GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Paola Fratantoni - page 2

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Iran nuovamente sotto le sanzioni usa

MEDIO ORIENTE di

Mentre in Italia il 4 novembre ’18 si celebra  l’anniversario della vittoria della Prima Guerra Mondiale, negli Stati Uniti questa data segna la fine dei 180 giorni dall’annuncio del presidente Donald Trump del ritiro statunitense dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA),  trattato multilaterale concluso nel 2015 da Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Cina, Unione Europea e Russia, finalizzato a bloccare la possibilità di sviluppo da parte dell’Iran di un armamento nucleare.

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29° summit della Lega Araba – Leader uniti su Palestina e Iran

 

 

Si è concluso domenica scorsa il summit della Lega Araba, giunto alla sue 29esima edizione. L’incontro, tenutosi a Dharan (Arabia Saudita) ha visto riunirsi i 21 membri attivi della lega e personalità di spicco dello scenario internazionale, come l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, il presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki e il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Unico membro assente la Siria, sospesa dalla Lega nel novembre del 2011, quando iniziarono le rivolte nel paese ed in seguito alle azioni repressive condotte dal regime di Assad a danno della popolazione civile.

I vari paesi membri erano rappresentati dai capi di stato e di governo, ad eccezione del Qatar che, invece, ha inviato il proprio rappresentate presso la Lega Araba. Un gesto, questo, accolto non molto positivamente dal resto della comunità araba. Ricordiamo, infatti, che da parecchi mesi i rapporti della monarchia con i paesi arabi e mediorientali si sono fortemente incrinati, determinando una crisi diplomatica proprio tra vicini di casa. In particolare, lo scorso 5 giugno, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto hanno annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con il Qatar, accusando quest’ultimo di fornire supporto a gruppi estremisti e terroristi. L’invito del Qatar a partecipare al summit era arrivato insieme all’annuncio che la crisi diplomatica non sarebbe stata posta nell’agenda dell’evento. L’assenza dell’emiro del Qatar, è stata, dunque, percepita come un segno di arroganza, che ha gettato ulteriore benzina su un fuoco ancora molto ardente.

Il vertice si è concentrato maggiormente sui temi in agenda, mostrando come vi sia una notevole unità di pensiero tra i leader su temi d’importanza cruciale per il contesto arabo e mediorientale e gli equilibri tra la regione e gli attori esterni.

Tre i grandi temi trattati: la questione israelo-palestinese, la guerra in Yemen e la pericolosa influenza dell’Iran. Non sono, invece, stati messi in agenda, come accennato, né la crisi diplomatica con il Qatar né la guerra in Siria. Tuttavia, un comunicato stampa pubblicato dalla Lega Araba al termine del summit invoca la conduzione di “independent International investigation to guarantee the application of International law against anyone proven to have used chimical weapons”. Da notare, infatti, che il summit ha avuto inizio 24 ore dopo l’attacco di USA, Gran Bretagna e Francia sui alcuni siti militari siriani. Tale azione nasce in risposta ad un presunto attacco chimico condotto dal regime contro alcuni ribelli, attacco per altro negato dal presidente Bashar e l’alleato russo.

 

PALESTINA E ISRAELE

Riflettori puntati su Palestina ed Israele, tema che ha portato alla luce una posizione peculiare dei paesi arabi. Da un lato, la ferma opposizione alla decisione del presidente statunitense Donald Trump di spostare la sede dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo quest’ultima come capitale della nazione israeliana. Per un paese come gli Stati Uniti, che ha sempre giocato un ruolo di mediazione nel conflitto arabo-israeliano, un gesto simile viene visto dai leader mediorientali come uno spostare la propria posizione di neutralità verso quella di terza parte in causa, un passo decisamente significativo (e se vogliamo, pericoloso) in un contesto delicato come quello del Medio Oriente. Come sottolineato dal re Salman -che ha rinominato il vertice “Jerusalem summit” proprio per sottolineare la solidarietà verso il popolo palestinese- i leader arabi riconoscono il diritto del popolo palestinese di stabilire un proprio stato indipendente, con Gerusalemme come capitale. La stessa Gerusalemme Est appartiene, a loro opinione, ai territori palestinesi. In aggiunta, il re Salman ha annunciato la donazione di 150 milioni di dollari all’amministrazione religiosa che gestisce i siti religiosi musulmani a Gerusalemme, come la moschea Al-Aqsa e di altri 50 milioni per i programmi condotti dalle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente.

Dall’altro lato, invece, i leader arabi –ad eccezione del presidente Abbas- si sono espressi a favore del piano di pace proposto da Trump per il conflitto tra i due popoli. I dettagli di questo piano, tuttavia, non sono ancora stati resi noti, ma potrebbe prevedere una soluzione a due stati.

 

GUERRA IN YEMEN

Altro tema caldo è stato la guerra civile che da circa tre anni logora lo Yemen, e vede coinvolti (sul campo e a livello di interessi in gioco) diversi attori mediorientali accanto a potenze straniere come Russia e Stati Uniti. Il paese è teatro di scontri tra le forze fedeli al governo di Hadi, che di fatto ha perso il controllo di numerose porzioni del territorio nazionale, e i ribelli Houthi, alleati con l’ex presidente Saleh e supportati militarmente e finanziariamente dall’Iran. In campo, inoltre, una coalizione militare a guida saudita, che vede impegnati paesi occidentali (USA; Francia, GB) e alleati mediorientali, come gli Emirati Arabi.  Ancora una volta i leader arabi hanno riaffermato il loro supporto alla nazione e l’obiettivo di ripristinare l’unità, l’integrità, la sicurezza, la sovranità e l’indipendenza della nazione yemenita. La totale responsabilità attribuita ai ribelli Houthi, rimanda ad un altro tema centrale del summit: l’Iran e la politica aggressiva sul piano internazionale.

 

L’AGGRESSIVITÀ’ DELL’IRAN

Non sono mancate nel corso della giornata condanne alle politiche condotte all’estero dall’Iran, dettate da atteggiamenti aggressivi e perpetuate violazioni dei principi del diritto internazionale. Diretto riferimento al supporto ai ribelli Houthi in Yemen, ma anche al regime di Bashar al Assad in Siria. Chiaro il tentativo del re Salman di sfruttare il summit per allineare i paesi arabi contro lo storico rivale Iran. L’Iran, ad oggi, è visto come la principale causa di instabilità nella regione, “colpevole” di destinare le proprie risorse finanziarie e militari per alimentare guerre per procura in paesi dilaniati da anni di guerra civile, come appunto Siria e Yemen. In Siria, come detto, le milizie shiite iraniane supportano le forze governative di Assad, regime anche questo shiita. Similmente in Yemen, l’esperienza militare e le armi iraniane sostengono i ribelli Houthi, che hanno nel corso del conflitto conquistato diverse porzioni del territorio nazionale, compresa la capitale Sana’a. Non è mancata la risposta iraniana: il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano Bahram Qasemi ha, infatti, dichiarato che le accuse sollevate in occasione del summit sono solo il risultato della pressione esercitata dal suo più grande nemico, l’Arabia Saudita, paese ospite del summit.

 

Vediamo, quindi, come le acque nel Medio Oriente continuino ad essere piuttosto agitate. Sebbene si possa intravedere un’unità d’intenti in alcuni ambiti, i temi caldi sono ancora molti ma soprattutto manca allo stato attuale un vero e proprio “corse of action” per raggiungere gli obiettivi raggiunti. È auspicabile, dunque, che questo messaggio di allineamento dei paesi arabi si trasformi ora in un’azione pratica, che possa portare, step by step, a garantire una maggiore sicurezza e stabilità nella regione.

 

Paola Fratantoni

Saudi Arabia: first leg of Trump’s international trip

Policy/Politics di

Yesterday Donald Trump opened his first international trip as US President. The busy agenda includes The Vatican, Israel and Brussels, for a nine-day tour around Europe and the Middle East.  He chose Saudi Arabia for the inaugural meeting, a well-calculated choice that clearly marks the new administration’s approach toward one of the US historic and most strategic allies.

This international trip is a crucial political moment, especially for a newly elected president. Especially for a newly elected president that is already having political scandals back home. Indeed, it represents an excellent opportunity to meet several heads of states and government representatives all over the world, as well as a key moment to strengthen US alliances and to give a new breath to the nation posture in the international political arena.

The choice of Saudi Arabia as the first meeting is, therefore, a first quite unequivocal sign of the path President Trump wants to undertake. Saudi Arabia has always been one of the most important US allies in the region and the two countries share economic, political and strategic interests. Relations have been very close and friendly, showing a strong mutual understanding and the willingness to cooperate in several areas. However, under Obama’s administration, the happy marriage went through a very hard time, often referred by Saudi representatives as the worst in the US-Saudi history. Trump’s decision seems to be a smart move to show Saudi Arabia and the entire world the administration intention to go back to the strong and loyal relationship between the countries, after the challenging times of Mr Obama.

Several reasons stand behind this strategic choice, which can be read within the US-Saudi Arabia partnership’s framework, but also within the broader context of the US strategy in the Middle East.

Regarding US-Saudi relations, economic and security interests are the main issues on the table. Deals on weapons and defence systems are back on track after Obama stopped selling arms to the monarchy, worried about its possible influence –better said military support- in Yemen’s war (Saudi Arabia leads an international coalition supporting the government against the Houthi rebels). Trump seems not be sharing these concerns: the deals include, indeed, a Terminal High Altitude Area Defence (THAAD) missile defence system, a C2BMC software system for battle command and control and communications as well as a package of satellite capabilities, all provided by Lockheed. Under consideration also combat vehicles made by BAE Systems PLC, including the Bradley Fighting Vehicle and M109 artillery vehicle. Contrary to the previous administration, the US appears to be supporting a more interventionist Saudi role in the region. Along the commercial agreements, Washington and Riyadh are also enhancing best practices in maritime, aviation and border security.

Looking at the broader US strategy in the Middle East, the visit in Saudi Arabia makes even more sense.

Since taking office, fighting the Islamic State (ISIS) has been Trump’s top national security priority. As the president made clear, ISIS -and terrorism in general- is not a regional problem, but one that affects the all international community, harming, therefore, also US interests back home and abroad. Similar consideration for the security conditions in the Middle East, which are essential to protect US economic and strategic interests in the region. These reasons made Trump reconsidering the US role in the Middle East. If Obama tried to step back and put some distance between the US politics and Middle Eastern affairs, giving the impression that the American power was turning the back to its allies in the region, Mr Trump has clearly shown different intentions.

The US is to re-take its posture in the Middle East, perhaps that security guarantor role that used to play in the past, willing to bring safety and stability in the region and, therefore, at the global level. Hence, the strong position taken by Iran’s antagonist behaviour and the attempt to reassure the US allies in the Gulf can be easily related to this new approach.

So, what does that mean in terms of regional security and international political games?

–    With the US support in fighting terrorism, the Gulf monarchies will be able to strengthen their positions against the Islamic State and terrorist groups. ISIS and other terrorist groups, indeed, have been trying to destabilise the Gulf monarchies. On the one hand, they took advantages of religious minorities and social differences in the countries. On the other, they benefited from an inconsistent European strategy in the region and a US administration probably more focused on domestic authoritarian issues and human rights records in its ISIS-fight partners than on the actual final goal. Trump seems to be setting priorities and boundaries: ISIS and terrorism come first; democracy and authoritarian tendency are a domestic issue that the US does not have to deal with now. To fight ISIS we need stable countries: simple as that. As the Secretary of State Rex Tillerson said “When everything is a priority, nothing is a priority. We must continue to keep our focus on the most urgent matter at hand.”

–    A new challenging US-Iran relation. If Obama’s era will be remembered in all history books for the multilateral nuclear deal with the Islamic Republic, Trump administration will unlikely follow the same path. As initial steps, Trump tightened sanctions against Iran, thus sending the message that time had changed and Iran must better behave. Several press statements denounced Iran’s antagonistic behaviour and defined the country as a plague for the Middle East and US interests there. No surprise, then, if engagement and accommodation of Obama’s office will be replaced by confrontation and hostility, a move very welcomed by the Arab countries.

–    By signing new weapon deals with Saudi Arabia, the US indirectly supports the Saudi-led coalition in Yemen, a conflict that involves Iran too. The Islamic Republic, indeed, militarily support the Houthi rebels against the government. As mentioned above, Iran is considered a real threat to Middle East stability.

–    A stronger commitment to the Middle East stability cannot overlook the Israeli-Palestinian conflict. Trump is pursuing peace talks between Israel and Palestine to set a lasting agreement. The two-state solution has been a core pillar of US foreign policies for decades -an independent state of Palestine in West Bank and Gaza in return for Israel’s safety and security. However, Trump affirms to be also opened to a one-state solution, where Israel will be the only state and Palestinians will either become citizens of Israel or else live under permanent occupation without voting rights. As the president said, “I’m happy with the one they [Israelis and Palestinians] like the best”. Not easy to understand, though, how Palestinians could like the second one.

–    Trump’s visit to Saudi Arabia, a Muslim country but also the home of the most significant Islamic religious sites, can be read as a strategic move to achieve the role the US would like to play in the Middle East. With the implementation of the immigration policies in the States and several statements against the Muslims, President Trump has attracted severe criticisms, describing him and his policies as anti-Muslim. Not the best precondition for someone that aims at playing a greater security role in the region. Hence, visiting the Saudi monarchy shows that the US and Arab Muslims can actually form a partnership and cooperate on some issues.

–    At first glance, it is understandable to think that a more interventionist US role in the Middle East could upset Russia. On several capillary topics -such as Syria and Yemen- Russia and the US have quite divergent views and stand on the opposite sides of the fight. A US administration willing to play the police role in the region and -possibly- put feet on the ground is not exactly what the Kremlin would like to see. However, the scandal that has recently hit the White House- regarding Trump sharing highly classified information with the Russians-questions the real relationship between Washington and Moscow.

In conclusion, Trump’s meeting with Saudi Arabia’s leaders goes beyond the routine diplomatic visits, as it also entails powerful political messages to the Arab countries and the entire world. A new page for the US foreign policy that aims to bring the old glory and its leader role in the Middle East. It looks like the new administration is backed by a crispy and definite strategy; however, on some topics it seems like Trump is proceeding blindly, just reacting to whatever it happens. The question is: does he have a strategy in mind? The US is a very powerful nation and -willing or not- its actions have a substantial impact worldwide. Hopefully, there will be some still unrevealed aces in the hole: the last thing that the world would like to see is the US wandering around without knowing what to do. It is time to take sides, it is time to make decisions, and Trump seems to be quite confident in doing so. However, to be effective, those decisions need directions, need a strategy, a smart long term project aiming at a specific goal. Let’s hope the current US administration truly has one.

Paola Fratantoni

Arabia Saudita: prima tappa del viaggio di Trump

Donald Trump ha inaugurato ieri il suo primo viaggio internazionale come Presidente degli Stati Uniti. L’agenda prevende un tour di nove giorni in Europa e Medio Oriente, con visite al Vaticano, in Israele e a Bruxelles. L’Arabia Saudita è la prima tappa di questo viaggio, una scelta ben calcolata che mostra chiaramente l’approccio adottato dalla nuova amministrazione verso uno dei più storici e strategicamente importanti alleati degli Stati Uniti.

Il viaggio internazionale del Presidente è un impegno politico molto importante, soprattutto per un presidente neo-eletto. Soprattutto per un presidente neo-eletto che sta già avendo scandali politici nel proprio paese. Questo viaggio rappresenta un’ottima opportunità per incontrare molteplici capi di stato e rappresentanti di governo in tutto il mondo, nonché un’occasione chiave per rafforzare le alleanze del paese e dare nuovo respiro alla posizione degli USA nell’arena politica internazionale.

La scelta dell’Arabia Saudita come tappa inaugurale è, perciò, un segno abbastanza inequivocabile del percorso che il Presidente Trump desidera intraprendere. L’Arabia Saudita è sempre stata uno degli alleati statunitensi più importanti nella regione e i due paesi condividono interessi economici, politici e strategici. I loro rapporti sono stati solitamente molto stretti e amichevoli, mostrando un’intesa reciproca nonché la volontà di cooperare in diversi settori. Tuttavia, durante l’amministrazione Obama, questo matrimonio felice ha attraversato un periodo piuttosto difficile, spesso descritto dai rappresentanti sauditi come il peggiore nella storia delle relazioni tra i due paesi. La decisione di Trump sembra, quindi, essere una mossa intelligente per mostrare all’Arabia Saudita e al mondo interno l’intento della nuova amministrazione di ripristinare quel rapporto solido e leale tra le due nazioni, dopo i tempi critici di Obama.

Diverse motivazioni si celano dietro questa scelta, che possono essere lette sia nel quadro delle relazioni USA-Arabia Saudita, ma anche nel più ampio contesto della strategia statunitense in Medio Oriente.

Considerando i rapporti bilaterali, interessi economici e di sicurezza sono i temi più importanti in tavola. Si parla nuovamente di accordi economici per la vendita di armi e sistemi di difesa, interrotti in passato da Obama, preoccupato che la monarchia saudita potesse influenzare -o per meglio dire supportare militarmente in modo significativo- la guerra in Yemen (ricordiamo che l’Arabia Saudita è a guida di una coalizione internazionale a sostegno del governo yemenita contro i ribelli Houthi). Trump non sembra condividere le stesse preoccupazioni: proprio ieri è stato firmato un contratto del valore di 350 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni, 110 miliardi con effetto immediato. Tali accordi prevedono un sistema di difesa missilistica, il Terminal High Altitude Area Defence (THAAD), un software per i centri di comando, controllo e comunicazione, il C2BMC, nonché diversi satelliti, tutto fornito dalla Lockheed. È al vaglio anche la fornitura di veicoli da combattimento prodotti dalla BAE Systems PLC, incluso il Bradley e l’M109. Contrariamente alla precedente amministrazione, gli USA sembrano supportare un ruolo saudita più interventista nella regione. Accanto agli accordi commerciali, Washington e Riad intendono promuovere “best practices” nel settore della sicurezza marittima, aerea e ai confini.

 

Se guardiamo alla strategia statunitense in Medio Oriente, la visita in Arabia Saudita appare ancora più logica.

Sin dal suo insediamento, Trump ha definito la lotta contro lo Stato Islamico (ISIS) come la priorità numero uno per la sicurezza nazionale. Come il presidente ha reso ben chiaro, l’ISIS -e il terrorismo in genere- non è un problema unicamente regionale, bensì una piaga che colpisce l’intera comunità internazionale, andando, perciò, a danneggiare anche gli interessi statunitensi sia in patria che oltreoceano. Simili considerazioni emergono relativamente alle condizioni di sicurezza in Medio Oriente, essenziali per proteggere gli interessi economici e strategici della potenza americana nella regione. Questi motivi hanno portato Trump a riconsiderare il ruolo degli USA in Medio Oriente. Se Obama aveva fatto un passo indietro, cercando di mettere distanza tra la politica statunitense e gli affari mediorientali, dando così l’impressione che gli USA stessere voltando le spalle ai propri alleati nella regione, il Presidente Trump ha chiaramente mostrato intenzioni opposte.

Gli Stati Uniti intendono ripristinare la propria posizione nel Medio Oriente, forse mirando proprio a quel ruolo di garante della sicurezza che ha svolto per anni, con la missione di portare sicurezza e stabilità nella regione e, di conseguenza, a livello globale. La linea dura assunta con l’Iran e i tentativi di riassicurare gli alleati nel Golfo possono chiaramente essere letti in quest’ottica.

Ma cosa significa tutto ciò in termini di sicurezza regionale e di giochi politici internazionali?

  • Con l’appoggio degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo, le monarchie del Golfo possono rafforzare la propria posizione dinnanzi allo Stato Islamico e agi altri gruppi terroristici. Questi, infatti, hanno cercato nel tempo di destabilizzare tali monarchie. Da un lato, sfruttando le minoranze religiose e le differenze sociali interne ai paesi; dall’altro, beneficiando di una strategia europea inconsistente ed inefficace e di un’amministrazione americana più concentrata sui problemi di autoritarismo e sul mancato rispetto dei diritti umani all’interno di tali monarchie, piuttosto che sull’obiettivo finale della loro azione, ovvero la lotta all’ISIS. Trump sembra aver stabilito -e voler rispettare- priorità e confini: combattere l’ISIS e il terrorismo è l’obiettivo principale; democrazia e tendenze autoritarie sono problemi domestici dei quali gli Stati Uniti non devono necessariamente occuparsi ora. Per sconfiggere l’Islamic State servono paesi stabili, punto. Come lo stesso Segretario di Stato Rex Tillerson ha recentemente affermato “When everything is a priority, nothing is a priority. We must continue to keep our focus on the most urgent matter at hand.”
  • Un più arido rapport con l’Iran. Se l’amministrazione Obama verrà ricordata su tutti i libri di storia per l’accordo multilaterale sul nucleare stretto con la Repubblica Islamica, è abbastanza improbabile che quella Trump segua la stessa direzione. Come primo passo, Trump ha, infatti, intensificato le sanzioni contro l’Iran, mandando così un chiaro messaggio che i tempi sono cambiati e sarà bene che l’Iran si comporti a dovere. Diversi comunicati stampa hanno denunciato il comportamento ostile di Teheran, definendo il paese come una piaga per il Medio Oriente e per gli interessi statunitensi nella regione. Nessuna sorpresa, dunque, se l’atteggiamento di intesa e conciliazione di Obama lascerà il posto all’approccio duro e allo scontro, senz’altro ben accolto dai paesi arabi.
  • Firmando nuovi accordi per la fornitura di armi a Riad, gli Stati Uniti mostrano indirettamente di appoggiare la coalizione a guida saudita impegnata nella guerra in Yemen, un conflitto che coinvolge anche l’Iran. La Repubblica Islamica fornisce, infatti, supporto militare ai ribelli Houthi contro il governo yemenita. Come accennato sopra, l’Iran è considerato una minaccia reale per la stabilità del Medio Oriente.
  • Un impegno più consistente in Medio Oriente non può omettere il conflitto arabo-israeliano. Trump sostiene l’importanza di proseguire le trattative di pace tra Israele e Palestina nell’ottica di raggiungere un accordo stabile e duraturo. La soluzione a due stati-ovvero uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, in cambio della stabilità e la sicurezza di Israele- è stata la colonna portante della politica estera statunitense per decenni. Tuttavia, Trump si dichiara ora disponibile ad accettare anche un accordo diverso, dove Israele sarebbe l’unico stato indipendente e sovrano e i Palestinesi diventerebbero cittadini israeliani o sarebberro condannati ad una condizione di occupazione perenne senza godere del diritto di voto. “I’m happy with the one they [Israelis and Palestinians] like the best” ha affermato il Presidente. Difficile capire, tuttavia, come i Palestinesi possano mai accettare la seconda.
  • La visita di Trump in Arabia Saudita, non solo un paese musulmano ma anche la sede di alcuni tra i più simbolici siti religiosi islamici, può essere letta come una mossa strumentale per il ruolo che gli Stati Uniti mirano ad esercitare nel Medio Oriente. Con l’implementazione delle politiche immigratorie negli USA e diverse dichiarazioni contro i Musulmani, Trump ha attirato critiche molto severe, che descrivono il presidente e le sue politiche come anti-musulmane. Di certo non la miglior premessa per qualcuno che intende svolgere un maggior ruolo di garante della sicurezza nella regione. Iniziare il tour diplomatico nella monarchia saudita vuole mostrare come gli USA e gli arabi musulmani possano in realtà formare una parrtnership, cooperando in diverse aree.
  • A primo impatto, si può pensare che una politica americana più interventista nella regione possa in qualche modo infastidire la Russia. Su diversi argomenti-come Yemen e Siria- Russia e USA hanno visioni notoriamente divergenti e si posizionano ai fronti opposti dello scontro. Un’amministrazione americana desiderosa di assumere il ruolo di “poliziotto” nella regione e -magari- intervenire con forze militari on the ground non è esattamente ciò che il Cremlino vorrebbe vedere. Tuttavia, lo scandalo che ha recentemente colpito la Casa Bianca-relativo alla condivisioni di importanti informazioni classificate con i Russi- pone diverse domande su quali siano i reali rapporti tra Mosca e Washington.

 

In conclusione, l’incontro di Trump con i leader sauditi va al di là delle visite diplomatiche di routine, in quanto contiene anche un forte messaggio politico per i paesi arabi ed il mondo intero. Si apre una nuova pagina nella politica estera statunitense, che ha l’obiettivo di recuperare la gloria passata e la leadership nel Medio Oriente. Sembrerebbe che la nuova amministrazione abbia una strategia chiara e precisa alle spalle; ciò nonostante, su alcuni argomenti pare quasi che Trump stia procedendo un po’ “a tentoni”, reagendo giorno per giorno ai fatti che si verificano. Sorge, dunque, spontanea una domanda: Trump ha realmente una strategia? Gli Stati Uniti sono una nazione molto potente e -volenti o nolenti-le loro azioni hanno un impatto rilevante in tutto il mondo. Ci auguriamo che ci sia qualche asso nascosto nella manica: l’ultima cosa che il mondo vorrebbe vedere sono gli Stati Uniti vagare senza avere una chiara idea su cosa fare. È il momento di assumere una posizione, di prendere decisioni e Trump sembra abbastanza a suo agio nel farlo. Tuttavia, decisioni e azioni devono essere indirizzate: serve una strategia, un progetto a lungo termine che abbia un obiettivo ben specifico. Ci auguriamo che l’amministrazione americana ne abbia effettivamente una.

 

Paola Fratantoni

Saudi Arabia toward the economic diversification

Middle East - Africa/Politics di

In the past few weeks, Saudi Arabia has been at the centre of intense diplomatic activities, mainly directed to make significant economic deals. It is not a coincidence that some of the actors involved are the three biggest world economies: The United States, China and Japan. Indeed, while King Salman bin Abdulaziz Al Saud has taken a six-week trip in Asia, His Energy Minister Khalid-Al Falin headed for in Washington, to meet the US President Trump at the White House.

Such an intense effort goes beyond the normal diplomatic relations, especially given that the King’s visit in Japan has been the first visit to the country by a monarch of the Middle East oil-rich countries in the past fifty years. So, what is behind this busy agenda? First and foremost, oil. For decades, the vast availability of oil combined with the harsh regulations imposed by the monarchy -which did not encourage foreign companies entering Saudi markets-  have made oil the country’s one and only source of income.

However, the recent drop in oil price has been worrying the oil-rich monarchy. IMF projection for Saudi economic growth is not more encouraging, sharply foreseeing a drop from 2% to 0.4% this year. Hence, Saudi Arabia is exploring alternative economic paths, which include attracting foreign capitals and developing other industrial sectors. The short-term strategy, indeed, sets investments and infrastructure maintenance, especially electricity and transport networks, as first priorities. In a long-term perspective, “Vision 2030” expresses goals and expectations of the nation, based on three strong pillars: leading role in the Arab and Islamic word, become a global investment powerhouse and become a global hub, thus connecting Asia, Africa and Europe.

Having said that, Saudi effort to diversify its economy is more understandable. However, it is important to analyse also the political implications that these visits and commercial agreements may have.

Let’s start with Japan, the first trip of King Salman. As mentioned above, the Saudi King arrival in the Asian island is not an ordinary event, though the Kingdom is the largest provider of oil export and the two countries have friendly relationships. But this time King Salman has decided to travel all the way to the East and meet the Japanese Prime Minister Shinzo Abe. The two leaders, then, agreed and signed the “Saudi-Japan Vision 2030”, a governmental project that aims to enhance the cooperation between the two countries.

By developing this project, Saudi Arabia and Japan will become equal strategic partners and Japanese companies will be given a designated zone in Saudi Arabia to allow fluid entry into the country, thus facilitating the economic partnership. The developmental projects outlined in the document include both government-related and private sector ones.

Notable names emerge with the private projects. Toyota is opting to produce cars and components in Saudi Arabia; Toyobo will cooperate in technological developments of desalination plants and several banks -i.e. Mitsubishi Tokyo UFJ Bank- will be promoting investments in the Kingdom, while Softbank Group is planning to create investment funds worth 25$ billion for technological investments.

Therefore, Japan raises as a key actor to diversify Saudi Arabian economy. However, there are also political reasons behind this stronger partnership. The Japanese government is trying to contribute to Saudi Arabia political and economic stability, which is a fundamental factor to maintain the stability in the region. The competition between Saudi Arabia and Iran for the leadership in the Middle East has been deteriorating security and stability in the area for a long time. Japan has friendly relations with both countries and welcomes a productive dialogue between the two powers. Helping Saudi Arabia to strengthen its economy is indeed essential to maintain some balance between the two nations, also given that the relationship with the US -traditional ally and a core pillar of Saudi foreign policy- has recently gone through a hard time.

Moving forward, or better said westwards, King Salman reached China, the world’s second-largest oil consumer as well as the third largest economy. Similarly, as for Japan, the Sunni monarchy is the primary source of China’s energy demand. The two countries have sharply deepened their relationship by signing up to 65$ billion economic and trade deals. Within this framework, the countries are promoting manufacturing and energy sectors, included downstream oil opportunities. Moreover, the deals include a Memorandum of Understanding (MoU) between the oil firm Saudi Aramco and China North Industries Group Corp (Norinco) to look into the construction of refining and chemical plants in China. Meanwhile, Sinopec and Saudi Basic Industries Corp (SABIC) agreed upon the development of petrochemical projects both in China and Saudi Arabia.

The stronger economic relationship comes as mutually beneficial for the countries. On the one hand, Saudi Arabia may see new trade opportunities in sectors other than oil, while confirming his position as key energy partner for China; on the other, China can benefit from further Saudi investments in its markets but also for the kingdom’s strategic location in the Middle East. Indeed, Saudi political, religious and economic influence in the region is a key factor for the Chinese “One belt, one road” initiative, that aims to build connectivity and cooperation between Eurasia and China.

However, Saudi Arabia also has its strategic advantages. From a security perspective, Saudi Arabia has always strongly relied on the US and its military presence in the Gulf. However, under Obama’s administration concerns and disappointments arose, as the US failed to show a firm determination in dealing with Iranian attempts to further develop its nuclear capabilities, thus jeopardising the stability of the region. In the past, China has refrained from interfering in the Middle East issues, trying to keep a neutral position between the two rivals, Saudi Arabia and Iran and stressing the importance of close consultation. Some changes occurred, though.

In 2016, China backed Bashar al-Assad, offering its military cooperation and supported Yemen’s government against the Iran-backed Houthi rebels (A Saudi-led military coalition supports Yemen’s government). Lastly, the Chinese government signed an agreement to set the first factory for Chinese hunter-killer aerial drones in Saudi Arabia, first in the Middle East.

Is China going to replace the US in the Middle East? Perhaps it is still too early to make such an assumption, especially given the new development in Syria. However, it seems that China may and would like to play a more influential role in promoting security and stability in the region, having all the means (military and economic) to do it.

And here comes the third core piece of this puzzle: The United States. As mentioned above, Obama administration has seriously challenged the relationship between the West power and the Saudi monarchy. The major issue was the multilateral nuclear deal signed with Iran, which allowed Iran to sell its vast oil supplies more freely and solicit investment in its energy industry, increasing competition with top oil exporter Saudi Arabia. However, the new presidency has made clear its approach toward Iran, by immediately imposing additional sanctions on entities involved in the nuclear program.

Saudi Arabia visit to Washington seems to open a new phase in US-Saudi relations. While the King was busy in Asia, Saudi Energy Minister Khalid Al-Falih and the Deputy Crowne Prince Mohammed bin Salman met President Donald Trump at the White House. As Saudi minister pointed out, US-Saudi relationship is one of the most central to global stability and now seems to be better than ever. Indeed, the two countries again align on all the major issues, such as confronting Iranian aggression and fighting ISIS, but also enjoy the benefit of a closer personal bond between his royal highness, the Deputy Crown Prince and President Trump.

At the economic level, new investment programs are focused on energy, industry, infrastructure and technology. According to the Financial Times, Saudi Arabia is interested in investing up to $200 billion in US infrastructure, which is a core pillar of Trump’s agenda. As Falih explains, “The infrastructure program of President Trump and his administration is something that we’re interested in because it broadens our portfolio and it opens a new channel for secure, low-risk yet healthy return investments that we seek”.

These are only some of the economic negotiations and deals that Saudi Arabia is currently conducting, but they help to understand the new economic course of the country. They represent, indeed, a “Plan B” against the drop of oil revenue and the chance to reinforce and diversify the economic capabilities of the country, which can rely on resources other than oil, such as phosphate, gold, uranium and other minerals. Developing new sectors will also attract foreign investments and create new job opportunities for a young and ambitious local population.

One of the risks of such a massive network of economic deals is the reaction that other partners may have to commitments taken with other countries. As known, commercial arrangements have political consequences and impacts. Therefore, one of the main challenges for Saudi leaders will be to pursue its economic goals, while balancing its position toward all his major allies and friend nations, especially when some of its partners are not the best friends ever.

An obvious example is China. Despite years of lack of interest for Middle East issues, China is now trying to play a bigger role in the region, as the support in Yemen and Syria but also the Chinese warship tour in the Arab Gulf (January 2017) prove. Saudi Arabia welcomes this kind of assistance, as it can help to reduce Iran’s influence in the region. However, it is important not to upset a key and historical ally, the United States. As the new administration has shown a different approach toward the main regional issues -Syria and Iran- it might be a strategic mistake to bond too closely to the new player. Indeed, this might give the impression that a new guarantor of security in the Middle East has replaced the United States, a change that President Trump may not be entirely happy with.

In conclusion, the diversification of Saudi Arabia’s economy is a smart and necessary move to make. However, it goes beyond the economic sphere, as it also shapes Saudi political posture, as a regional power but also among the biggest foreign nations involved in the Middle East political struggle. It appears that the country is trying to bond closer ties with all those powers that have more interests -but also economic and military capabilities- influencing the stability and security of the region, thus trying to get the strongest support possible against its main rival, Iran. China and USA are on the spot but do not forget Russia, which has developed bilateral ties with Saudi Arabia in the past few years and has strong political and strategic interests in the Middle East. Lastly, a key factor will be the development of the Syrian war, especially after the US Tomahawk missile strike on an air base in Syria, very well welcomed by Riyadh.

It is likely that the future economic strategy of the Kingdom will follow the political and strategic needs of the country, confirming once again the strong interrelation between economic and political dimensions, but also the importance of a robust and independent economy to maintain an influential and leading role in the region.

 

Paola Fratantoni

Arabia Saudita: verso la diversificazione economica

SA

 

Nelle scorse settimane, l’Arabia Saudita è stata al centro di intense trattative diplomatiche, rivolte prevalentemente a stringere importanti accordi economici per il paese. Non è una coincidenza, infatti, che alcuni degli attori coinvolti in queste trattative siano proprio le tre più forti economie mondiali: Stati Uniti, Cina e Giappone. Infatti, mentre Re Salman bin Abdulaziz Al Saud ha intrapreso un viaggio di sei settimane in Asia, il suo Ministro dell’Energia Khalid Al-Falih si è recato a Washington, dove ha incontrato il Presidente americano Donald Trump.

Una così intensa attività va al di là delle normali “routine” diplomatiche, soprattutto se si considera che la visita del monarca saudita in Giappone rappresenta la prima visita di un sovrano del Medio Oriente negli ultimi cinquant’anni. Cosa si cela, perciò, dietro questa agenda ricca di appuntamenti? Sicuramente il petrolio. Per decenni, la vasta disponibilità di petrolio unita alle rigide regolamentazioni imposte dalla monarchia saudita -che hanno ripetutamente scoraggiato gli investimenti stranieri nei mercati del regno- hanno fatto del petrolio l’unica e sola fonte di entrate del regno.

Tuttavia, il recente crollo del prezzo del petrolio ha preoccupato Riad. E le previsioni del Fondo Monetario Internazionale non hanno rincuorato particolarmente: si prevede, infatti, un calo della crescita economica della monarchia dal 4% allo 0,4% nel corso del anno corrente. Di conseguenza, l’Arabia Saudita sta esplorando nuovi sentieri economici, non ultimo attirare capitali stranieri e sviluppare diversi settori industriali. La strategia di breve termine prevede, infatti, investimenti e sviluppo delle infrastrutture, in particolare elettricità e trasporti. Nel lungo termine, invece, il progetto “Vision 2030” presenta obiettivi e aspettative basati su tre pilastri principali: mantenere un ruolo di leadership nel mondo arabo e musulmano, diventare un centro di investimenti a livello globale e un ponte di collegamento tra Asia, Europa e Africa.

Date queste premesse, diventa più comprensibile l’intenso sforzo condotto dalla monarchia saudita per diversificare la propria economia. Tuttavia, è bene analizzare anche le implicazioni politiche che tali visite diplomatiche e accordi commerciali possono avere.

Iniziamo dal Giappone, la prima tappa di re Salman. Come accennato prima, l’arrivo del re saudita nell’isola giapponese non è un evento così frequente, malgrado i paesi godano di buoni rapporti e la monarchia saudita sia il maggiore fornitore di petrolio del paese. Questa volta re Salman ha, però, deciso di recarsi personalmente a Tokyo, dove ha incontrato il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe. I due leader hanno, così, firmato l’accordo “Saudi-Japan Vision 2030”, un progetto governativo che mira a rafforzare la cooperazione economica tra i due paesi.

L’implementazione del progetto porterà Arabia Saudita e Giappone ad essere partner strategici eguali, e assicurerà alle compagnie nipponiche una zona economica protetta nel regno saudita, in modo da facilitare i flussi in entrata nel regno e le partnership commerciali. I progetti di sviluppo presentati nel documento sono legati sia al settore pubblico che privato.

Quest’ultimo vede coinvolti nomi importanti. Toyota sta valutando la possibilità di produrre automobili e componenti meccaniche in Arabia Saudita; Toyobo, invece, collaborerà nello sviluppo di tecnologie per la desalinizzazione delle acque. Diverse banche -tra cui la Mitsubishi Tokyo UFJ Bank- promuoveranno investimenti nel regno, mentre il Softbank Group prevede la creazione di un fondo di investimenti nel settore tecnologico del valore di 25 miliardi di dollari.

Il Giappone si pone, dunque, come attore chiave per la diversificazione economica della monarchia saudita. Tuttavia, a supportare queste più intense relazioni tra i due paesi vi sono anche motivazioni politiche. Il governo nipponico cerca, infatti, di sostenere la stabilità economica e politica dell’Arabia Saudita, in quanto fattore chiave per mantenere la stabilità nella regione. La competizione tra Arabia Saudita ed Iran per la leadership nel Medio Oriente sta deteriorando la sicurezza e la stabilità della regione ormai da decenni. Il Giappone possiede relazioni amichevoli con entrambi i paesi e invita gli stessi ad intraprendere un dialogo produttivo che possa portare ad una pacifica soluzione delle loro controversie. Aiutare l’Arabia Saudita a rafforzare la propria economia, specialmente in un momento così critico per il mercato dell’oro nero, è essenziale al fine di mantenere una sorta di equilibrio tra le due potenze mediorientali, considerando, inoltre, come i rapporti con gli Stati Uniti -storico alleato e colonna portante della politica estera saudita- abbiano recentemente attraversato un periodo piuttosto difficile.

Proseguendo verso ovest, re Salman ha raggiunto la Cina, com’è noto secondo maggior importatore del petrolio saudita e terza maggiore economia mondiale. Come per il Giappone, la monarchia saudita è la fonte primaria per il fabbisogno energetico della Repubblica. Le due nazioni hanno ampliamente rafforzato i propri rapporti firmando accordi economici e commerciali per un valore di circa 65 miliardi di dollari. All’interno di questa partnership troviamo investimenti nei settori manifatturiero ed energetico, nonché nelle attività petrolifere. Inoltre, tali accordi includono anche un Memorandum of Understanding (MoU) tra la compagnia petrolifera Saudi Aramco e la Cina North Industries Group Corp (Norinco) per quanto riguarda la costruzione di impianti chimici e di raffinazione in Cina. Sinopec e Saudi Basic Industries Corp (SABIC) hanno stretto un accordo per lo sviluppo dell’industria petrolchimica sia in Arabia Saudita che in Cina.

Bisogna sottolineare che una più stretta relazione economica tra la monarchia saudita e la Cina giochi a beneficio di entrambi i paesi. Da un lato, infatti, l’Arabia Saudita può intravedere nuove opportunità di commercio in settori diversi da quello petrolifero, pur confermando il suo ruolo di maggior partner energetico della Cina; dall’altro lato, il mercato cinese può godere degli ulteriori investimenti arabi, nonché della posizione strategica dell’Arabia Saudita nel Medio Oriente. Infatti, l’influenza politica, religiosa ed economica della monarchia saudita nel mondo arabo è fattore fondamentale per l’iniziativa cinese “One belt, one road”, che mira a rafforzare la cooperazione tra Eurasia e Cina.

Anche l’Arabia Saudita, però, ottiene i vantaggi strategici desiderati. Limitatamente alla sua sicurezza nazionale, la monarchia ha sempre fatto un forte affidamento sull’alleanza con la potenza americana e la presenza militare di questa nel Golfo. Tuttavia, durante l’amministrazione Obama, i rapporti tra i due paesi si sono progressivamente incrinati. Motivo principale la mancanza -ad occhi di Riad- di determinazione nel gestire i tentativi dell’Iran di potenziare le proprie capacità nucleari, mettendo, così, ulteriormente a rischio la stabilità della regione. In passato la Cina ha sempre evitato di interferire nelle dinamiche mediorientali, cercando di mantenere una posizione neutrale tra i due rivali -Arabia Saudita e Iran- e sottolineando la necessità di un dialogo tra questi. Tuttavia, ci sono stati alcuni cambiamenti.

Nel 2016, la Cina ha offerto la propria cooperazione militare al regime di Bashar al-Assad e supportato il governo yemenita contro i ribelli Houthi, sostenuti a loro volta dall’Iran (l’Arabia Saudita è, inoltre, a guida di una coalizione militare a favore del governo). Infine, il governo cinese ha recentemente firmato un accordo per la creazione di una fabbrica di droni “hunter-killer” (cacciatore-assassino) in Arabia Saudita, tra l’altro la prima in Medio Oriente.

Vedremo, dunque, progressivamente la Cina rimpiazzare gli Stati Uniti in Medio Oriente? Ancora presto per dirlo, soprattutto dati gli ultimi avvenimenti in Siria. In ogni caso, sembra evidente che Pechino abbia tutto l’interesse ad assumere un ruolo preponderante nella promozione della sicurezza e della stabilità della regione, forte delle capacità militari ed economiche che consentono di poterlo fare.

E giungiamo dunque, all’ultimo grande pezzo di questo puzzle: gli Stati Uniti. Come citato precedentemente, l’amministrazione Obama ha messo a dura prova i rapporti tra la potenza occidentale e la monarchia saudita. Il nodo centrale delle tensioni riguarda la firma con l’Iran dell’accordo multilaterale sul nucleare, che consente alla Repubblica Islamica di vendere petrolio potendo controllarne più liberamente il prezzo, nonché di attirare investimenti nel settore energetico, alimentando, così, la competizione con il maggiore esportatore, ovvero l’Arabia Saudita. È vero, altresì, che la nuova presidenza ha mostrato da subito un approccio piuttosto diverso verso l’Iran, imponendo immediatamente sanzioni contro alcune entità coinvolte nel programma nucleare.

La visita del ministro saudita a Washington sembra, infatti, aprire una nuova fase nei rapporti USA-Arabia Saudita. Il Ministro dell’Energia Khalid Al’Falih e il vice principe ereditario Mohammed bin Salman hanno incontrato il Presidente Trump alla Casa Bianca. Come ribadito dal ministro saudita, le relazioni tra USA e la monarchia sono essenziali per la stabilità a livello globale, e sembrano ora ad un ottimo livello, come mai raggiunto in passato. Infatti, i due paesi sono allineati sui temi di maggiore importanza, come affrontare l’aggressione iraniana e combattere l’ISIS, ma godono, inoltre, dei benefici derivanti dai buoni rapporti personali che intercorrono tra il presidente e il vice principe ereditario.

A livello economico, si prospettano nuovi investimenti nel settore energetico, industriale, tecnologico e delle infrastrutture. Secondo quanto riportato dal Financial Times, l’Arabia Saudita sarebbe pronta ad investire fino a 200 miliardi di dollari nell’infrastruttura americana, pilastro fondamentale dell’agenda politica di Trump. “Il programma infrastrutturale di Trump e della sua amministrazione-spiega Falih- ci interessa molto, in quanto allarga il nostro portfolio di attività e apre nuovi canali per investimenti sicuri, a basso rischio ma con un cospicuo ritorno economico, esattamente ciò che stiamo cercando”.

 

Queste sono soltanto alcuni degli accordi e trattative commerciali che l’Arabia Saudita sta al momento conducendo, ma aiutano a capire il nuovo corso economico del paese. Tali accordi rappresentano, infatti, un “piano B” contro il crollo del reddito derivante dal petrolio, nonché la possibilità di rafforzare e diversificare le capacità economiche del paese, che può contare non solo sul greggio, ma anche su altre risorse, tra cui il fosfato, l’oro, l’uranio ed altri minerali. Sviluppare nuovi settori permette, inoltre, di attirare investimenti stranieri e di creare opportunità di lavoro per la popolazione locale giovane ed ambiziosa.

Uno dei maggiori rischi di un così vasto network di trattative economiche è chiaramente la reazione che i diversi partner posso avere in relazione ad accordi stipulati con altri paesi. È risaputo che gli accordi commerciali abbiano ripercussioni anche a livello politico. Di conseguenza, una delle maggiori sfide per i leader sauditi consiste proprio nel perseguire i propri obiettivi in campo economico, cercando, tuttavia, di mantenere una posizione di equilibrio nei rapporti con i suoi alleati e nazioni amiche, soprattutto lì dove alcuni di questi partner non godono di relazioni troppo amichevoli.

Un chiaro esempio è la Cina. Nonostante il decennale mancato interesse per le questioni mediorientali, la Cina si pone ora come attore chiave nella regione, come mostra il supporto offerto in Yemen e Siria, ma anche il tour condotto da una nave da guerra cinese nelle acque del Golfo (gennaio 2017). Ovviamente, l’Arabia Saudita accoglie in modo positivo un tale supporto, in quanto può aiutare a contenere l’influenza dell’Iran. È, tuttavia, importante non creare attriti con lo storico alleato USA. La nuova amministrazione ha mostrato, infatti, un approccio totalmente opposto ai problemi della regione -Siria ed Iran- e potrebbe essere un grave errore strategico avvicinarsi eccessivamente ad un nuovo alleato. Un simile atteggiamento potrebbe dare l’impressione che un nuovo garante della sicurezza della regione abbia rimpiazzato gli Stati Uniti, un cambiamento che il Presidente Trump potrebbe non accettare facilmente.

 

In conclusione, la diversificazione dell’economia saudita è senza dubbio una mossa intelligente e necessaria. Tuttavia, essa si proietta al di là della mera sfera economica, andando a definire la posizione politica della nazione, come potenza regionale ma anche nei suoi rapporti con gli altri attori stranieri coinvolti nelle vicende politiche del Medio Oriente. Sembra che Riad stia cercando di stringere i legami proprio con quei paesi che hanno maggiore interesse -ma anche capacità economiche e militari- a contribuire alla stabilità regionale, cercando, altresì, di ottenere da questi il maggior supporto possibile contro il nemico numero uno, l’Iran. Cina e Stati Uniti sono in primo piano, ma non bisogna dimenticare la Russia, che negli ultimi anni ha ampliamente sviluppato i suoi rapporti con l’Arabia Saudita e possiede, inoltre, forti interessi politici e strategici in Medio Oriente Da monitorare, infine, lo sviluppo della guerra in Siria, soprattutto dopo il lancio del missile americano Tomahawk sulla base aerea siriana, particolarmente gradito da Riad.

È probabile che la futura strategia economica del Regno seguirà le necessità politiche e strategiche del paese, confermando ancora una volta la forte correlazione tra la dimensione economica e politica, ma anche l’importanza che un’economia forte ed indipendente ha nel mantenere un ruolo leader nella regione.

 

Paola Fratantoni

Indagini CAR svelano traffico di armi tra Iran e Yemen

Medio oriente – Africa di

Secondo il rapporto pubblicato il 29 novembre scorso dal Conflict Armament Research (CAR), istituto di ricerca britannico finanziato prevalentemente dall’Unione Europea, risulta evidente il ruolo dell’Iran nell’approvvigionamento di armi ai ribelli Houthi in Yemen. L’analisi si basa sulla confisca di armi da imbarcazioni in transito nel mare arabico condotta nei mesi di febbraio e marzo dalla nave da guerra australiana HMAS Darwin e dalla fregata francese FS Provence, entrambe parte della Joint International Task Force operativa nel Corno d’Africa in azione antiterroristica e antipirateria. La task force agisce indipendentemente e separatamente dalla coalizione militare a guida saudita operativa nelle stesse acque.

Secondo i dati riportati, la HMAS Darwin avrebbe sequestrato più di 2.000 armi, tra cui mitragliatrici modello AK e 100 lanciarazzi di fabbricazione iraniana da un sambuco diretto verso la Somalia. I sequestri della fregata francese includono altri 2.000 mitragliatori, anche questi con caratteristiche tipiche della produzione iraniana e 64 fucili di precisione Hoshdar-M, made in Iran. Sono stati rinvenuti, inoltre, nove missili guidati anticarro Kornet, di produzione russa. Un ulteriore Kornet intercettato in Yemen dalle forze della coalizione saudita apparterrebbe alla stessa serie di produzione di quelli confiscati dalla FS Provence.

Il rapporto cita, inoltre, il sequestro da parte della USS Sirocco -guardacoste della marina militare statunitense- di mitragliatrici AK, lanciarazzi e mitra a bordo di un altro sambuco in transito nella regione. A detta statunitense, le armi proverrebbero dall’Iran e sarebbero destinate allo Yemen. Tuttavia, ad oggi, gli Stati Uniti non hanno condiviso informazioni aggiuntive con il CAR.

Gli armamenti confiscati a bordo sembrerebbero coincidere con quelli sequestrati ai ribelli Houthi in Yemen. Incrociando numeri di serie e modello delle armi, il CAR ha sottolineato tre conclusioni principali riguardo l’origine delle stesse.

In primis, i lanciamissili RPG di produzione iraniana -facilmente identificabili dal colore verde olivastro delle componenti, la forma cilindrica dell’impugnatura posteriore e il numero di serie giallo – sono stati ritrovati a bordo di numerosi vasselli, tra cui quelli intercettati dalla HMAS Darwin e dalla Sirocco. Secondariamente, i fucili di precisione potrebbero provenire dalle riserve iraniane. Infatti, un così significativo numero di armi con numeri in sequenza fa pensare ad uno stock proveniente dalle riserve nazionali più che da molteplici fonti non statali. Infine, l’Iran potrebbe aver fornito missili guidati anticarro sia di produzione propria che russa.

Considerando la quantità di armi ritrovate a bordo, molte delle quali di provenienza iraniana, gli investigatori parlano, dunque, dell’esistenza di una “pipeline” tra Iran e Yemen. I carichi di armi sarebbero inizialmente destinati ai mercati locali di armi della Somalia (nella regione settentrionale del Puntland) per poi continuare il tragitto verso lo Yemen, dove andrebbero ad armare i ribelli Houthi, in lotta da ormai 20 mesi contro il governo internazionalmente riconosciuto del Presidente Hadi.

Il coinvolgimento dell’Iran in un simile traffico rappresenta -sostiene il CAR- una grave violazione dell’embargo posto dalle Nazioni Unite sul trasferimento di armi ai ribelli. In particolar modo le risoluzioni del CdS (Consiglio di Sicurezza) n° 2140 (febbraio 2014), n° 2216 (aprile 2015), e n° 2266 (febbraio 2016), che invitano i paesi membri ad adottare tutte le misure necessarie per prevenire questo tipo di trasferimenti.

Non sarebbe il primo episodio di violazione delle direttive del CdS da parte della Repubblica Islamica. Il 23 gennaio 2013, infatti, la USS Farragut intercetta un carico di missili Katyusha da 122 mm, sistemi radar, missili antiaereo cinesi QW-1M, and 2.6 tonnellate di esplosivo RDX a bordo della nave Jihan 1, al largo delle coste yemenita. L’episodio violava l’allora più restrittiva UNSCR 1747 (2007), secondo la quale “Iran shall not supply, sell, or transfer directly or indirectly from its territory or by its nationals or using its flag vessels or aircraft any arms or related materiel.”

Come già avvenuto in passato, l’Iran ha nuovamente negato il proprio coinvolgimento in queste attività, sottolineando come il proprio sostegno ai ribelli Houthi sia meramente di natura politico-diplomatica.

Tuttavia, fonti di diversi porti somali confermano che le armi arrivano da grandi imbarcazioni provenienti dall’Iran che o giungono fino al molo o ancorano a largo delle coste, dove vengono raggiunte da barche più piccole che trasportano, poi, parte del carico illecito ad altri porti della regione. Il resto prosegue verso lo Yemen, in particolare il porto di Ash Shihr, a est di Mukalla, dove si camuffano nell’intenso traffico marittimo che caratterizza quest’area. Ulteriore elemento a sostegno delle ipotesi del CAR è la natura stessa delle armi ritrovate, poco comuni nel mercato di armi somalo.

In conclusione, pare evidente il sostegno anche militare dell’Iran ai ribelli Houthi, nonostante i diversi appelli e avvertimenti ricevuti sia in sede ONU che in altri forum regionali. Continueranno le operazioni di pattugliamento nelle acque del Corno d’Africa con lo scopo di ostacolare l’approvvigionamento di armi ai ribelli, alimentando ulteriormente la già critica situazione in Yemen. Sarebbe, tuttavia, auspicabile per il futuro un maggior coordinamento e una più intensa condivisione delle informazioni da parte dei vari attori operativi in campo, in modo da poter avere una visione più completa dei traffici iraniani e poter così rispondere in modo più efficace alla minaccia che gli stessi rappresentano per la stabilità della regione.

 

Paola Fratantoni

CAR investigation shows a “weapons pipeline” from Iran to Yemen

Middle East - Africa di

On November 29, the Conflict Armament Research (CAR), British-based research centre primarily funded by the European Union, released a report showing evidence of Iran’s involvement in the smuggling of weapons to the Houthis rebels in Yemen. The analysis is based on the seizure in February and March of weapons from dhows sailing in the Arabian Sea by the Australian warship HMAS Darwin and the French frigate FS Provence, both part of the Joint International Task Force operating in the Horn of Africa in counter-terrorism and counter-piracy activities. This Task Force works independently and separately from the Saudi-led military coalition operating in the same area.

According to the report, HMAS Darwin seized more than 2,000 weapons, including AK-type assault rifles and 100 Iran-made rocket launchers from the dhow directed to Somalia. The seizure by the French frigate includes other 2,000 assault rifles, with those typical features of the Iranian production and 64 Iran-manufactured Hoshdar-M sniper rifles. In addition, nine Russian-made Kornet anti-tank guided missiles were found on board. An additional Kornet seized by forces within the Saudi coalition in Yemen seems to be part of the same production run as those seized by FS Provence.

The report mentions also the seizure by USS Sirocco – US Navy patrol boat- of AK assault rifles, rocket launchers and machine guns from a dhow transiting in the region. The US Navy believed these weapons to come from Iran and be destined to Yemen. To date, however, no additional information has been shared by the US with CAR.

Weapons seized on board seem to match with those seized from the Houthi rebels in Yemen. Crossing serial numbers and weapons model, CAR has drawn three main conclusions about their origin.

First, the Iranian-produced RPG missile launchers -easily identifiable by the olive green color furniture, the cylindrical rear firing grip, and the yellow serial number – were found on several vessels, including those intercepted by HMAS Darwin and Sirocco. Secondly, sniper rifles could come from Iranian stocks. In fact, such a significant number of weapons sequentially numbered suggests the weapons come from a national stockpile rather than from multiple non-state sources. Finally, Iran may have provided anti-tank guided missiles both of own and Russian production.

Given the number of weapons found on board, most of them manufactured in Iran, investigators talk about the existence of a weapons pipeline from Iran to Yemen. Weapons would initially reach Somalia (in the northern region of Puntland) for local weapons markets and then continue the journey towards Yemen, to arming the Houthi rebels, who have been fighting for the past 20 months against the internationally recognized government of President Hadi.

According to CAR, Iran’s involvement in this kind of traffic is a serious violation of the embargo placed by the United Nations on the arms transfer to rebels. In particular, UN Security Council Resolutions No. 2140 (February 2014), No. 2216 (April 2015), and No. 2266 (February 2016), calling on member states to take all necessary measures to prevent this type of transfers. It would not be the first episode of violation of UN Resolutions by the Islamic Republic.

On 23 January 2013, in fact, the USS Farragut intercepts a shipment of 122-mm Katyusha missiles, radar systems, Chinese QW-1M anti-aircraft missiles, and 2.6 tons of RDX explosives on the ship Jihan 1, off the Yemeni coast. The episode violated the stricter UNSCR 1747 (2007), according to which “Iran Shall not supply, sell, or transfer directly or Indirectly from its territory or by its nationals or using its flag vessels or aircraft any arms or related materiel”.

As in the past, Iran has denied its involvement in these activities, highlighting that its support for the Houthi rebels is only political and diplomatic. However, sources from different Somali ports confirm that the weapons arrive from Iran on large vessels that either come into dock or anchor off the coast, where they are reached by smaller boats, then carrying part of the illicit cargo to other ports in the region. The rest goes to Yemen, in particular to the port of Ash Shihr, east of Mukalla, where they camouflage in the intense maritime traffic that characterizes this area. Further evidence is the very nature of those weapons, uncommon in the Somali arms market.

In conclusion, Iran’s military support for the Houthi rebels is quite evident, despite several warnings received both at the UN and in other regional forums. Patrolling in the waters of the Horn of Africa will continue in order to prevent the supply of arms to the rebels, further fueling the already critical situation in Yemen. However, it would be advisable a future closer coordination and enhanced information sharing among the various actors operating in the field, so they could have a comprehensive picture of Iran’s traffic and be able to tackle more effectively the threat they represent for the stability of the region.

 

Paola Fratantoni

 

Yemen: the forgotten crisis

Middle East - Africa/Politics di

The 48-hour cease-fire in place from November 19 to 21 between the Al Houthis and forces loyal to President Hadi in Yemen has failed. Since the beginning of the truce, violations have been committed by both sides, thus an extension resulting impossible. Similarly, the ceasefire scheduled for the night of 17 November did not take place, following the clashes occurred in the city of Taiz, which had killed more than twenty people.

If the end of hostilities on the ground is still a dream, it is even more unlikely for a political settlement -which should end a conflict that has affected the country for 20 months- to be set in the near term. In the past few weeks, negotiations and meetings have taken place between the US Secretary of State John Kerry, the special UN envoy Ismail Ould Cheikh Ahmed and mediating countries such as Oman in order to deal with the conflicting parties and to draw up an acceptable plan to restore stability and security in the country.

Several proposals have been rejected, including the last one presented by Kerry, according to which President Hadi would relinquish his power to a new vice president in return for the Al Houthis withdrawal from all major cities and the handover of their weapons to third neutral parties.

To date, indeed, no agreement has been achieved, considering the reluctance of both the players to give up those power and control they have in the country. On the one hand, President Hadi refuses to relinquish his powers; on the other, the Al Houthis want to keep their weapons. This allows them to maintain a certain power in national politics, making them a good candidate to be a new Hezbollah in Yemen -not just a major political opponent but also a militarily strong one.  Although international attention is currently focused on other issues, the conflict in Yemen becomes day after day more relevant in regional and international political games.

Let’s go back to the beginning of the conflict, in November 2011, when following a popular uprising, the then-President Ali Abdullah Saleh was forced to give in power to Abdrabbuh Mansur Hadi. The new president, however, did not manage to deal with several domestic issues, such as unemployment, corruption, hunger, terrorism, leaving the population at the mercy of plagues that eliminate any hope to restore stability in the country. In September 2014, with the support of former President Saleh, the rebel group known as Al Houthis, Zaidi Shia-led political-religious movement, took control of the northern region of the country, entering the capital Sana’a. The then-President Hadi was put under house arrest and forced to flee to Aden the following month.

Confrontations started between two factions: the Al Houthis, allied with Saleh, who control the capital Sana’a and the internationally recognized government of President Hadi, based in Aden. Supporters and allies on both sides complete the bigger picture. In March of 2015, a Saudi-led military coalition began an air campaign against rebel positions, in order to restore Hadi government. Since then more than 10,000 people have been killed in the conflict and living conditions in the country have deteriorated drastically, resulting in a humanitarian crisis.

On the other side, though repeatedly denied, there seems to be Iran’s political and military support, something similar to what we have already seen in Lebanon with Hezbollah.  According to Brigadier General Ahmad Asseri, spokesman for the Saudi coalition, a link would exist between the terrorist group Hezbollah and the Houthis. Members of the Lebanese group have been seen among the Shiite militants in Yemen.

Moreover, the terrorist groups of Al Qaeda in the Arabian Peninsula (AQAP) and the Islamic State (ISIS) add chaos to this picture, exploiting the instability of the region to pursue their political agenda. Indeed, they managed to take control of some areas in the southern provinces (government-controlled area), making even more difficult to restore security in the country.

It is clear that the conflict in Yemen is not limited to the political parties on the ground, but affects several external actors and is connected to the political dynamics of the Middle East. Once again, in fact, we see the couple Saudi Arabia-Iran, fighting for hegemony in the region and the division between a Shiite component, currently controlling the North of the country, and a Sunni-dominated south region, headed by Hadi government.

It should be added that the conflict in Yemen in not just a theatre for the proxy war between Riyadh and Tehran, but also a destabilizing factor for the international trade. Houthis’ missile arsenal, indeed, guarantees the rebels an effective means to hit ships transiting the Strait of Bab el-Mandab, one of the busiest routes of world trade. About 4 million barrels of oil a day pass through this strait; therefore, the security in this area is a necessary condition not only for regional actors but also for other stakeholders, such as European countries and the United States, heavily dependent on energy coming from this region.

It is more understandable why negotiations held by US and UN include the handover of rebels’ weapons to neutral units; similarly, it is clear why the Houthis want to maintain at least their light weapons, as a key tool to keep power in national, regional and global dynamics. Consultations will continue in order to reach an agreement as soon as possible. However, it has to be seen how the new US administration will deal with this issue. According to Donald Trump, the United States should stay out of conflicts that do not directly threaten its national interests and the war in Yemen does not seem to be a priority.

 

Paola Fratantoni

 

Yemen: la crisi dimenticata

Medio oriente – Africa/POLITICA di

Fallite le 48 ore di cessate il fuoco in atto dal 19 al 21 novembre scorso tra il gruppo ribelle Houthi e le forze fedeli al Presidente Hadi in Yemen. Molteplici sono state le violazioni da entrambe le parti sin dall’inizio della tregua, motivo per cui ne è stata esclusa un’estensione. Lo stesso cessate il fuoco previsto per la notte del 17 novembre scorso era andato in fumo in seguito a una serie di scontri verificatesi nella città di Taiz, che avevano portato all’uccisione di più di venti persone.

Se è vero che siamo lontani dalla cessione delle ostilità sul campo, ancora più remota è un’intesa politica, che dovrebbe porre fine ad un conflitto che logora il paese da ormai 20 mesi. Nelle scorse settimane sono stati intensi i colloqui e gli incontri tra il Segretario di Stato americano John Kerry, l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ismail Ould Cheikh Ahmed e paesi mediatori come l’Oman per trattare con le parti in conflitto e concordare un piano per ripristinare stabilità e sicurezza nel paese.

Molteplici le proposte rifiutate, tra cui l’ultima presentata da Kerry, in base al quale il Presidente Hadi avrebbe dovuto cedere il potere ad un nuovo vice presidente in cambio del ritiro dei ribelli dalle maggiori città del paese e la cessione degli armamenti di questi a parti terze neutrali.

Ad oggi, nessun accordo risulta, dunque, stabilito, data la riluttanza di entrambi gli attori a cedere quella parte di potere e di controllo che hanno sul paese. Da un lato, infatti, il Presidente Hadi rifiuta di cedere il passaggio dei propri poteri, dall’altro gli Houthi premono per mantenere il proprio arsenale militare. Ciò, infatti, garantisce loro un certo potere nella politica nazionale, rendendo il movimento un plausibile nuovo Hezbollah in Yemen, oppositore politico rilevante ma anche militarmente forte.

Sebbene l’attenzione internazionale sia attualmente riposta su altri temi, il conflitto in Yemen diventa giorno dopo giorno sempre più rilevante nei giochi politici regionali e internazionali.

Facciamo un passo indietro e torniamo alle origini dello scontro, nel novembre 2011, quando in seguito alle sollevazioni popolari l’allora Presidente Ali Abdullah Saleh è costretto a cedere in potere a Abdrabbuh Mansur Hadi. Il nuovo presidente, tuttavia, non riesce a gestire diverse problematiche capillari dello stato, come la disoccupazione, la corruzione, la fame e il terrorismo, lasciando così la popolazione in balia di piaghe che eliminano ogni speranza di ripristinare la stabilità nel paese.

Nel settembre del 2014, con il supporto dell’ex presidente Saleh, il gruppo ribelle denominato Houthi, movimento politico-religioso di matrice zaidita (ramo dello Sciismo), assume il controllo della regione settentrionale del paese ed entra nella capitale Sana’a. L’allora presidente Hadi viene messo agli arresti domiciliari e costretto alla fuga verso la città di Aden nel mese successivo.

Si formano, così, due fazioni: gli Houthi, alleati di Saleh, che controllano la capitale Sana’a e il governo internazionalmente riconosciuto del Presidente Hadi, con base ad Aden. In questo scenario si inseriscono sostenitori e alleati da entrambe le parti. Nel marzo del 2015 una coalizione militare a guida saudita inizia una campagna aerea contro le postazioni ribelli, nell’ottica di restaurare il governo Hadi. Da allora più di 10.000 persone sono rimaste uccise nel conflitto e le condizioni di vita nel paese sono peggiorate drasticamente, determinando uno stato di crisi umanitaria.

Dall’altro lato, invece, per quanto ripetutamente negato, pare esserci il sostegno politico e militare dell’Iran, con un gioco simile a quello già visto in Libano con Hezbollah. Secondo il Brigadiere Generale Ahmad Asseri, portavoce della coalizione saudita, esisterebbe proprio un legame tra il gruppo terroristico Hezbollah e gli Houthi. Esponenti del gruppo libanese sarebbero, infatti, stati rintracciati tra i militanti sciiti in Yemen.

Completano il quadro i gruppi terroristici di Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) e lo Stato Islamico (ISIS), che sfruttano l’instabilità della regione per portare avanti la propria agenda politica, riuscendo a prendere il controllo di alcuni territori nelle province meridionali (area controllata dal governo Hadi) e rendendo sempre più complessa la possibilità di ripristinare la sicurezza nel paese.

Risulta, dunque, evidente come il conflitto in Yemen non si limiti esclusivamente alle parti direttamente in campo, ma coinvolga numerosi attori esterni e sia collegato alle dinamiche di potere dell’intera regionale mediorientale. Ancora una volta, infatti, si ritrova la coppia Arabia Saudita-Iran, in lotta per l’egemonia nella regione e si ripropone la divisione tra una componente sciita, attualmente in controllo del Nord del paese, e una sunnita, facente capo al governo Hadi.

Oltre ad essere teatro della proxy war tra Riyadh e Teheran, lo scontro in Yemen rappresenta un fattore destabilizzante anche per il commercio internazionale. L’arsenale missilistico degli Houthi garantisce, infatti, ai ribelli gli strumenti necessari per colpire le navi in transito nello stretto di Bab el-Mandeb, una delle rotte più trafficate del commercio mondiale. Circa 4 milioni di barili transitano giornalmente in questo tratto di mare: è evidente come la sicurezza in questa zona diventi una condizione necessaria non solo per gli attori regionali ma anche per ulteriori stakeholder, come i paesi europei e gli Stati Uniti, fortemente dipendenti dalle riserve energetiche proveniente da questa regione.

Diventa, dunque, più comprensibile il motivo per cui le trattative con gli Houthi includano la cessione delle armi ribelli a delle unità neutrali; altrettanto chiaro è il perché questi ultimi abbiano dichiarato di voler mantenere almeno le armi leggere, garantendosi, così, uno strumento per mantenere potere nelle dinamiche nazionali, regionali e globali.

Le consultazioni continueranno nella speranza di raggiungere un accordo il prima possibile. Resta, tuttavia, da vedere quale sarà l’atteggiamento assunto dalla nuova amministrazione americana nei confronti del problema. In base alle dichiarazioni rilasciate da Donald Trump, infatti, gli Stati Uniti dovrebbero restare fuori da conflitti che non minacciano direttamente gli interessi nazionali e la guerra in Yemen non rappresenterebbe una priorità.

 

Paola Fratantoni

Paola Fratantoni
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