivity (25 % of the total score), human capital/digital skills (25 %), Internet use (15 %), integration of digital technology (20 %) and digital public service (15 %). Indeed, this index is used to identify which sectors needs more investment in order to improve the country’s performance.

The index not only shows the general status of the European Union -still far from the level of digitalization of countries such as the US or Japan-, but also points out the considerable differences among Member States. Denmark, Sweden and Finland take the lead in Europe but they are also top countries in world rankings. At the very bottom are Czech Republic, Bulgaria, Cyprus, France, Greece, Hungary, Poland and Slovakia: not only their DESI score is well below the EU average, but data show also a slower growth rate, which will increase the distance from the rest of EU members. The DESI, indeed, also shows the growth rate of the nation in the field of digital technologies. And here, once again, we can see a multi-speed Europe.

Some countries have a DESI score higher than the EU average, but also record a faster growth in the last year. We are talking about Austria, Estonia, Malta, Portugal, Germany and the Netherlands. Good growth rates also in Italy, Croatia, Lithuania, Romania, Slovenia and Spain, although their DESI score currently remains below average. However, according to analysts, there are good hopes for these countries to reduce the distances from the most digitally advanced countries. By contrast, a drop has been recorded in the growth of Denmark, Sweden, Finland, Ireland, Belgium, Lithuania and Ireland, though they DESI scores are still high.

What should we do to improve the situation? Last year, the EU approved the Digital Single Market strategy, a set of initiatives that countries have to deliver by the end of 2016 in order to coordinate and standardize digitization processes in EU countries. This strategy is built on three pillars: improving access to goods and digital services for consumers and industries across Europe; create a favorable environment and equal opportunities for the development of digital networks; maximise the growth potential in the sector.

Apparently, the implemented strategy is paying off. 71% of European households now have broadband access at high speed (in 2014 only 62%), while the number of subscribers to mobile broadband has increased up to 75 contracts every 100 inhabitants (compared to 64 last year). It is true, however, that there is still a lot of work to do, especially in some sectors. As the DISE report points out, for example, almost 45% of Europeans do not have basic digital skills, e.g. the use of email or the main editing tools. The e-commerce is still far from being a reality for small and medium enterprises: only 16% of them sell their products online and only 7.5% across the border. Promoting online shopping is not enough: it is essential to encourage electronic commerce, by approving a better legislation to protect consumers, especially in cross-border shopping. Finally, the data on public services are not satisfactory at all. Despite a greater variety of services made available online by Public Administrations, it seems that only 32% of users actually use these platforms.

On one hand, therefore, it is important that the EU provides a coherent and effective legislation that protects both citizens and entrepreneurs; on the other, Member States must support the creation of the digital single market, investing in the most underdeveloped sectors and promoting the digitalization of civil society. Achieving this goal will revitalize the European economy in general and make our market more competitive, but it will also allow EU members to make the most of the untapped potential, creating new opportunities (especially across the border) for enterprises, but also for individuals.

 

Paola Fratantoni

[/level-european-affairs]

Iran: corsa alle urne nel paese degli Ayatollah

26 febbraio 2016. Data storica per l’Iran che per la prima volta dopo la fine delle sanzioni internazionali chiama i suoi cittadini alle urne per una doppia votazione, Parlamento e Assemblea degli Esperti. Il voto è un test per la popolarità del Presidente Hassan Rouhani, dal 2013 impegnato in riforme politiche e sociali di apertura verso l’Occidente. L’esito del voto, infatti, serve a capire quanto la linea riformista del presidente si sia radicata nella società e quali possano essere i futuri sviluppi per la Repubblica.

La prima votazione riguarda il Parlamento nazionale, Majlis, composto da 290 seggi, di cui soltanto 5 destinanti ad esponenti delle minoranze religiose non musulmane. Il Parlamento è l’organo legislativo del paese, cui spetta il compito di approvare le leggi, il budget annuale e i trattati internazionali. Fino ad oggi, la maggioranza, conservatrice e fondamentalista, è stata in netto contrasto con le politiche avanzate da Rouhani. È chiaro come un nuovo assetto possa influenzare le future azioni del paese, nonché la sua posizione nei giochi internazionali. “Avete creato una nuova atmosfera con il vostro voto” ha twittato il presidente dopo l’esito delle votazioni.

L’Assemblea degli esperti, invece, è composta da 88 membri, esclusivamente accademici islamici, in carica per otto anni. È di fatto l’organo più significativo in quanto elegge la Guida Suprema del paese, la figura politica e religiosa con maggior potere. Considerando le cattive condizioni di salute dell’attuale leader, l’Ayatollah Ali Khamenei, è altamente probabile che sarà la neo-eletta Assemblea a scegliere il suo successore.

Non si tratta, dunque, solo di una nomina di consiglieri, ma di una scelta tra due linee politiche opposte. La prima fa capo all’attuale presidente Rouhani ed è caratterizzata da un’apertura, soprattutto economica, verso l’Occidente ed un tentativo di promuovere un’immagine positiva del paese fondamendalista. Dall’altro lato, invece, troviamo la Guida Suprema Khamenei, conservatore ed apertamente anti-occidentale, portavoce di una politica che mira a perseguire un’economia di resistenza ed un sistema politico basato sul potere delle Guardie Rivoluzionarie.

Il risultato delle elezioni, cui ha partecipato il 60% dell’elettorato (circa 33 milioni di persone) potrebbe avere risvolti significativi per il futuro della Repubblica Islamica. La vittoria è andata ai riformisti, con 96 seggi vinti in Parlamento, contro i 91 dei fondamentalisti e i 25 degli indipendenti. Bisogna, tuttavia, sottolineare due aspetti: in primis, il concetto di “riformisti” va letto alla luce dei parametri iraniani. Il riformismo di cui si parla è lungi da essere il nostro riformismo. Si tratta sempre di fondamentalismo, seppur mascherato da una forma di apertura verso le democrazie occidentali. Basti pensare che i veri riformisti sono stati esclusi dalla lista dei candidati eleggibili sia nell’Assemblea che al Parlamento.

Secondo punto da non tralasciare riguarda la base elettorale dei voti. I riformisti hanno guadagnato terreno nelle aree metropolitane, mentre i fondamentalisti si sono affermati maggiormente nelle zone rurali, dove vive un terzo della popolazione. Tuttavia, le otto città principali, dove risiedono circa metà degli iraniani, hanno ottenuto soltanto 57 dei 290 seggi in Parlamento. Tenendo conto che 52 seggi verranno assegnati tramite ballottaggio a fine aprile, sembra che i giochi siano ancora aperti.

Cosa aspettarsi dunque?

Maggiore apertura probabilmente sì ma non significa, come alcuni pensano (o sperano), che l’Iran assumerà le sembianze di una democrazia occidentale. È probabile, nonché auspicabile, una distensione nei rapporti con il mondo occidentale. Rimane fermo il fatto che l’Iran è regime fondamentalista basato sulla Shri’a, dove ad oggi non è data voce alle correnti più riformiste, fautrici di cambiamenti significativi in senso opposto al sistema politico, economico e sociale vigente. Riformismo non è sinonimo di democrazia.

Inoltre, è difficile pensare che i fondamentalisti si arrendano facilmente a questi risultati. Come le percentuali mostrano, le loro idee sono prevalentemente radicate nella società rurale, che può influire considerevolmente sulla composizione finale del Parlamento. Non solo. Se Teheran ha festeggiato i risultati elettorali, diversa la reazione a Qom, il cuore sciita della Repubblica Islamica. “Le persone del vero Iran abitano qui, noi rispettiamo e seguiamo il sentiero dell’Ayatollah Khomeini e dobbiamo proteggere i nostri valori” afferma irremovibile un impiegato 23enne.

Gli interrogativi sul futuro del paese, dunque, rimangono. Nonostante la vittoria dei riformisti, forti correnti fondamentaliste permangano non soltanto tra l’élite politica ma anche tra la popolazione. Inevitabilmente, un cambiamento ci sarà ma è bene mantenere i piedi per terra. Resta da vedere, infatti, se ed in che termini la via del riformismo plasmerà un Iran effettivamente più vicino al mondo occidentale, o se il fondamentalismo hard-line troverà il modo di recuperare il terreno perso, frenando quel processo di apertura avviato negli ultimi anni da Rouhani.

Iran: the country of Ayatollahs at the polls

26 February 2016. An historical date for Iran that, for the first time after the end of the international sanctions, calls its citizens to the polls for a double vote, Parliament and Assembly of Experts. This vote is also a test for President Hassan Rouhani, who, since 2013, has been promoting political and social reforms, characterised by openness towards the West. The outcome of these elections, indeed, will show both to what extend the reformist line of the President is rooted in the society and which could be the future developments for the Republic.

The first vote will be cast for the Parliament, Majlis, consisting of 290 seats, 5 of them allocated to non-Muslim religious minorities. The Parliament is the legislative body, responsible for passing legislation, approving the annual budget and signing international treaties. To date, its majority, conservative and fundamentalist, has sharply contrasted Rouhani’s policies. It is clear how a different arrangement may influence the country’s future actions, as well as its posture in the international arena. “You have created a new atmosphere with your vote” tweeted president Rouhani after the elections.

The Assembly of Experts, instead, is composed of 88 members, exclusively Islamic scholars, serving eight-year terms. In fact, it is the most important body in the country, as it elects the Supreme Leader, the most powerful political and religious position. Considering the poor health condition for the current Supreme Leader, Ayatollah Ali Khamenei, it is very likely that the newly elected Assembly will select his successor.

Therefore, it is not just a nomination of candidates: it is a choice between two opposite political paths. The first is headed by president Rouhani and characterised by openness –especially economic openness- towards the West and by an attempt to promote a positive image of the country in the world. On the other hand, Ayatollah Khamenei, conservative and openly against the West, is the spokesman of a policy that aims to pursue a resistance economy and a political system based on the power of the Revolutionary Guards.

The results of the elections, which was attended by nearly 60% of the electorate (about 33 million Iranians), could have relevant consequences for the future of the Islamic Republic. Reformists won, controlling 96 seats in Parliament, while fundamentalists and independents won respectively 91 and 25 seats. However, two aspects should be pointed out. First, the concept of “reformism” should be seen through the lens of Iranian culture. Their reformism is far away from our reformism. It’s always about fundamentalism, though hidden behind a curtain of openness towards the West. Suffice to say that the real reformists have been disqualified from the list of eligible candidates in both the Parliament and the Assembly.

Secondly, we should consider the electoral base. Reformists have gained ground in metropolitan areas, while fundamentalists obtained more consensus in rural districts, home for one third of the population. However, the eight major cities, where almost half of the Iranians lives, won only 57 of 290 seats in Parliament. Given that 52 of these seats will be allocated in a runoff in late April, it seems that games are still open.

So what next?

Perhaps greater openness, yes, but it doesn’t mean, as some people think (or hope), that Iran will turn into a Western democracy. It is likely, and desirable, a détente in the relations between Iran and the West. However, we should bear in mind that Iran is still a fundamentalist regime, based on Shari’a, which, to date, refuses to give voice to the real reformists, who advocate a significant change in the political, economic and social system. Reformism, indeed, does not mean democracy.

Moreover, it is hard to believe that fundamentalists will easily give up. As percentages show, their ideas are mainly rooted in the rural society, which can still significantly affected the final composition of the Parliament. More than this. If Teheran celebrated the outcome of the elections, the reaction in Qom, Iran’s Shiite heartland, was different. “People in the real Iran are the ones here, we respect and follow the path laid down by Ayatollah Khomeini and we must protect our values”, said a 23-year-old clerical worker.

Questions remain about the future of the country. Despite the victory of reformists, fundamentalist strands are still eradicated in both the political élite and the society. Inevitably, there will be a change: however, we should keep our feet on the ground. It remains to be seen, indeed, whether the path of reformism will actually shape an Iran closer to Western democracies, or whether the hard-line fundamentalism will find a way to regain the support lost, thus hampering the openness towards the West promoted by Rouhani in recent years.

Posticipato contratto Eurofighter Italia-Kuwait

Difesa/Medio oriente – Africa di

 

Era prevista per il 31 gennaio la firma dell’accordo tra Italia e Kuwait per la fornitura di 28 Eurofighter al paese arabo. Secondo fonti interne del Ministero della Difesa, il Kuwait avrebbe rimandato la conclusione dell’accordo a causa di “ritardi procedurali”. Nessuna indiscrezione circa la data del nuovo incontro.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

Il contratto segue un memorandum of understanding siglato dal ministro della Difesa italiano Roberta Pinotti e il corrispettivo kuwaitiano Khaled al-Jarrah al-Sabah nel settembre 2015. In base al documento, il Kuwait si impegna all’acquisto di 28 Eurofighter Typhoon (22 modelli monoposto e 6 biposto) per un valore complessivo di circa 8 miliardi di euro. Arco temporale previsto 20 anni.

Il consorzio Eurofighter nasce dal lavoro delle industrie aerospaziali di quattro paesi europei: Germania e Spagna (Airbus), Gran Bretagna (BAE System) e Italia (Finmeccanica). Ma è proprio l’industria italiana ad assicurarsi il contratto con il Kuwait. Circa il 50% della commessa sarà, infatti, appannaggio di Finmeccanica, che si occuperà non solo di progettare, sviluppare e produrre il velivolo (Alenia Aermacchi), ma ne curerà anche l’avionica e l’elettronica di bordo, tramite la Selex ES.

L’accordo siglato con Finmeccanica conclude una negoziazione iniziata nel 2010, in seguito alla decisione del Kuwait di rimodernare la flotta di F-18 Hornet in dotazione alle proprie forze aeree. Inizialmente, la scelta era ricaduta sui nuovi F-18 Super Hornet di produzione statunitense; tuttavia, continui ritardi da parte degli USA nell’approvazione dell’acquisizione avevano indotto l’emirato ad optare per il programma Eurofighter. Scelta che, molto probabilmente, nasconde anche considerazioni di natura strategico-militare.

L’F-18 è un caccia da combattimento multiruolo, supersonico e bimotore, capace di trasportare bombe per combattimenti aria-aria e aria-terra. Nonostante venga impiegato per molteplici utilizzi (ricognizione aerea, supporto aereo ravvicinato, interdizione e scorta), l’F-18 si caratterizza principalmente come cacciabombardiere ed è stato introdotto nelle capacità del Kuwait dopo la guerra del Golfo.

L’Eurofighter, seppur presenti alcuni caratteri simili all’F-18 (multiruolo e bimotore), si afferma primariamente come caccia intercettore e da superiorità aerea. Più veloce e maneggevole, il velivolo è dotato di radar a scansione elettronica e avanzati sensori di navigazione, scoperta e attacco. Armamenti tecnologicamente avanzati, pensati prevalentemente per i combattimenti aria-aria, completano il profilo dell’aviogetto, che ha già dimostrato il proprio valore in diversi teatri operativi, come la Libia o i paesi baltici.

La scelta del governo kuwaitiano di puntare sugli Eurofighter sembra rispecchiare una strategia nazionale volta a rafforzare le capacità difensive delle forze armate piuttosto che puntare sugli armamenti offensivi. 28 caccia da superiorità aerea garantirebbero una maggiore sicurezza nei cieli kuwaitiani, data la capacità di intercettare velivoli nemici o illegalmente presenti nello spazio aereo del paese. Velocità e manovrabilità elevate rendono gli Eurofighter i candidati ideali per intervenire in caso di minacce imminenti provenienti dai paesi limitrofi. Considerando la posizione geografica del Kuwait e il livello di insicurezza che caratterizza il Medio Oriente oggi, la scelta di Kuwait City non sembra così inopportuna.

La fretta del governo kuwaitiano nel voler raggiungere un accordo con gli USA prima, con l’Italia poi, fa trapelare un senso di incertezza e la necessità di voler potenziare i propri armamenti nell’ottica di un peggioramento del contesto regionale. Dopo i rinvii degli ultimi mesi legati alle disposizioni circa l’addestramento dei piloti (il Kuwait ha accettato di formare i piloti in Italia e non in Inghilterra, come inizialmente richiesto), l’ultimo ostacolo da superare è l’approvazione della corte dei conti del Kuwait, che pare non abbia avuto sufficiente tempo per esaminare nel dettaglio i termini finali dell’accordo (Best and Final Offer, BAFO). Come ha sottolineato il ministro Pinotti, in un incontro tenutosi mercoledì scorso a Roma il ministro della Difesa del Kuwait ha ribadito la volontà di firmare l’accordo con l’Italia nel più breve tempo possibile.

Da canto suo, il Belpaese ha tutti motivi per tenersi stretto un simile impegno. In primo luogo, una commessa con un paese mediorientale della durata di 20 anni permette all’Italia di consolidare la propria presenza in un’area strategica e ricca di opportunità commerciali. Secondo, il contratto dona a Finmeccanica uno slancio economico non indifferente. Come sottolinea il generale Tricarico, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, “la ​commessa è importante soprattutto perché consente di mantenere attive linee di produzione che invece nel tempo sarebbero andate in dismissione, consentendo di mantenere inalterati posti di lavoro e capacità di know how”. Infine, il ruolo guida giocato dall’Italia in questa sede può permettere al nostro paese da un lato di riguadagnare peso nel consorzio Eurofighter, dall’altro di sfruttare una ritrovata fiducia nelle proprie capacità per rivedere la propria posizione nei giochi internazionali.

 

Paola Fratantoni

[/level-european-affairs]

 

 

 

Kuwait delays the Eurofighter deal

Innovation di

 

A contract for 28 Eurofighter aircraft was to sign on 31st January between Italy and Kuwait. As an Italian Ministry of Defence source referred, the signature was delayed for “procedural reasons”. No leak about next meeting.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

The contract follows a memorandum of understanding signed between the Italian Minister of Defence Roberta Pinotti and the Kuwaiti colleague Khaled al-Jarrah al-Sabah in September 2015. According to the document, Kuwait has ordered 28 Eurofighter Typhoon (22 single-seat and 6 twin-seat) for a total value of 8.7 billion dollars. Announced deadline in 20 years.

The Eurofighter Consortium is driven by aerospace and defence industries of four European countries: Germany and Spain (Airbus), United Kingdom (BAE System) and Italy (Finmeccanica). But it’s the Italian company to grab the contract with Kuwait. Over 50% of the value of the deal will be earned by Finmeccanica, which will provide the design, development and production of the aircraft (Alenia Aermacchi) but also the on-board electronic systems (Selex ES).

The deal signed with Finmeccanica ends a negotiation begun in 2010, after Kuwait decision to replace the existing fleet of F-18 Hornet held by its air force. Initially, the choice fell on a new fleet of F-18 Super Hornet produced by the United States. However, repeated delays in the acquisition induced the emirate to opt for the Eurofighter programme. It is likely this choice also hides military and strategic considerations.

The F-18 is a swing-role, twin-engine and supersonic fighter, able to carry air-to-air and air-to-land weaponry. Though employed for several tasks (aerial recognition, close air support, interdiction and fighter escort), the F-18 is mainly a fighter-bomber and was introduced in Kuwaiti armed forces after the Gulf War.

Despite sharing similar features with the F-18 (both are twin-engine and multi-role aircraft), the Eurofighter Typhoon is primarily an air interdiction and air superiority fighter. Faster and more manoeuvrable, the aircraft is provided with electronically scanned array radar and advanced navigation, discovery and attack sensors. Technologically advanced munitions, mainly designed for air-to-air combat, complete the technical specifications of the aircraft, which has already shown its value in different operational theatres, such as Libya or the Baltic States.

Al-Shabab’s choice to rely on Eurofighter seems to reflect a national strategy aimed to strengthening the defensive military capabilities rather than the offensive ones. Twenty-eight air-superiority fighter jets will ensure greater safety in Kuwaiti skies, given their ability to intercept enemy aircraft or planes illegally entering Kuwait’s air space. Indeed, high speed and manoeuvrability make the Eurofighter the ideal candidate to intervene, should an imminent threat from neighbouring countries arise. Considering Kuwait geographical position and the level of insecurity that characterises the Middle East, Kuwaiti decision does not sound that inappropriate.

Kuwait’s urgency in reaching a deal first with the US, then with Italy, shows a feeling of uncertainty and the necessity to strengthen its military assets, in the view of a deterioration in the regional environment. After latest delays due to caveats about pilots’ training (Kuwait has agreed to train its pilots in Italy and not in the UK as initially requested), last obstacle is the approval from the Audit Court of Kuwait, which –apparently- didn’t have enough time to evaluate the final terms of the deal (Best and Final Offer, BAFO). As Minister Pinotti highlighted, during Wednesday meeting in Rome the Kuwaiti Minister of Defence has reiterated the willingness to sign the deal as soon as possible.

On its side, Italy has all the reasons to hold on such a commitment. First, a 20-year contract with a Middle Eastern country gives Italy the chance to reinforce its presence in a key strategic area, rich of commercial opportunities. Secondly, the contract gives Finmeccanica a significant economic momentum. As gen. Tricarico, former Chief of the Italian Air Force, states, “the contract is particularly important because it allows maintaining production lines -which would have fallen into disuse over years-, thus allowing also keeping jobs and know-how skills”. Finally, Italy’s leading role in the deal will have a two-fold benefit on our country: on one hand, it will allow Italy to gain weight within the Eurofighter consortium; on the other, a renewed confidence in its capabilities could lead Italy to rethink its position in the international affairs.

 

Paola Fratantoni

[/level-european-affairs]

Rohani a Roma: a rischio i rapporti con Israele?

Medio oriente – Africa/POLITICA di

 

Inizia dall’Italia il primo tour in Europa del presidente iraniano Hassan Rohani all’indomani della fine delle sanzioni internazionali sul paese. Un segno di apertura verso il mondo occidentale e di come l’Iran voglia recuperare e rafforzare i rapporti con i partner europei, in primis, appunto, l’Italia.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

Il viaggio del leader iraniano a Roma assume una triplice valenza. Dal punto di vista politico, la visita di Rohani arriva in un momento significativo per il paese e per il Medio Oriente. La fine delle sanzioni internazionali e l’accordo sul nucleare rilanciano, infatti, i rapporti della Repubblica Islamica con il resto del mondo, ponendo fine al decennale isolamento politico. Opportunità per Teheran, quindi, di contribuire anche ad una soluzione politica delle varie problematiche regionali.

Secondo, l’aspetto religioso. L’incontro tra un leader musulmano sciita e il più alto rappresentate della Chiesa Cattolica, Papa Francesco, rappresenta un evento importante in un periodo in cui le tensioni settarie e la costante minaccia del terrorismo islamico rendono difficili i rapporti tra Chiese diverse. Nella Roma cattolica, Rohani si fa promotore del volto buono dell’Islam. Lo stesso Vaticano sottolinea i valori spirituali comuni e l’importanza dell’Iran per la pace in Medio Oriente.

Voce finale nell’agenda di Rohani è l’economia. Sette gli accordi istituzionali firmati, tra cui l’intesa tra il Mise e il Ministero dell’Industria iraniano. A livello industriale, contratti siglati nel settore energetico, minerario, delle costruzioni, della cantieristica navale e dei trasporti, per un ammontare di circa 17 miliardi.

Seppure non esente da polemiche e critiche (come quella legata alla copertura delle statue di nudo nel Museo Capitolino), la visita di Rohani segna un riavvicinamento notevole tra la Repubblica Islamica e l’Italia. Un’Italia che, pur aderendo alle sanzioni internazionali, ha mantenuto buone relazioni con il paese arabo, basate –oggi come in passato-sul mutuo vantaggio.

Politicamente, rinvigorire i legami con un paese europeo significa, per l’Iran, recuperare l’isolamento degli anni passati e proiettare nuovamente la nazione nel contesto europeo ed internazionale. Veder riconosciuta la capillarità del proprio ruolo per ripristinare la stabilità in Medio Oriente ridona legittimità a un paese che per decenni è stato visto come minaccia per la sicurezza regionale e globale. Dall’altro lato, l’Italia acquisisce un alleato indispensabile per la lotta al terrorismo internazionale e, facendosi mediatore del reinserimento dell’Iran nei maggiori fora mondiali, può guadagnare in termini di importanza diplomatica.

Dal punto di vista economico, la fine delle sanzioni verso l’Iran non è soltanto ossigeno per il paese, ma apre la porta a nuovi investimenti per l’Italia. L’Iran, infatti, possiede una popolazione giovane, che guarda di buon occhio il mercato occidentale, in particolar modo quello del lusso, della moda e dell’auto. L’Iran può essere, dunque, un partner importante per rilanciare il Made in Italy.

Ma quale sarà la reazione dello storico nemico della Repubblica Islamica, Israele? Quali le ripercussioni nei rapporti tra lo Stivale e il paese ebraico?

L’Italia vanta storicamente buone relazioni con Israele, basate su una cooperazione in campo politico, economico, scientifico, culturale e militare. Promotore negli anni del processo di pace in Medio Oriente e della creazione dello Stato della Palestina, il governo italiano ha sempre lavorato nell’ottica di ostacolare la diffusione dell’antisemitismo nella regione e favorire il dialogo tra Israele e i vicini stati arabi. La fine delle sanzioni e l’accordo sul nucleare (relativamente al quale Israele ha apertamente manifestato il proprio dissenso), hanno messo in allarme il governo Netanyahu circa una possibile rinascita iraniana. Vedere uno stato tradizionalmente amico, come l’Italia, rafforzare i legami con la Repubblica Islamica potrebbe effettivamente creare attriti tra Roma e Gerusalemme.

L’anello chiave di questo equilibrio può essere l’elemento militare. Gli accordi stretti tra Roma e Teheran non contemplano il settore militare, né in termini di rifornimento di capacità belliche né di addestramento e know-how. Un simile low-profile è presumibilmente accettabile per Israele per due motivi. Da un lato, non tocca la capacità militare iraniana; dall’altro, l’effettiva apertura verso l’Iran è un segnale positivo anche per i suoi alleati (ad es. Russia). Al contrario, posizioni chiuse da parte dei paesi occidentali potrebbero irrigidire anche i rapporti tra l’Occidente e le potenze amiche di Teheran, compromettendo gli sforzi in atto per fronteggiare altre minacce comuni, come l’Islamic State.

È difficile, dunque, pensare che l’Italia possa optare per un’opzione aut-aut, che vada cioè ad escludere i rapporti con uno dei due paesi a favore esclusivamente dell’altro. Nell’incontro con il presidente iraniano, il premier Matteo Renzi ha tenuto a precisare l’importanza dei rapporti con Israele ed il diritto/dovere di quest’ultimo di esistere come Stato. Considerando gli interessi in gioco e le tradizioni politiche italiane, è più probabile, dunque, che il governo scelga di mantenere una posizione equidistante: un calcolo strategico che garantisce i vantaggi del commercio con l’Iran senza però irritare Israele.

 

Paola Fratantoni

[/level-european-affairs]

Rouhani in Rome: Italian-Israeli relations at risk?

Politics di

 

The Iranian President Hassan Rouhani begins his tour in Europe from Italy. It is the first time after the lifting of the international sanctions against Iran. A sign of openness towards the West, it also shows Iran’s willingness to restore and strengthen its relationship with European countries, such as Italy.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

The Iranian leader’s trip to Italy has a triple meaning. From a political perspective, Rouhani’s visit comes at a significant moment both for Iran and for the Middle East. Indeed, the lifting of the international sanctions and the nuclear deal boost Iran relationship with the rest of the world, thus ending decades of political isolation. This gives also Teheran a chance to contribute to solving ME security problems.

Secondly, the religious dimension. The meeting between a Shiite Muslim leader and the highest representative of the Catholic Church, Pope Francis, is an important event in a time when the sectarian tensions and the increasing threat of Islamic terrorism make it difficult the coexistence between different faiths. In the Catholic Rome, Rouhani portraits the good side of Islam and the Vatican itself talks about “common spiritual values” and the importance of Iran for peace in the Middle East.

Final point on Rouhani’s agenda is economy. Seven institutional agreements have been signed, including an understanding between Mise and the Iranian Ministry of Industries and Mines. New business deals cover also energy and mining, constructions, shipbuilding and transport industries, reaching an amount of about 17 billion.

Despite criticism and controversies (as the one related to the covering up of naked statues in Capitoline Museum), Rouhani’s visit marks a relevant rapprochement between the Islamic Republic and Italy. An Italy that, while adhering to international sanctions, has maintained good relations with the Arab country, based -today as in the past- on mutual benefit.

Politically, strengthening ties with a European country means, for Iran, to be freed from the isolation of the past years and to project again the nation in the European and international environment. To be acknowledged a capillary role in restoring stability in the Middle East gives back legitimacy to a country that has been seen for decades as a threat to regional and global security. On the other hand, Italy acquires a vital ally in the fight against international terrorism and, by mediating the reintegration of Iran in world major fora, it can gain in terms of diplomatic influence.

Economically speaking, the lifting of the sanctions not only comes as a breath of fresh air for Iran, but it also paves the way for new investments in Italy. Iran has a young population, attracted by Western markets, especially those of luxury, car and fashion. Therefore, Iran can be an important partner to relaunch the “Made in Italy”.

However, what will be the reaction of the historic enemy of the Islamic Republic, Israel? Which repercussions could there be in the relationship between Italy and the Jewish country?

Historically, Italy has had good relations with Israel, based on cooperation in the political, economic, scientific, cultural and military areas. A promoter of the peace process in ME and of the creation of the State of Palestine, the Italian government has always worked in order to hinder the spread of anti-Semitism in the region and to facilitate the dialogue between Israel and the neighboring Arab states. The end of sanctions and the nuclear deal (with respect to which Israel has openly expressed his disagreement) have alarmed Netanyahu government about a possible resurgence of Iran. Seeing a traditionally friend state –as Italy- that strengthens its ties with the Islamic Republic, could actually create friction between Rome and Jerusalem.

The key factor in this balance may be the military element. The agreements signed between Rome and Tehran do not include the military sector, neither in terms of military capabilities nor of training. A similar low profile is presumably acceptable to Israel for a twofold reason. On the one hand, it does not affect Iranian military capacity; on the other, the actual opening to Iran is a positive sign for its allies (e.g. Russia). By contrast, a closing attitude towards Iran might stiffen the relationships between the West and Iran’s friends, thus undermining efforts to tackle other common threats, such as the Islamic State.

Hence, it is hard to believe that Italy could opt for an either-or option, which will exclude relations with one of the two countries in favor of the other. In his meeting with the Iranian president, Prime Minister Matteo Renzi has pointed out the importance of relations with Israel and the right/duty of the latter to exist as a State. Considering the interests at stake and Italian political traditions, it is more likely, therefore, that the government will opt for maintaining a balanced position: a strategic choice that ensures the benefits of trade with Iran without irritating Israel.

 

Paola Fratantoni

[/level-european-affairs]

Iran-Saudi Arabia: the most dangerous fight

Politics di

 

The contrast between Iran and Saudi Arabia, which has been a sort of Cold War for years, is likely to turn into a “hot” conflict. The rivalry between the two Middle East big powers is everything but new. However, latest events –the execution of Shia cleric Nimr al-Nimr, the continuous drop in oil price and the end of international sanctions against Iran- have added fuel to the fire, thus causing concern about the regional and global stability.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]

The reasons behind tensions

The religious factor. Saudi Arabia, almost entirely Muslim, has a Sunni-majority population (the real family professes the Wahhabi ideology, a minor stream of Sunni Islam). Shiites, around 15% of the population, are concentrated in the eastern province of Al-Sharqiyah. They push for autonomy and the monarchy accuses Iran to foster their aspiration. By contrast, the Islamic Republic represents Shia Muslims, who are more than 90% of Iranian population. Self-proclaimed as protectors respectively of Sunni and Shia communities, SA and Iran stand for opposite tradition and interests, which result in a real sectarian conflict.

The black gold. SA is one of the biggest producer of crude oil and in 2014 the country has significantly increased its production, resulting in a price collapse which was aimed to target not only Iranian market and Moscow’s revenue, but also to make it economically inconvenient for the USA the extraction of shale oil. However, Riyadh’s plans haven’t gone perfectly, with US and Russia still playing a leading role in the energy market. A considerable setback for Saudi Arabia, at a time when the lifting of international sanctions against Iran pushes one of SA biggest competitor back in the game.

The regional hegemony. SA has a significant geopolitical weight, due both to its strong participation in regional and global affairs, but also to its relationship with the Gulf countries and the US. This position has often turned into an attempt to impose its political and religious leadership in the region. This fact not only raises friction within the Gulf Cooperation Council (GCC) –for example with Qatar- but also makes it almost impossible a peaceful coexistence with Iran. On the other hand, in fact, the Islamic Republic, after decades of international isolation, aims to establish its supremacy in the Middle East, where SA, along with Israel-a Jewish country, friend to the US- curbs its ambition.

What future?

It is hard to believe that some form of cooperation between Iran and SA is possible, especially after the killing of the Shia leader Nimr al-Nimr, who encouraged Saudi Shiites to take side against the government and along with Iran. The execution of the leader is a clear message to the population, while the following break of diplomatic relations is a clear political signal. The consequences are not late to come: the UAE, Kuwait, Sudan, Qatar and Bahrain have already ceased the relations with the Islamic Republic.

Similarly, an open conflict is unlikely to happen. With a budget deficit of about $100 billion, it would be illogical for the Saudi monarchy to undertake an armed conflict. Iran has just been freed from those sanctions that have hampered country’s development, while it’s showing openness towards the US. Declaring war to SA could play against its own interest, inevitably involving other powers-USA, Russia, Israel- and adding new instability to the already volatile game of power in the region.

This condition of “cold war” is the most likely scenario, with peaks of tension between the Iranian and Saudi capitals, and “hot” clashes confined to peripheral theatres like Yemen, Syria and Bahrain, where Tehran and Riyadh support respectively Shia and Sunni groups.

Unfortunately, another actor plays a key role in this context: the Islamic State. ISIS is spreading among Sunni community, thus worrying Riyadh, which is trying to preserve its influence among Sunni population. On the other hand, Iran is fighting ISIS forces but only to a certain extent. Indeed, Iran could benefit from a conflict between ISIS and SA, as this could gradually weakens both the actors, thus leaving Iran free to confirm itself as regional leader. However, the serious risk is that this game gets out of control, considering the support that ISIS is still finding locally and globally.

It seems that the instability in Middle East is doomed to persist. Moreover, these tensions might break out in a series of conflicts at several levels, involving several actors and following multiple and different political agendas. Will there be a second Iraq, with a vacuum of power and foreign powers ready to step in or it will be one of the regional rival to take the lead? Or will the most feared actor win and the entire Middle East fall under the brutal force of jihadist terrorism?

 

Paola Fratantoni

[/level-european-affairs]

Iran-Arabia Saudita: lo scontro più pericoloso

Medio oriente – Africa/POLITICA di

Il contrasto tra Iran e Arabia Saudita, da anni caratterizzato da una sorta di guerra fredda, rischia oggi di assumere dei risvolti piuttosto “caldi”. La rivalità tra i due big power del Medio Oriente non è un fatto nuovo. Tuttavia, gli avvenimenti recenti – l’uccisione del leader religioso Nimr al-Nimr, il crollo del prezzo del greggio e la fine delle sanzioni internazionali nei confronti dell’Iran- hanno gettato nuova benzina sul fuoco, destando preoccupazioni per l’equilibrio regionale e globale.

I perché delle tensioni

L’elemento religioso. L’Arabia Saudita, quasi totalmente musulmana, presenta una netta maggioranza della componente sunnita (la stessa famiglia regnante appartiene all’ideologia wahhabita, corrente minoritaria dell’Islam sunnita). Gli sciiti, circa il 15% della popolazione, sono concentrati nella provincia orientale di Al-Sharqiyya. Essi premono per l’autonomia della regione e la monarchia accusa proprio l’Iran di alimentare tali aspirazioni. La Repubblica Islamica rappresenta, invece, la corrente musulmana sciita, con una percentuale di fedeli superiore al 90%. Proclamatesi rispettivamente protettori della comunità sunnita e sciita, Arabia Saudita e Iran si fanno portavoce di tradizioni ed interessi opposti, che sfociano in un vero e proprio conflitto settario.

L’oro nero. L’Arabia Saudita è uno dei maggiori produttori di greggio e dal 2014 ha aumentato notevolmente la produzione, determinando un crollo del prezzo che aveva come obiettivo non solo colpire il mercato iraniano e le entrate di Mosca, ma anche rendere economicamente impraticabile per gli USA l’estrazione dello shale oil. Tuttavia, i piani di Riyadh non sono andati alla perfezione, con Stati Uniti e Russia che continuano a giocare un ruolo di punta nel mercato energetico. Uno smacco non indifferente per la monarchia saudita, proprio nel momento in cui la fine della sanzioni internazionali contro l’Iran rilancia nei giochi uno dei maggiori competitor.

L’egemonia regionale. L’Arabia Saudita gode di un peso geopolitico notevole, dovuto sia alla sua forte partecipazione nelle dinamiche regionali e globali ma anche ai rapporti instaurati con i paesi del Golfo e l’alleato statunitense. Tale posizione si è spesso tradotta in tentativo di imporre la propria leadership politica e religiosa nella regione. Ciò non solo desta attriti all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC)-ad esempio con il Qatar- ma rende pressoché impossibile una pacifica convivenza con l’Iran. Dall’altro lato, infatti, la Repubblica Islamica, reduce da quarant’anni di isolamento internazionale, mira a stabilire la propria egemonia nel Medio Oriente, dove non vi è soltanto l’Arabia Saudita a frenare le sue aspirazioni ma anche Israele, paese ebraico nonché alleato degli USA.

Quale futuro?

Difficile pensare ad una qualche forma di cooperazione tra Iran e Arabia Saudita, soprattutto dopo l’uccisione da parte di quest’ultima di Nimr al-Nimr, leader sciita che aveva incoraggiato gli sciiti sauditi a schierarsi contro il proprio governo e accanto all’Iran. L’esecuzione del leader è un chiaro messaggio alla popolazione, così come la chiusura delle relazioni diplomatiche è un chiaro segnale politico. Le ripercussioni non sono tardate ad arrivare: Emirati Arabi, Kuwait, Sudan, Qatar e Bahrein cessano infatti i rapporti con la Repubblica Islamica.

Una guerra aperta appare altrettanto improbabile. Con un deficit di bilancio di circa 100 miliardi di dollari, sarebbe poco logico per la monarchia saudita intraprendere un conflitto armato. L’Iran si è appena liberato di pesanti sanzioni che da decenni bloccavano la prosperità del paese e sta dimostrando una certa apertura nei confronti degli USA. Dichiarare guerra all’Arabia Saudita potrebbe giocare contro i propri interessi, coinvolgendo inevitabilmente altre potenze –USA, Russia, Israele- e gettando nuova instabilità sui già volatili giochi di potere regionali.

Rimane più plausibile il perdurare di questo stato di “guerra fredda” con picchi di tensione tra la capitale iraniana e quella saudita, e scontri caldi confinati ai teatri periferici, come Yemen, Bahrein o Siria, dove Teheran e Riyadh, supportano rispettivamente fazioni sciite e sunnite.

C’è però un altro attore che gioca un ruolo capillare in questo contesto: l’Islamic State. L’ISIS sta prendendo sempre maggior piede tra la comunità sunnita, ponendo dunque in serio allarme Riyadh, intenta a salvaguardare la propria influenza tra la popolazione sunnita. Dall’altro lato, l’Iran sciita combatte sì le forze dell’ISIS ma fino ad un certo punto. L’Iran, infatti, può trarre vantaggio dallo scontro ISIS-Arabia Saudita in quanto il conflitto tra questi due attori può progressivamente indebolire entrambi, lasciando l’Iran libero di affermarsi come leader nella regione. Vi è, tuttavia, il rischio che un simile gioco finisca fuori controllo, soprattutto visto l’appoggio che l’ISIS continua ad ottenere sia localmente sia a livello globale.

Pare, dunque, che la condizione di instabilità in cui versa il Medio Oriente sia destinata a continuare. E sembra plausibile che le tensioni sfocino in un’esplosione di conflitti su diversa scala con una pluralità di attori e agende politiche coinvolte. Ci sarà un secondo Iraq, con un vuoto di potere dilagante e potenze straniere pronte a scendere in campo o sarà uno dei due pretendenti al dominio regionale ad avere la meglio? Oppure sarà l’attore più temuto a spuntarla e l’intero Medio Oriente finirà nel pugno armato del terrorismo islamico jihadista?

Paola Fratantoni
0 £0.00
Vai a Inizio