GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Paola Fratantoni - page 3

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La rappresaglia saudita: raid aerei colpiscono Sana’a

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Il 20 settembre scorso, le autorità saudita autorizzano attacchi aerei contro le postazioni dei ribelli Houthi nella capitale yemenita Sana’a. Circa una dozzina tra bombe e missili hanno colpito la sede del Dipartimento di Sicurezza Nazionale (National Security Bureau) – è la prima volta dall’inizio del conflitto- il ministero della difesa, un checkpoint nella periferia nord-ovest della città e due campi militari dei ribelli nel distretto sud-orientale di Sanhan.

L’attacco nasce come risposta ad un missile lanciato dai ribelli nella serata di lunedì. Secondo l’Arabia Saudita, il missile, modello Qaher-1, aveva come obiettivo la base aerea King Khalid, 60 km a nord del confine yemenita, nella città di Khamees Mushait. La monarchia saudita sostiene che il missile sia stato intercettato dalle difese aeree del regno prima di poter causare danni alla base stessa o alle zone limitrofe, mentre la Saba News Agency, controllata dai ribelli, dichiara che il missile abbia effettivamente colpito il bersaglio.

La monarchia saudita ha immediatamente reagito, causando -secondo le testimonianze raccolte- almeno una vittima tra i civili e alcuni feriti. Non è la prima volta che il conflitto provoca morti civili , dando adito ancora una volta alle pesanti critiche sollevate in diverse occasioni circa l’elevato numero di morti civili registrato dall’inizio della campagna aerea guidata dall’Arabia Saudita.

 

Gli scontri tra i ribelli Houthi e le forze governative risalgono già al 2004, ma è soltanto nel 2014 che scoppia una vera e propria guerra civile. Nel settembre del 2014, infatti, gli Houthi -un gruppo ribelle conosciuto come Ansar Allah (Partigiani di Dio) che aderisce alla branchia dell’Islam shiita chiamata Zaidismo- prende il controllo di Sana’a, capitale yemenita, costringendo il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi e il governo a rifuggiarsi temporaneamente a Riyhad.

Le forze di sicurezza del paese si schierano in due gruppi: chi a sostegno del governo di Hadi, riconosciuto internazionalmente, chi a favore dei ribelli. Lo scenario è aggravato ulteriormente dall’emergere di altri due attori. Da un lato, al-Qaeda nella penisola Arabica (AQAP), che guadagna terreno nella zona meridionale e sud-orientale del paese. Dall’altro, un gruppo yemenita affiliato allo Stato Islamico, che si contrappone allo stesso AQAP per il predominio sul territorio.

Il conflitto si intensifica a partire da marzo 2015, quando la monarchia saudita e i suoi alleati lanciano un’intensa campagna aerea in Yemen, con lo scopo di ripristinare il governo Hadi. Da allora, più di 6.600 persone sono rimaste uccise nel conflitto, mentre il numero degli sfollati ha raggiunto i 3 milioni.

Ad oggi, gli scontri continuano e la situazione in Yemen rimane instabile. Le Nazioni Unite hanno più volte pubblicato dati allarmanti in riferimento alle morti civili, recentemente accusando l’Arabia Saudita di aver provocato i 2/3 delle casualità, mentre gli Houthi sarebbero responsabili di uccisioni di massa legate all’assedio della città di Taiz.

Inoltre, molti paesi stranieri -seppur con modi e mezzi differenti- hanno progressivamente preso parte al conflitto. La coalizione internazionale vede schierati Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Egitto, Marocco, Giordania, Sudan e Senegal. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia sostengono la coalizione in termini di armi e formazione delle milizie saudite, con la potenza americana impegnata altresì nei bombardamenti aerei contro ISIS e AQAP. Dall’altro lato, l’Iran è stato ripetutamente accusato di fornire armi ai ribelli Houthi, sebbene Tehran abbia sempre negato ogni tipo di coinvolgimento.

E’ bene sottolineare come lo scontro in Yemen non possa essere ridotto meramente ad una guerra civile o ad un teatro di scontro tra terroristi; bensì, si tratta del prodotto di dinamiche molteplici e conflittuali, che coinvolgono diversi attori e interessi spesso contrastanti. Infatti, al di là della guerra civile e della minaccia terroristica, lo Yemen è il teatro della guerra per procura in corso tra le due maggiori potenze del Medio Oriente, Arabia Saudita ed Iran, trascinando così sulla scena alleanze e giochi di potere che contribuiscono ad esacerbare tensioni ed alimentare l’instabilità nella regione.

 

Paola Fratantoni

 

 

 

SA’s retaliation: air strikes hit Sana’a

Defence/Middle East - Africa di

SAUDI-YEMEN-CONFLICT

On September 20, Saudi Arabian authorities authorised air strikes against Houthis rebel positions in the Yemen’s capital Sana’a. Around a dozen bombs or missiles hit the Headquarters of the National Security Bureau -it is the first time since the beginning of the conflict- the defence ministry, a checkpoint in the capital’s north-western suburbs and two rebel military camps in the southeast district of Sanhan.

This attack comes as a response to a missile fired by the rebels on Monday evening. According to Saudi Arabia (SA), the Qaher-1 missile was aimed at SA’s King Khalid Air Base, 60 km north of the Yemeni border, in the city of Khamees Mushait. SA reports the missile was intercepted by the kingdom’s air defence before it could cause any damage to the base and neighbourhood, though Houthis-run Saba News Agency discloses the missile actually hit the target.

Regardless, SA immediately responds to the attack, causing at least one civilian death and some wounded, witnesses said. It is not the first time that the hostilities cause civilian deaths, proving once again the heavy criticism for high civilian death toll since the beginning of the Saudi Arabia-led air campaign.

 

Houthis and government forces have battled on-and-off since 2004 but it was in 2014 that a civil war eventually broke out. Indeed, in September 2014, Houthis -a rebel group known as Ansar Allah (Partisans of God) that adheres to the branch of Shia Islam called Zaidism- took control of Sana’a, Yemen’s capital city, and forced President Abd Rabbo Mansour Hadi and the Saudi-backed government to temporarily flee to Riyadh.

Security forces split in two groups, one supporting the international recognised government, the other backing rebels. The scenario was deeply worsen by the emergence of two other actors. On one hand, al-Qaeda in the Arabian Peninsula (AQAP), which gained grip in the south and south-east region. On the other, a Yemen affiliate of the Islamic State, which was trying to overrun AQAP and claimed responsibility of some suicide bombings in Sana’a.

Conflict escalated in March 2015, when Saudi Arabia and her allies launched a massive air campaign in Yemen in order to restore Hadi’s government. Since then, more than 6,600 people have been killed, while the number of displaced people has risen to 3 million.

To date, fighting has not stopped and the situation in Yemen is still unstable. The United Nations often report alarming data on civilian deaths, recently accusing Saudi Arabia-led coalition to be responsible of 2/3 of those and Houthis to be involved in mass civilian casualties due to the siege of the city of Taiz.

In addition, several foreign countries have taken part -though with different means- in the fighting. The international coalition includes SA, Qatar, Kuwait, United Arab Emirates, Bahrain, Egypt, Morocco, Jordan, Sudan and Senegal. United States, United Kingdom and France are supporting the coalition providing supplies, with the US also carrying air strikes targeting ISIS and AQAP positions in Yemen. On the other side, Iran has been accused of arming Houthis rebels, though the country has always denied it.

It should be added that the conflict in Yemen cannot be reduced to a civil war or a terrorist battlefield, but it is the result of several and conflicting dynamics involving multiple actors and opposite interests. Indeed, despite the civil war and the terrorist threat, Yemen is the theatre of the proxy war between the two major powers in the Middle East, Saudi Arabia and Iran, thus dragging into the scene alliances and games of powers that escalate tensions and foster instability in the region.

 

Paola Fratantoni

 

 

Iran: nessuna negoziazione sulla difesa

Difesa/Medio oriente – Africa di

Chiunque pensasse che l’Iran, dopo la firma dell’accordo sul nucleare e il ritiro di alcune sanzioni internazionali, si sarebbe trasformato in un docile alleato pronto a sottostare ai desideri delle potenze occidentali, probabilmente ha fatto male i suoi conti. Ciò che stiamo vedendo nelle ultime settimane, invece, è una nazione decisa e resoluta, votata a riprendersi la scena internazionale e a perseguire i propri interessi, no matter what!

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Riflettori puntati sulla Repubblica Islamica in particolare per quanto riguarda i recenti test di missili balistici, che hanno destato nuovamente timori e preoccupazioni tra i paesi occidentali e le monarchie del Golfo. Il mese scorso, infatti, durante un’esercitazione militare –nome in codice Eqtedar-e-Velayet-, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) ha testato due missili balistici modello Qadr, il Qadr-H e il Qadr-F. Entrambi i missili sono stati lanciati dai massicci montuosi situati nella regione settentrionale dell’Iran, le East Alborz Mountains, colpendo obiettivi collocati lungo le coste sudorientali del paese. Secondo i report, i missili avrebbero una gittata rispettivamente di 1.700 e 2.000 km.

Non si è fatta attendere la reazione internazionale, ancora una volta profondamente divisa. Da un lato la condanna di Stati Uniti e Europa, che hanno visto i test come una violazione della risoluzione ONU 2231; dall’altro la Russia, che, invece, sostiene come le esercitazioni condotte non violino in alcun modo i dettami del documento. È fallito, infatti, il tentativo delle potenze occidentali di sollevare, proprio in sede ONU, azioni contro l’Iran. Sembra, inoltre, che Washington stessa abbia fatto marcia indietro sulle prime dichiarazioni circa i test, confermando che questi non rappresentino nei fatti alcuna infrazione alla risoluzione.

Stando al testo di quest’ultima, infatti, “Iran is called upon not to undertake any activity related to ballistic missiles designated to be capable of delivering nuclear weapons, including launches using such ballistic missile technology…”. Il problema nasce qualora tali tecnologie –come Israele sostiene- siano potenzialmente in grado di trasportare testate nucleari. Tuttavia, le dichiarazioni rilasciate dal Ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif ribadiscono come il paese non sia attualmente dotato di missili in grado di trasportare tali testate.

Diversi sono gli esponenti iraniani che si sono espressi  sull’argomento. Il Segretario dell’Expediency Council (EC) Mohsen Rezaei ha ribadito che il programma missilistico iraniano è esclusivamente a scopo deterrente e rientra a pieno titolo nel diritto all’autodifesa del paese in caso di attacco armato. Secondo il Segretario è facilmente comprensibile come il disarmo non sia una via percorribile per l’Iran: qualora si abbandonasse l’investimento nella difesa, infatti, il paese diventerebbe facilmente attaccabile e sono numerosi i nemici che ne potrebbero approfittare.

Più rigida la posizione del generale Amir Ali Hajizadeh, comandante delle forze aeree delle IRGC. La Repubblica Islamica continuerà a potenziare le sue capacità difensive e missilistiche, che servono a garantire la sicurezza del paese e a dissuadere i nemici dall’attaccare l’Iran. Sono proprio questi nemici ad aver cercato di minare il sistema di difesa iraniano per più di 30 anni e le stesse sanzioni approvate dagli USA all’indomani dei test ne sono una costante conferma. Le capacità missilistiche sono una questione di sicurezza nazionale e l’Iran mette in chiaro come non vi sia spazio per negoziazione o compromesso. “Nessuna persona saggia negozierebbe sulla sicurezza del proprio paese” ha affermato il Vice Ministro degli Esteri per gli Affari Legali ed Internazionali Abbas Araqchi.

È chiaro che simili dichiarazioni possano destare particolari timori specialmente tra paesi come Israele e le monarchie del Golfo. Il primo, infatti, è nel mirino di Teheran sin dai tempi dell’Ayatollah Khomeini e la stessa retorica dell’annientamento del paese ebraico viene spesso riproposta. I paesi del Golfo non vedono di buon occhio la crescita (economica e militare) di un paese che non solo mira all’egemonia della regione, ma supporta ed alimenta diversi gruppi fondamentalisti, fattori destabilizzanti della sicurezza regionale. Tensioni e attriti sono altamente probabili nei prossimi mesi: resta, infatti, da vedere come i vari stati arabi risponderanno ad un Iran poco incline alla cooperazione e propenso a raggiungere i propri obiettivi nazionali, le ripercussioni che ciò può avere nelle relazioni tra i vari attori ed il ruolo che potenze come Stati Uniti o Russia possono giocare nel favorire o ostacolare questi rapporti.

 

Paola Fratantoni

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Iran: no negotiation over defence

Defence di

Whoever thought that, after the signature of the nuclear deal and the lifting of the international sanctions, Iran would have become a docile and friendly country, well, probably made a wrong calculation. Indeed, in the last weeks, we’ve seen a strong and resolute nation, aimed to restore its position in the international area and to pursue its national interests, no matter what.

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The spotlight is on the Islamic Republic in particular due to its recent ballistic missile tests, which have raised new fear and concern among Western countries and the Gulf monarchies. Last month, indeed, during a military large-scale drill –codenamed Eqtedar-e-Velayet-, the Islamic Revolutin Guards Corps (IRGC) tested two ballistic missiles class Qadr, the Qadr-H and the Qadr-F. Both the missiles were launched from the heights of East Alborz Mountains, northern Iran, hitting targets on the southeast coasts of the country. According to reports, missiles have a range of 1,700 km and 2,000 km respectively.

The international reaction wasn’t long in coming. On the one hand, the condemnation of the United States and Europe, which saw tests as a breach of UNSC resolution 2231; on the other, Russia stated that these tests do not violate the mandate of the document. Even Western powers failed to raise actions against Iran at the UN. It seems that Washington later withdrew its accusation, confirming that the tests do not represent a breach of the resolution.

According to the latter, indeed, “Iran is called upon not to undertake any activity related to ballistic missiles designated to be capable of delivering nuclear weapons, including launches using such ballistic missile technology…”. Questions arise whether these technologies could be able -as Israel affirms- to  carry nuclear warheads. However, recent declarations from the Iranian Foreign Minister Javad Zarif state that the country does not have any missile capable of carrying this kind of warheads.

Several Iranian personalities have spoken about this topic. The Expediency Council (EC) Secretary Mohsen Rezaei stressed that the Iranian missile programme only has deterrent purposes and is aimed to exercise the country’s right to self-defence in case of an armed attack. According to the Secretary, it is easily understandable that disarm could not be an option for Iran: indeed, if the country gives up investments in defence, it would be subjected to attack and there are several enemies that could take advantage from this situation.

General Amir Ali Hajizadeh, commander of the air forces of the IRGC, has even a stricter position. The Islamic Republic will continue to strengthen defensive and missile capabilities, which ensure Iran’s security and deter enemies from attacking the country. These enemies are also the ones, which have boosted the country’s defence power for more than 30 years; and US new sanctions just confirm this idea. Missile capabilities are a matter of national security and Iran clearly states that there is no room for negotiation or compromise over it. “No wise individual will negotiate over his country’s security” said the Deputy Foreign Minister for Legal and International Affairs Abbas Araqchi.

It is clear that similar statements can raise concerns, especially among countries such as Israel and the Gulf monarchies. The first has been a target of Iran since Ayatollah Khomeini and the rhetoric of “wiping out” the Jewish country has recently come out several times.  The Gulf countries do not support the economic and military growth of a country that not only aims to achieve regional hegemony but also backs and fosters several fundamentalist groups, drivers of instability in the region. Tensions are likely to arise in the coming months: it is to be seen how Arabic countries will react to an Iran not so prone to cooperation and aimed to achieve its national goals, the consequences on the relationship among these actors and the role that powers such as US and Russia could play in fostering or hampering these relations.

 

Paola Fratantoni

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La Francia annuncia il ritiro dalla RCA

Difesa/Medio oriente – Africa di

La notizia arriva dal Ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian in occasione della visita nella capitale centrafricana Bangui. L’Operazione Sangaris, lanciata dalla Francia nel dicembre del 2013 in risposta alla risoluzione ONU n2127 (5 dicembre 2013), verrà ultimata entro la fine del 2016. “Finalmente –sottolinea il ministro- possiamo vedere il paese riemergere da un lungo periodo di disordini ed incertezza”. In due anni la missione è riuscita a ripristinare la stabilità nel paese, portando a compimento i suoi obiettivi. Ragione per cui la Francia sembra pronta a ritirare i propri contingenti.

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Lo stato di disordine nella Repubblica Centrafricana inizia nel marzo del 2013, quando un movimento musulmano di ribelli, denominato Seleka, rovescia il governo dell’allora presidente cristiano Francois Bozize, rimpiazzandolo con il proprio leader Michel Djotodia. Il governo Djotodia resta in carica per 10 mesi, durante i quali la violenza etnica tra la minoranza musulmana e la maggioranza cristiana dilaga profondamente nel paese, provocando la morte di migliaia di persone.

La comunità internazionale reagisce unanime e approva la suddetta risoluzione. Tale risoluzione non solo condanna la spirale di violenza etnica e religiosa alimentata dai gruppi ribelli, ma autorizza anche  lo spiegamento della missione MISCA, (Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine), autorizzando le forze francesi presenti ad adottare tutte le misure necessarie –nel rispetto del mandato- per realizzare i tre obiettivi principali della missione : disarmo dei gruppi armati, ripristino delle autorità civili e supporto nella preparazione delle elezioni.

Iniziata con l’invio di 1.600 militari, l’Operazione Sangaris arriva a contare fino a 2.500 uomini nei periodi di maggior crisi. Il governo Djotodia si dimostra, infatti, incapace di mantenere sotto controllo i ribelli che lo avevano portato al potere, trascinando così il paese nel baratro della guerra civile. La situazione migliora dopo le dimissioni del Presidente e la nomina di un governo di transizione guidato da Catherine Samba-Panza, prima donna presidente del paese. I miglioramenti del contesto centroafricano inducono il governo francese a ridurre progressivamente le forze in campo, mantenendo però il supporto alla missione internazionale.

Oggi, la Francia conta 900 unità stanziate nella Repubblica Centrafricana. Il ministro Le Drian sottolinea che 300 militari rimarranno in loco anche dopo la fine dell’Operazione. Queste truppe supporteranno la missione ONU MINUSCA (Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic) e parteciperanno alla missione d’addestramento guidata dall’Unione Europea (EUTM RCA). Alcune unità si occuperanno di garantire la sicurezza in punti nevralgici come gli aeroporti, altre saranno invece di base in Costa d’Avorio e nella regione del Sahel pronte per un eventuale intervento.

Come lo stesso Le Drian ha sottolineato, il contesto di sicurezza del paese è decisamente migliorato, ma tutt’ora vi sono problematiche da risolvere. Il disarmo dei movimenti ribelli e la realizzazione di un esercito legittimo ed efficiente sono le maggiori sfide che il neo-eletto presidente Faustine Archange Touadera si troverà ad affrontare. Ciò spiega la permanenza delle missioni internazionali e dei contingenti francesi. Com’è noto, infatti, la Francia cura molto le relazioni con i territori una volta appartenenti ai domini coloniali ed è più volte intervenuta in situazioni di crisi interne mandando in aiuto le proprie forze armate.

Il ritiro dei contingenti da Bangui non è, certo, una sorpresa. La missione francese ha avuto sin dalle sue origini un carattere temporaneo e nel corso degli anni la Francia ha cercato di alleggerire- quando le condizioni lo hanno reso possibile- la propria presenza militare nel paese. Garantire, tuttavia, la continua presenza di alcune unità anche in futuro sottolinea ancora una volta l’impegno francese all’estero, segno evidente che, nonostante la situazione internazionale e le continue minacce al paese, la Francia difende i propri valori di nazione libera e la sua posizione influente nell’ex impero coloniale.

 

Paola Fratantoni

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France to withdraw from CAR

Defence di

The news was announced by the French Defence Minister Jean – Yves Le Drian during his visit in Bangui. Operation Sangaris, launched by France in December 2013 in response to the UN resolution 2127 (5 December 2013), will end in 2016. “We can finally see the country emerging by a long period of trouble and uncertainty”, the minister said. In two years, the mission was able to restore stability in the country, thus fulfilling its objectives. Perhaps this is the reason behind French decision to withdraw its contingents.

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Disorder in CAR began in March 2013, when a Muslim rebel movement, known as Seleka, overthrew the government of the Christian president Francois Bozize, replacing him with their leader Michel Djotodia. The Djotodia government remained in office for 10 months: at that period, the ethnic violence between the Muslim minority and the Christian majority spread out in the country, thus causing the death of thousands of people.

The international community reacted unanimously and approved the above resolution. This resolution not only condemned the spiral of ethnic and religious violence fueled by rebel groups, but also authorized the deployment of MISCA mission (Mission internationale de soutien à la Centrafrique sous conduite africaine). This mission authorized French forces to take all necessary measures -in respect of the mandate- to achieve the three main objectives of the mission: disarmament of armed groups, restoration of civil authority and support in the preparation of the elections.

Begun with 1,600 soldiers, Operation Sangaris had around 2,500 men deployed at its peak. The Djotodia government proved to be unable to keep rebels -who had brought him to power- under control, thus dragging the country into a civil war. The situation improved after the resignation of the President and the appointment of a transitional government led by Catherine Samba-Panza, the first woman president of the country. Improvements in CAR security contest induced the French government to reduce the forces gradually, while continuing supporting the international mission.

Today, France has 900 units deployed in the Central African Republic. Minister Le Drian stressed that 300 soldiers will remain there even after the end of Operation. These troops will support the UN mission MINUSCA (Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic) and will participate in the training mission led by the European Union (EUTM RCA). Some units will provide security at the airport; others will be based in Ivory Coast and in the Sahel region ready to intervene if necessary.

As Le Drian refers, in fact, the security environment in the country has significantly improved, but there are still problems to be solved. The disarmament of rebel movements and the creation of a legitimate and efficient army are the major challenges that the newly elected President Faustine Archange Touadera will face. This explains the permanence of international missions and French forces. As it is known, indeed, France cares about the relations with the territories once belonging to its colonial empire and has repeatedly helped in internal crisis by sending its armed forces.

The withdrawal from Bangui is not a surprise. From the beginning, French mission was supposed to be a temporary mission and over the years, France has tried to decrease- when conditions made it ​​possible- its military presence on the ground. However, ensuring the continued presence of some units in the future once again emphasizes French commitment abroad -a clear sign that, despite the international situation and the threats to the country, France defends its values ​​of free nation and his influential position in the former colonial empire.

 

Paola Fratantoni

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Al via l’offensiva economica di Teheran

L’accordo sul nucleare, reso esecutivo nel mese di gennaio, ha visto terminare molte delle sanzioni economiche che da decenni gravavano sulla Repubblica Islamica, decretando così il suo ufficiale reinserimento nella competizione economica internazionale. Tuttavia, come riferisce il Consiglio per il Discernimento, l’ostilità di molti paesi è ancora viva, così come la volontà di frenare la ripresa economica del paese. Parallelamente, la stessa fiducia dell’Iran nei confronti, ad esempio, di alcuni partner europei, dovrà essere riconquistata gradatamente. In altre parole, la scelta di Teheran verte ancora sull’ormai decennale strategia dell’economia di resistenza, che ha insegnato al paese a migliorare lo sfruttamento delle risorse interne e minimizzare la vulnerabilità e i danni derivanti dalle misure sanzionatorie. È proprio questa politica, infatti, che ha permesso all’economia iraniana di sopravvivere a decenni di isolamento, rimanendo (in termini di PIL) la seconda del Medio Oriente e la settima in Asia.

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L’apertura verso l’estero sarà, dunque, molto mirata: l’obiettivo è potenziare i settori chiave, continuando a sfruttare il patrimonio interno che ad oggi ha garantito buoni frutti, come ad esempio le infrastrutture industriali e l’industria petrolchimica. Priorità è data, perciò, agli investimenti dall’estero, all’aumento delle esportazioni di prodotti non petroliferi e al come ovviare al problema delle riserve di valuta estera ancora congelate dalle sanzioni. Nel momento in cui l’attenzione internazionale è concentrata sulla lotta all’ISIS, Teheran inizia la propria “offensiva” economica, gettando le basi per intese commerciali soprattutto con paesi asiatici e africani.

Per quanto concerne l’import-export, Iran e Russia stanno studiando la creazione di una zona di libero scambio, come ha affermato il ministro dell’Energia russo Alexsandr Novak. La prima bozza del progetto indica prodotti metallici e chimici come oggetto principale dell’export russo verso l’Iran; dall’Iran, invece, arriverebbero rifornimenti di frutta e verdure per un ammontare annuo di un miliardo di dollari, una crescita rilevante rispetto ai circa 194 milioni attuali.

Accordi significativi anche con il Vietnam. I due paesi mirano a incrementare il volume dei rapporti commerciali da 350 milioni a 2 miliardi di dollari nell’arco di cinque anni, con progetti in diversi settori, dall’agricoltura, al turismo, all’energia alle innovazioni tecnologiche. Al fine di favorire la cooperazione, è stato siglato anche un Memorandum of Understanding tra le rispettive banche centrali. Trattative in corso anche con la Turchia di Erdogan, la Costa d’Avorio e diversi paesi africani, che si dichiarano propensi a potenziare i rapporti economici con la Repubblica Islamica. I progressi compiuti da quest’ultima nel settore energetico, sanitario, tecnologico e delle infrastrutture la rende, infatti, un partner ideale per soddisfare le diverse esigenze del continente nero.

Per quanto riguarda il settore energetico, due i progetti principali in ballo. Il primo riguarda la costruzione di un gasdotto sottomarino che colleghi l’Iran all’India: 1.400 km di infrastruttura che permetterà di aggirare la zona economica esclusiva pakistana, portando in India fino a 31,5 milioni di metri cubi di gas al giorno. Un investimento importante, circa 4,5 miliardi di dollari, che conferma –e premia- le buone relazioni mantenute tra le due nazioni anche durante il regime delle sanzioni. La seconda novità riguarda una collaborazione scientifica e tecnologica tra l’Elettra Sincrotone di Trieste e l’Institute for Research in Fundamental Sciences di Teheran. Punti nevralgici la formazione del personale tecnico scientifico iraniano e la progettazione congiunta di una nuova linea di luce, da impiegare sia nello studio di fenomeni chimici e biologici, ma anche nel settore industriale.

Dal Pakistan arriva una svolta importante nel settore bancario. Essendo alcune sanzioni ancora vigenti, il pagamento in dollari dei prodotti importati dall’Iran non risulta ancora fattibile. Da qui la decisione da parte degli imprenditori pakistani di aprire lettere di credito (LC) in euro, anziché nella valuta americana. In questo modo, non saranno più le banche americane ad essere le intermediare, bensì quelle europee, che non avranno dunque motivo di non autorizzare il pagamento.

Sembra, dunque, che l’Iran abbia una chiara strategia economica in mente. Da un lato puntare sulle ricchezze interne, come ad esempio il petrolio – l’Iran inizierà a collaborare con gli altri paesi produttori circa il congelamento della produzione soltanto quando l’output iraniano raggiungerà la quota di 4 milioni di barili al giorno; dall’altro, potenziare settori economici chiave, intensificando i rapporti con le medie e grandi potenze asiatiche, privilegiandole sui paesi del Medio Oriente ed occidentali, segno evidente che la diffidenza nei confronti di chi più ha beneficiato delle sanzioni è lungi dall’essere superata.

 

Paola Fratantoni

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Iran’s economic offensive

Asia @en/Energy di

With the enforcement of the nuclear deal in January, several economic sanctions -which have wreaked havoc on Iran’s economy for years- has been lifted, thus paving the way for its re-integration into the international economic competition. However, as the Expediency Council points out, the hostility of many countries is still alive, along with their desire to curb the country’s economic recovery. Likewise, some countries, for example some European partners, will have to gradually win back Iran’s trust towards them. In other words, Tehran bets again on the well-known economy of resistance strategy, which has taught the country to maximize the use of national resources, while minimizing vulnerability and damage caused by sanctions. This policy, indeed, allowed the Iranian economy to survive decades of isolation, still being (in terms of GDP) the second of the Middle East and the seventh in Asia.

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The openness towards foreign countries will be carefully planned: the aim is to strengthen key economic areas, while continuing to exploit the internal resources, which have proved to be productive, such as industrial infrastructure and the petrochemical industry. Hence, priority is given to investment from abroad, increasing export of non-oil products and to address the problem of foreign exchange reserves still frozen by sanctions. At a time when international attention is focused on fighting ISIS, Tehran is launching its economic “offensive”, paving the way for trade agreements especially with Asian and African countries.

Concerning import-export, Iran and Russia are considering the creation of a free trade zone, as Russian Energy Minister Alexsandr Novak recently announced. The first draft of the project sets metal and chemical products as the main objects of Russian exports to Iran; in return, Iran would provide fruit and vegetables up to one billion dollars, a significant increase compared to the current trade ($194 million).

Important achievements also with Vietnam. The two countries aim to increase their trade value from 350 million to 2 billion over the next five years, with investment projects in several sectors, i.e. agriculture, tourism, energy  and technological innovations. In order to foster cooperation, their central banks have also signed a Memorandum of Understanding. Ongoing negotiations also with Turkey, Côte d’ Ivoire and other African countries, which are willing to enhance economic relations with the Islamic Republic. Iran’s achievements in energy, healthcare, technology and infrastructure make it an ideal partner to supply the needs of the African continent.

Two major projects are on the table in energy sector. The first concerns the construction of an undersea gas pipeline linking Iran to India: 1400 kilometers of infrastructure that will allow to bypass Pakistani exclusive economic zone, bringing up to 31.5 million cubic meters of gas per day in India. A big investment, about $ 4.5 billion, which confirms –and rewards- the good relations that the nations preserved even during the sanctions regime. The second new project is a scientific and technological cooperation between the Elettra Synchrotron of Trieste (Italy) and the Institute for Research in Fundamental Sciences in Tehran. Key points are the training of Iran’s scientific and technical personnel and the joint design of a new line of light, to be used both in the study of chemical and biological phenomena, and in industrial sectors.

Pakistan marks an important turning point in banking sector. As some sanctions are still in force, payment in dollars for products imported from Iran is not yet possible. Hence, Pakistani businessmen decided to open letters of credit (LCs) in euro rather than in the US currency. In this way, the American banks will be no longer the intermediate banks, but the European ones will clear the LCs.

To conclude, it seems that Iran has a clear economic strategy in mind. On the one hand, it focuses on internal resources, such as oil – Iran will begin to cooperate with other producing countries about freezing production only when the its output will reach the quota of 4 million barrels a day. On the other, it aims to strengthening key economic sectors, by intensifying relations with medium and big Asian powers, thus favoring them rather than Middle Eastern and Western countries, a clear sign that the distrust towards those who most benefited from sanctions is far from over.

 

Paola Fratantoni

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Germania divisa sull’immigrazione

EUROPA/POLITICA di

“Un giorno difficile” per il partito, così si è espressa la Cancelliera tedesca Angela Merkel all’indomani delle elezioni regionali tedesche, tenutesi il 15 marzo scorso. Il CDU (Christlich Demokratische Union) perde, infatti, la maggioranza in due stati federali su tre, Baden-Wuttemberg e Renania-Palatinato. Un risultato significativo: seppur il CDU resti la forza di maggioranza, vediamo emergere nettamente le posizioni dell’Alternative für Deutschland (AfD), partito di estrema destra guidato da Frauke Petry. Tema della discordia: le politiche sull’immigrazione.

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In risposta alla crisi dei rifugiati provenienti dalla Siria e da altri paesi del Medio Oriente, la Cancelliera Merkel da mesi sostiene la politica dell’open-door, in base alla quale la Germania garantisce asilo ai rifugiati e ai migranti provenienti dalle zone di guerra. Nel corso del 2015, più di un milione di persone hanno attraversato la frontiera tedesca. Una politica “umanitaria”, che si distanzia, tuttavia, dalle posizione prese da altri paesi europei, come la Slovenia che ha optato per la chiusura delle frontiere, o l’Austria, che ha imposto controlli più severi ai confini e un tetto massimo di rifugiati da accogliere.

Diametralmente opposta la posizione dell’AfD, fautore della chiusura delle frontiere. “Asylchaos beenden” -il motto del partito- esprime chiaramente un senso di preoccupazione per la stabilità interna del paese. L’AfD sostiene una linea politica conservatrice, votata alla difesa dei valori tradizionali cristiani. L’afflusso costante e corposo degli immigrati musulmani viene percepito come una minaccia a questi valori: un atteggiamento xenofobo, dunque, che pare trovare sempre maggior appoggio tra la popolazione tedesca.

Tra i voti a favore dell’AfD, infatti, non vi sono solo quelli dell’estrema destra tradizionale. Si uniscono al coro anche molti conservatori, tradizionalmente più vicini alle posizioni del CDU ma disillusi dalle politiche centriste promosse dalla Merkel. L’alternativa populista offerta dal partito della Petry sembra, invece, avvicinarsi maggiormente alle esigenze e alle idee di questa componente.

Ci troviamo di fronte ad un elettorato tedesco fortemente polarizzato. Da un lato, chi ha sostenuto e continua a sostenere le politiche di apertura della Merkel, per la quale la paura più concreta non è l’afflusso dei rifugiati, bensì la chiusura delle frontiere. Così facendo, si metterebbero in pericolo i principi cardine dell’Unione Europea, come la libera circolazione delle persone, il libero commercio e la moneta unica. Dall’altro lato, invece, l’estrema destra xenofoba punta su un approccio più radicale, volto a difendere l’integrità e la sicurezza nazionale a scapito dei valori comunitari come, appunto, la libera circolazione.

Copione già visto: in Francia con l’ascesa del partito estremista della Le Pen ed ora negli Stati Uniti con i successi di Trump. Sembra crescere, dunque, nei paesi occidentali l’insofferenza verso politiche troppo permissive circa l’arrivo di stranieri. E il senso di insicurezza dovuto alle continue minacce e agli attentati compiuti in diverse capitali europee di certo non favorisce una linea di pensiero più aperta.

Sullo sfondo di questo contrasto interno troviamo, inoltre, le trattative condotte dalla Bundeskanzlerin in ambito UE con la Turchia, nell’ottica di siglare un accordo sugli immigrati. La nazione di Erdogan ha recentemente richiesto altri tre miliardi di finanziamenti in aggiunta ai tre già previsti, proponendo un meccanismo di scambio tale per cui per ogni profugo siriano riammesso, l’UE ne accolga uno già residente in Turchia. Richieste “comprensibili”, secondo la Germania; diversa, invece, la reazione di altri leader europei, come il premier belga Charles Michel che definisce l’accordo come una sorta di ricatto.

Tuttavia, né l’esito delle elezioni, né i pareri diversi in seno all’UE hanno fatto cambiare idea alla Merkel: nessuna inversione di rotta nella open door policy, mentre l’accordo con la Turchia rimane l’unica strada possibile per risolvere la crisi.

Probabili, dunque, le ripercussione sia a livello nazionale che europeo. In Germania, la CDU non rischia soltanto di vedere crescere l’estrema destra, ma mette a repentaglio la stabilità interna del partito. Lo stesso Horst Seehofer, leader della CSU, partito gemello della CDU in Bavaria, ha pesantemente criticato le scelte della Merkel, affermando che di fronte a simili risultati elettorali l’unica risposta accettabile sia una cambiamento della linea politica. A livello europeo, la distanza tra una Germania in prima linea nell’Unione e gli altri Membri mette ancora una volta in dubbio la credibilità e la stabilità dell’istituzione nonché l’efficacia di un qualunque accordo con la Turchia. Considerando che sono molti i paesi europei ad avere interessi in gioco, una risposta europea deve obbligatoriamente tenere in considerazione le diverse esigenze. E se la Merkel vuole continuare a mantenere la leadership non può chiudere gli occhi sulle posizioni altrui.

 

Paola Fratantoni

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German divisions over immigration

Politics di

“A difficult day” for the party said German Chancellor Angela Merkel after the state election held last Sunday. The CDU (Christlich Demokratische Union) lost the majority in two out of three federal states, Baden – Wuttemberg and Rhineland- Palatinate. A remarkable result: although the CDU remains the main political force, we clearly see the far-right Alternative für Deutschland (AfD)party, led by Frauke Petry, gaining increasing support. Key issue: immigration policies.

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In response to the Syrian and Middle Eastern refugee crisis, Chancellor Merkel has been promoting an open-door policy, according to which Germany grants asylum to refugees and migrants coming from war zones. In 2015, more than a million people crossed the German border. A “humanitarian” policy, which distances itself from the position taken by other European countries. For instance, Slovenia has opted for closing the borders, while Austria has imposed stricter controls at the borders and a ceiling of refugees to be accepted.

Very different the approach presented by the AfD, which stands for securing the borders. “Asylchaos beenden” – the party’s motto- clearly shows the concern for national internal stability. The right-wing party supports a conservative political line, aimed to protect the traditional Christian values. The constant influx of Muslim immigrants is perceived as a threat to these values​​: a xenophobic attitude, then, that seems to get more support among the German population.

The AfD, in fact, is gaining votes also outside the traditional far-right supporters. Many conservatives, usually closer to the positions of the CDU but disillusioned by the centrist policies promoted by Merkel, have given their preference to the far-right. The alternative offered by Petry’s populist party, indeed, seems to get closer to their needs and ideas.

We are seeing a strongly polarized electorate. On the one hand, those who has supported and continues to support the open policies promoted by Merkel, whose real fear is not the influx of refugees , but the closure of borders . Doing so would endanger the European Union’s fundamental principles, such as the free movement of persons, free trade and the single currency. On the other hand, the far-right xenophobic party bets on a more radical approach, which aims to defend the national integrity and security at the expense of community values, indeed, the freedom of movement.

Nothing new nor surprising. We have already seen the same process in France with the rise of Le Pen’s xenophobic far-right party and now in the US with Trump’s successes. It seems that in Western countries the intolerance towards permissive policies on refugees and foreigners is sharply growing. And the sense of insecurity due to ongoing threats and attacks carried out in various European capitals certainly does not facilitate an opener position.

In the background of this internal conflict there are also the negotiation leading by the Bundeskanzlerin within the EU with Turkey, in order to sign an agreement on migrants. Erdogan has recently requested an extra 3bn Euros (on top of the 3bn Euros already made available), while proposing an exchange mechanism according to which for every Syrian refugee readmitted in Turkey, the EU would resettle one Syrian refugee from Turkey to other EU Member States. “Understandable” demands, according to Germany; different reaction from other European leaders, such as the Belgian Prime Minister Charles Michel that defines the agreement as a sort of blackmail.

However, neither the outcome of the election, nor the conflicting opinions within the EU have changed Merkel’s plan: no U-turn in the open-door policy, while the agreement with Turkey still remains the only possible way to solve the crisis.

Likely, there will be consequences both at national and European level. In Germany, the CDU is not only facilitating the growth of far-right parties, but it is endangering the internal stability of its own party. Horst Seehofer, leader of the CSU, sister party of the CDU in Bavaria, has heavily criticized Merkel’s decisions, saying that after similar electoral results the only acceptable response is a policy change. At European level, the distance between an EU-leading Germany and other Member States once again questions the credibility and stability of the institution as well as the effectiveness of any agreement achieved with Turkey. As there are many European countries to have interests at stake, an EU response must take into account these different needs. And if Merkel wants to maintain her leadership, she cannot close her eyes on other countries’ positions.

 

Paola Fratantoni

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Paola Fratantoni
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