GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Giacomo Pratali - page 29

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Nigeria: l’avanzata di Boko Haram a nord e il rischio di crisi economica a sud ad un mese dalle Presidenziali

Medio oriente – Africa di

2000 morti ad inizio gennaio. Oltre 200 ragazze rapite. Numerose bambine fatte saltare in aria all’interno dei mercati cittadini. Sono i numeri impietosi della violenza di Boko Haram nel nord della Nigeria, dove è stato proclamato il Califfato sulla stessa scia di quanto sta accadendo in Iraq e Siria. Intanto, a causa del drastico calo del greggio, il sud, ricco e sviluppato, rischia di trascinare il Paese in una crisi senza precedenti ad un mese dalle Presidenziali di febbraio.

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Gli attacchi di Parigi e la mancata documentazione di quello che è accaduto hanno oscurato la strage perpetrata dal gruppo jihadista di Boko Haram lo scorso 3 gennaio nella città di Baga e nei villaggi circostanti. È stata la Bbc a dare per prima la notizia. Ma ancora è incerto il numero dei morti, anche se le rare testimonianze parlano di circa 2000 vittime, come incerta è la sorte delle oltre 200 liceali rapite lo scorso aprile.

Il Califfato proclamato nella primavera del 2014 e la sintonia con l’Isis di al Baghdadi spiegano il quadro disperato di una regione, quella del Borno (nord-est della Nigeria), dove, tra il 2014 e 2015, si sono verificati numerosi suicidi involontari di bambine all’interno dei mercati della zona. Una situazione geopolitica fragile dunque, resa ancora più precaria dal coinvolgimento di altri stati confinanti come Camerun, Niger e Ciad, tra cui una vera collaborazione sul campo stenta a decollare.

La Multinational Joint Task Force (Mnjtf), creata nel 1998 da Nigeria, Niger e Ciad per colpire il crimine transfrontaliero, non ha funzionato proprio in occasione dell’attacco di Boko Haram a Baga ad inizio gennaio. I guerriglieri islamisti, infatti, avevano l’intento di colpire una base di questa organizzazione multinazionale. Base che, però, era stata abbandonata dai contingenti di Niger e Ciad lo scorso novembre e presidiata solo dall’esercito nigeriano, arresosi prima che l’offensiva jihadista iniziasse.

I vari tentativi per la creazione di un contingente panafricano contro il terrorismo non sono ancora divenuti realtà. La Commissione del bacino del Lago Ciad, ad esempio, composta da Libia, Centrafrica, Ciad, Nigeria e Niger, presieduta più volte dal presidente francese Hollande, aveva messo nero su bianco una forza militare congiunta a marzo 2014. Tale forza sarebbe dovuta nascere otto mesi dopo ma, per mancanza di fondi e aiuti umanitari, la decisione è rimasta solo su carta.

Questa situazione d’instabilità cronica a livello continentale sta man mano trasferendosi a livello nazionale. Analizzando la composizione sociale ed economica della Nigeria, infatti, il Paese è diviso, dal punto di vista storico, in due parti: il nord musulmano e meno sviluppato; il sud cristiano, ricco, dove sono concentrate le multinazionali occidentali del gas e del petrolio.

Il calo del prezzo del petrolio in corso potrebbe indurre le grandi industrie occidentali a vendere le loro concessioni di petrolio e gas e rendere pertanto instabile economicamente un’area, quella che va dalla capitale Lagos al fiume Niger, tra le più fiorenti dell’Africa. Una situazione che potrebbe creare un mix letale con l’instabilità dovuta all’espansione del terrorismo nelle regioni settentrionali e che potrebbe degenerare dopo le Elezioni Presidenziali del 14 febbraio 2015, a cui si ricandiderà il capo dello Stato uscente Goodluck Jonathan (cristiano del Sud) contro Muhammadu Buhari (musulmano del Nord). Proprio l’avvicinarsi di questa data, secondo il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, sta inducendo Boko Haram ad aumentare il numero degli attacchi terroristi per destabilizzare e influenzare queste imminenti votazioni.

Giacomo Pratali

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Francia, due blitz della polizia

BreakingNews/EUROPA di

Francia, due blitz per salvare gli ostaggi, uccisi i 3 killer, forti esplosioni nel centro di Parigi

Attorno alle 17 di venerdì 9 gennaio, grazie a due blitz condotti dalle forza speciali francesi, sono stati uccisi i tre killer che hanno tenuto sotto scacco l’Europa per tre giorni: Said e Cherif Kouachi e Amedy Coulibaly. Il primo nella tipografia di Dammartin en Goele, un piccolo centro a nord-est di Parigi, dove l’ostaggio (il proprietario dell’azienda) è stato liberato. Il secondo nel negozio kasher nel quartiere ebraico di Parigi (da cui si sarebbero udite quattro forti esplosioni) dove sarebbe rimasti uccisi quattro dei sei prigionieri.

IL RACCONTO DELLA GIORNATA

Francia con il fiato sospeso anche nella giornata di venerdì 9 gennaio. I due fratelli Kouachi, responsabili della strage contro la rivista ‘Charlie Hebdo’, sono asserragliati dalla mattinata nella tipografia di Dammartin en Goele, una cittadina a circa 40 chilometri a nord-est di Parigi. Sotto ostaggio ci sarebbe almeno una persona, Michel Catalano, 27 anni, proprietario dell’azienda. Mentre altri testimoni riferiscono che le persone catturate potrebbero essere cinque, ovvero gli altri componenti della famiglia che lavorano nell’impresa.

I terroristi sono giunti in questo piccolo centro abitato dopo essere sfuggiti per tutta la notte alle forze speciali transalpine (88 mila agenti sono stati mobilitati in tutto il Paese). Il proprietario dell’un’auto rubata dai due individui nel corso dell’inseguimento ha riferito che entrambi sono apparsi calmi e decisi e che hanno detto di appartenere alla frangia di al Qaeda nello Yemen.

Fratelli Kouachi ricercatiA questo, si è sommata l’irruzione, nel corso del pomeriggio, di un uomo armato di kalashnikov, Amedy Coulibaly, che ha preso in ostaggio sei persone (di cui uno ferito dopo la sparatoria), tra cui un neonato, nel negozio kasher Hypercasher, nel quartiere ebraico della capitale. La polizia ha recintato la zona e ha ordinato la chiusura degli altri esercizi commerciali della zona. Il premier israeliano Netanyahu ha invece dato ordine al Ministero degli Esteri e al Mossad di supportare l’azione del governo francese.

All’ingresso nel locale, l’uomo armato, lo stesso che nella giornata di giovedì avrebbe ucciso una poliziotta, avrebbe urlato “Voi sapete chi sono!” e, a distanza di qualche ora, “Liberate i fratelli Kouachi e non fate assalti”, in riferimento a quanto sta accadendo nella tipografia di Dammartin. E intanto quattro forti esplosioni sono state udite dall’interno del negozio.

Parigi, azione terroristica nella sede del settimanale ‘Charlie Hebdo’: 12 morti e 8 feriti

BreakingNews/EUROPA di

Nella mattinata di mercoledì 7 gennaio tre attentatori hanno assalito la redazione della testata satirica. Uccisi il Direttore e tre vignettisti. Quasi certa la matrice islamica dell’attentato. Gli assassini sono scappati a bordo di un’auto rubata e sono tuttora ricercati

12 morti e 8 feriti. Questo è il bilancio dell’attentato contro la sede del settimanale francese satirico ‘Charlie Hebdo’ verificatosi nella mattinata di mercoledì 7 gennaio a Parigi. I tre attentatori, incappucciati e armati di kalashnikov, dopo aver fatto irruzione nella sede della testata, hanno ucciso tra gli altri il direttore Stephan Charbonnier, i vignettisti Georges Wolinski, Cabu e Tignous e l’economista e azionista del giornale Bernard Maris. Gli assassini, scappati a bordo di un’auto rubata dopo la sparatoria, hanno investito una persona nel corso della fuga e, dopo aver abbandonato la vettura, sono ricercati dalla polizia francese. L’attacco terroristico potrebbe essere di matrice islamica, dato che alcuni testimoni riferiscono che i criminali avrebbero inneggiato ad Allah.

Il periodico transalpino aveva pubblicato proprio oggi un articolo dal titolo “Sottomissione”, in cui veniva fatta una recensione positiva sul romanzo omonimo dello scrittore Michel Houellebecq in cui si ipotizza l’elezione di un presidente musulmano nel 2022. E, già in passato, il giornale era stato vittima di azioni intimidatorie, come nel 2001 dopo la pubblicazione di alcune vignette su Maometto.

In tutta la Francia, nel frattempo, è scattato il massimo livello d’allerta. Mentre in Italia, il ministro degli Interni Alfano ha convocato il Comitato Analisi Strategica Antiterrorismo. E le reazioni da tutto il mondo non si sono fatte attendere. Dal presidente Hollande che ha riferito che “molti attentati sono stati sventati le scorse settimane. Dobbiamo reagire con fermezza, ma con spirito d’unità nazionale”. A Barack Obama che ha parlato di un “attacco codardo e diabolico” e Renzi che ha affermato che quello odierno è stato “un attacco alla libertà dell’Europa di essere Europa”. Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha definito “vile e barbaro” il blitz armato nella sede del settimanale satirico.

 

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Caso Marò, “trattative dietro le quinte tra i due esecutivi” per i media indiani. Mogherini: “Finora aspettative deluse”

EUROPA di

L’impasse sul ritorno dei due fucilieri di Marina dura da tre anni. Dall’India si parla di un governo indiano più aperto alle trattative. Ma un rappresentante dell’esecutivo parla di decisione in mano alla magistratura di New Delhi

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“Il Governo di Delhi ha cambiato atteggiamento e parla dietro le quinte con il Governo italiano”. Questa l’opinione dei media indiani sul caso Marò. E a dimostrarlo sarebbe comportamento diverso tenuto dall’esecutivo e dalla Corte Suprema a settembre, quando Massimiliano Latorre è stato fatto rientrare a Roma per gravi motivi di salute.

Nonostante questa parziale apertura, il neo ministro degli Esteri Paolo Gentiloni parla di “risultati assolutamente deludenti” nelle trattative che ormai vanno avanti da tre anni. Mentre l’ex capo della Farnesina, ora alto rappresentante della Politica Estera dell’Ue Federica Mogherini, in un’intervista rilasciata a ‘La Repubblica’ il 27 dicembre, non utilizza giri di parole: “Come ho sempre detto in Parlamento, ho usato i mesi da ministro degli Esteri per completare le procedure preliminari all’arbitrato, che hanno richiesto più tempo e lavoro del previsto. Oggi, nella mia nuova posizione, continuo a seguire da vicino questa vicenda che mi sta molto a cuore, in contatto con il governo italiano”.

“L’Ue – prosegue – ha ripetutamente invitato, in questi tre anni, a una soluzione accettabile per entrambe le parti. Le aspettative finora sono andate deluse, ma aspettiamo di vedere se vi sono margini perché questa situazione non solo è dolorosissima per i due marò, le loro famiglie e l’Italia, ma può anche incidere sulle relazioni Ue-India e sulla lotta globale contro la pirateria in cui l’Ue è fortemente impegnata”, conclude Lady Pesc.

Se è possibile che i due esecutivi siano in costante rapporto, l’ottimismo dei media indiani stride comunque con le parole del rappresentante del governo di New Delhi Syed Akbaruddin, il quale, il 26 dicembre, ha dichiarato come sia “difficile spiegare a che punto siamo per il semplice fatto che la questione è all’esame della giustizia. Mentre il governo indiano può avere un punto di vista e considerare varie opzioni, fondamentalmente questa questione è in mano alla giustizia e dovrà andare attraverso un percorso legale e arrivare ad una decisione della magistratura affinché si possa andare avanti”, conclude.

Il messaggio di Natale di Salvatore Girone dall’India destinato ai propri cari e alle Forze Armate impegnate all’estero e il possibile ritorno di Massimiliano Latorre a New Delhi dopo la convalescenza sono in sintonia con le frasi pronunciate dal rappresentante dell’esecutivo indiano. Frasi che dimostrano come la “scarsa volontà del Governo indiano sul caso Marò”, di cui parla Giorgio Napolitano, sia realtà.

Giacomo Pratali

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Afghanistan, chiusura missione Isaf: bilancio positivo per Stoltenberg

Asia di

Il Segretario Generale della Nato parla di “missione impegnativa” che ha reso “l’Afghanistan più forte”. Dal 2003, 3482 i caduti totali, con un picco di 140 mila unità coinvolte nek 2011. Il ritiro delle truppe Usa è previsto a fine 2016. E all’orizzonte Putin tende la mano al paese in questa fase delicata

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Il 17 dicembre, a quasi dieci giorni dalla cerimonia di chiusura della missione Isaf in Afghanistan, Jens Stoltenberg, Segretario Generale della Nato, ha riassunto così gli undici anni di missione: “Per oltre un decennio, le nostre nazioni hanno combattuto fianco a fianco per la pace e la stabilità. Questa è stata una missione impegnativa, sotto molti aspetti. Militarmente. Politicamente. Economicamente. Ma siamo andati ugualmente incontro a queste sfide. Insieme – prosegue -, abbiamo fatto quello che era necessario. Mediante un chiaro mandato delle Nazioni Unite, abbiamo sfidato il rifugio dei terroristi internazionali. Abbiamo reso l’Afghanistan più forte. E abbiamo resto le nostre nazioni più sicure. Le sfide rimangono. Ma oggi, l’Afghanistan è più stabile e prosperoso che mai”, conclude.

Iniziata l’11 agosto 2003 con l’obiettivo di stanare sul campo i talebani, in pieno clima post 11 settembre, la missione internazione Isaf in Afghanistan ha visto coinvolti circa 58 mila uomini, arrivati a 140 mila nel 2011. I caduti totali sono stati 3482, di cui 2354 americani. Dal 2004, inoltre, si è insediato, nella provincia di Herat, anche il contingente italiano, che ha subito 48 perdite sul campo. Nel corso della cerimonia di chiusura (“Casing of Colors”) tenutasi l’8 dicembre all’aeroporto di Kabul il comandante in capo, gen. John F. Campbell ha poi annunciato che “gli Usa si ritireranno completamente a fine 2016, mantenendo fino ad allora un contingente che, dalle circa 10 mila unità di gennaio 2015, andrà via via azzerandosi”. In più, fino al 2025, avrà luogo missione “Resolute Support”, incaricata di addestrare e assistere le forze militari afghane.

È da ricordare, tuttavia, il discorso pronunciato dal Vladimir Putin il 6 novembre 2014, nel corso del summit tra i membri del Csto, di cui l’Afghanistan è stato membro osservatore del 2013. Il leader della Russia, in previsione della fine della missione Isaf, ha dichiarato di comprendere “che il ritiro del contingente militare internazionale non renderà la situazione facile nel paese. Ma, in caso di necessità, siamo pronti ad aiutare i nostri amici in Afghanistan in modo da rendere la situazione stabile e con prospettive di sviluppo”, afferma ancora. Le parole del Capo del Cremlino sono di preoccupazione sincera? O intendono allargare il terreno di scontro della rinnovata Guerra Fredda dall’Ucraina alla zona asiatica?

Giacomo Pratali

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Dossier Cia, le giustificazioni di Brennan e Cheney sulle torture ai detenuti sospettati di terrorismo

AMERICHE di

Il report del Senate Intelligence Committee ha reso pubbliche pratiche come il waterboarding, abusi sessuali e molte altre tecniche di interrogatorio adottate nei confronti dei prigionieri nel corso degli anni 2000. E George W. Bush e il governo britannico non appaiono esenti da colpe

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“Le nostre analisi indicano che il programma di detenzione e di interrogatori ha prodotto un utile lavoro di intelligence grazie al quale gli Stati Uniti sono riusciti a contrastare gli attacchi terroristici, a catturare i responsabili e a salvare le vite”. Questo il discorso di John O. Brennan, Capo della Cia, rilasciato a seguito della pubblicazione del dossier sulle torture redatto dal Senate Intelligence Committee degli Stati Uniti i primi di dicembre.

Il dossier, 524 pagine, ha destato clamore presso la comunità internazionale mentre l’opinione degli americani rimane divisa. Quello che appare palese dagli atti è l’inutilità delle pratiche di tortura esercitate per estorcere le confessioni ai prigionieri. Non solo i funzionari della Cia, ma anche gli psicologi sono coinvolti nell’utilizzo di metodi come il waterboarding fino al 2009. Lo scopo era uno solo: assoggettare mentalmente e rendere schiavo il sospettato terrorista in modo da estorcergli la confessione. Tra questi, John Mitchell e Bruce Jessen, psicologi militari, hanno collaborato con l’organizzazione di intelligence a stelle e strisce per sette anni e hanno percepito uno stipendio totale di 80 milioni di dollari. Secondo quanto dice il report, i due medici si sono rifatti agli esperimenti mentali studiati nel corso degli anni ’60.

waterboarding, calci e pugni allo stomaco, uomini costretti a rimanere svegli per giorni, abusi sessuali: questi sono alcune delle torture perpetuate dai militari americani nei confronti dei sospetti terroristi reclusi. Nel corso della trasmissione televisiva “Meet the Press”, in onda sulla Nbc, l’ex vicepresidente degli Stati Uniti (2000-2009) Dick Cheney ha difeso il suo operato dicendo di non provare “alcun rimorso perchè la tortura per me…è un cittadino americano che telefona per l’ultima volta alle sue quattro figlie prima di morire nel corso dell’attacco al World Trade Center nel 2001. In più, George W. Bush era a conoscenza di tutto ciò perchè approvò personalmente queste tecniche di interrogatorio”, ha poi aggiunto.

Non solo gli Stati Uniti sono coinvolti in questa spinosa vicenda. Pure il governo britannico è stato messo sotto accusa dalla stampa del proprio Paese poichè le amministrazioni Blair e Brown erano a conoscenza, con molta probabilità, di quanto scritto oggi nel dossier. Come riportato da The Guardian, infatti, dal 2009 alcuni funzionari dell’esecutivo di Sua Maestà hanno incontrato alcuni membri del Senate Intelligence Committee degli Stati Uniti.

Giacomo Pratali

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Ucraina: il cessate il fuoco e l’illusione della pace nel teatro di scontro del diritto internazionale

EUROPA di

Il 14 dicembre Poroshenko ha affermato che per la prima volta non ci sono stati scontri nel Paese. Nel frattempo, Putin cerca di stabilire nuove partnership economiche con India e Cina. La Nato è sempre più irritata dall’atteggiamento della Russia in contrasto con gli accordi di Minsk

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“Oggi è la prima giornata, dopo sette mesi, in cui non abbiamo avuto scontri e uccisioni in Ucraina. Possiamo dire che è il primo vero giorno di cessate il fuoco”. Queste le parole del Presidente dell’Ucraina Poroshenko pronunciate il 14 dicembre. Parole che fanno presagire ad un allentamento delle tensioni tra Kiev e Mosca. Parole, appunto. Ma i fatti di dicembre che le precedono sembrano dire tutt’altro.

Se il 9 dicembre, Kiev ha cominciato a ricevere le prime forniture di gas, in rispetto degli accordi del 30 ottobre scorso tra Ucraina, Russia e Unione Europea, due giorni più tardi ha fatto discutere l’incontro tra Putin e il presidente indiano Modi. Il vertice, a cui non a caso ha partecipato il leader della Crimea Aksionov, ha visto l’accordo di cooperazione per la costruzione di dieci reattori nucleari di ultima generazione. Una mossa, quella del Capo del Cremlino, che ha il sapore dello smarcamento rispetto alle sempre più esose sanzioni economiche decise da Bruxelles e Washington, soprattutto se guardiamo al precedente accordo, raggiunto con la Cina, per la fornitura trentennale di gas.

Le dichiarazioni di Poroshenko e l’atteggiamento di Putin, però, ci dicono che lo scontro in seno all’est ucraino si gioca sempre di più nel teatro del diritto internazionale. In questo senso, il comunicato rilasciato dalla Commissione sull’Ucraina della Nato il 2 dicembre non usa mezzi giri di parole e accusa Mosca di non avere cessato “il rifornimento di armi ai separatisti filorussi e di avere proseguito le attività militari in violazione degli accordi raggiunti a Minsk lo scorso settembre”.

Proseguendo, la nota fa riferimento ai punti essenziali per il raggiungimento della pace decisi a Minsk: “Il ritiro delle truppe dal territorio ucraino; provvedere all’effettivo monitoraggio dei confini e della sovranità ucraina; favorire una soluzione politica e diplomatica dei negoziati”. Non solo. Il segretario generale Nato Stoltenberg ha annunciato di avere riattivato quattro fondi per aiutare Kiev ad aggiornare a propria logistica, la cybersicurezza, il comando e controllo e i servizi medici.

Un aiuto, quello della Nato, che, se visto dalla prospettiva russa, assomiglia ad un abbraccio mortale, ad un tentativo di Washington di isolare ancora di più Mosca: “Tutti i passi della Nato – afferma Morozov, a capo della Commissione Esteri del parlamento russo -, che già quest’anno vuole coinvolgere l’Ucraina nella serie interminabile di esercitazioni delle truppe nel momento in cui nel paese è in corso una guerra civile, dimostrano soltanto una cosa: la Nato continua la sua politica aggressiva nei confronti dell’Est. Per alimentare la sua strategia di espansione, fa delle dichiarazioni provocatorie accusando la Russia di intenzioni aggressive”, conclude il deputato.

Giacomo Pratali

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Yemen, il giornalista Somers ucciso durante le operazioni di liberazione

Medio oriente – Africa di

Il reporter americano, tenuto in ostaggio da al Qaeda dal settembre 2013, è morto assieme a circa dieci membri dell’organizzazione terroristica nel corso del tentativo di liberazione portato avanti da un drone Usa

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È fallito il tentativo di salvataggio di Luke Somers, reporter americano rapito da al Qaeda in Yemen nel settembre 2013. Il giornalista non è riuscito a salvarsi dal raid statunitense, che ha comunque visto uccisi circa 10 componenti dell’organizzazione terroristica di istanza nella provincia di Shabwa. La sorella Lucy ha dichiarato di avere appreso la notizia dagli agenti dell’Fbi.

Somers, 33 anni, ha lavorato come reporter presso alcuni organi di informazione yemeniti, ma il suo materiale ha avuto diffusione presso media internazionali come la Bbc. Non più tardi di giovedì 4 dicembre l’Aqap, il ramo saudita di al Qaeda, aveva diffuso un video appello in cui il giornalista chiedeva aiuto per la sua vita in pericolo.

Giacomo Pratali

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Elezioni Moldova, la coalizione filoeuropeista vince di misura. Il Segretario Generale Nato invita Mosca a rispettare il risultato

EUROPA di

I liberaldemocratici ottengono il 48% dei seggi, contro il 38 dei filorussi. Stoltenberg si congratula con il popolo moldavo e dà una stoccata a Putin, invitandolo di fatto a non interferire con l’esito delle Politiche andate in scena domenica 30 novembre

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Il dato delle Politiche in Moldavia evidenzia una chiara spaccatura. Nonostante il partito socialista filorusso sia il primo del Paese (21%), ad ottenere la maggioranza dei seggi, seppur di misura, è la coalizione filoccidentale (48%) contro l’avversaria vicina a Mosca (circa 38%). Con 54-55 seggi a favore, le trattative per la composizione del nuovo esecutivo si preannunciano complicate.

A salutare in maniera positiva il dato del voto, è stato Jens Stoltenberg, Segretario Generale Nato: “Mi congratulo con il popolo moldavo per le elezioni tenutesi questa domenica (30 novembre 2014, ndr), che si sono svolte in linea con gli standard europei. Il popolo moldavo ha fatto la propria scelta e tutti quanti devono rispettarlo”. In queste parole, è chiaro il riferimento a Vladimir Putin, che ad ottobre aveva ammonito Chisinau a non avvicinarsi troppo a Bruxelles a discapito degli interessi economici con Mosca.

“La Moldova – ha proseguito Stoltenberg – è un prezioso partner all’interno dell’Alleanza Atlantica, decisivo nella nostra missione in Kosovo. In un quadro di partnership individuale, proseguire la nostra cooperazione con la Moldova e non vediamo l’ora di lavorare con le nuove autorità, al fine di fare un utilizzo più intensivo delle iniziative decise nel vertice di settembre in Galles”, conclude.

Giacomo Pratali

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Il convegno “La responsabilità delle nazioni nella difesa della civiltà contro la sfida dell’Isis” tra analisi storico-politiche e modi di ricomposizione della crisi in Medio Oriente

POLITICA di

Martedì 25 novembre, presso Palazzo Marini a Roma, si è tenuto il dibattito sugli ultimi eventi susseguitisi in Siria e Iraq. Dopo le introduzioni di Alessandro Conte e Alessandro Forlani, si sono espressi in merito Gianluca Ansalone, Dario Rivolta, Andrew Spannaus, Andrea Manciulli, Carlo Panella e Gian Micalessin. Il dibattito è stato diretto da Paolo Messa

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Molte voci e diverse prospettive storico-politiche quelle emerse nel corso del convegno “La responsabilità delle nazioni nella difesa della civiltà contro la sfida dell’Isis”, svoltosi martedì 25 novembre, presso la Sala delle Colonne di Palazzo Marini (Camera dei Deputati), alle ore 17. Ad aprire i lavori è stato Alessandro Conte, Presidente del Centro Studi Roma 3000, ente organizzatore dell’evento, mentre ad introdurre il dibattito è stato Alessandro Forlani, Presidente della Commissione Studi Geopolitica della medesima associazione. A moderare gli interventi, Paolo Messa, giornalista e Direttore di Air Press.

Nell’illustrare i temi del convegno, Forlani ha affermato che “l’Isis è un fenomeno diverso rispetto ad al Qaeda e ad altri tipi di terrorismo che conosciamo. È una sorta di esercito regolare, che affronta altri eserciti e conquista territori di stati già costituiti, magari logorati al loro interno, come Siria ed Iraq. È un’avanzata che mette a repentaglio gli altri stati del Medio Oriente: Arabia Saudita, Turchia, Iran, nemici negli ultimi anni, ma oggi accomunati da questo grande fenomeno. Pure la stessa Arabia Saudita di estrazione sunnita”. E, proprio questo fattore contingente, potrebbe portare “alla creazione di una grande coalizione internazionale. In questa ottica, Stati Uniti e Iran saranno costretti a trovare un motivo di distensione, così come la Turchia con la popolazione curda”.

Proprio sul ruolo cruciale dei curdi nel conflitto siriano contro l’Isis, è intervenuto Dario Rivolta, analista di politica internazionale già Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati: “Oggi i curdi più organizzati a livello statuale sono quelli che abitano nella regione autonoma irachena. Dal punto di vista militare, i guerriglieri provenienti da questo territorio, i Peshmerga, hanno come arma in più il forte spirito patriottico. Ma, di contro, non hanno una lunga esperienza di combattimenti in campo aperto”. Questa popolazione, protagonista della battaglia in corso a Kobane, è avversa dai quattro stati che la ospitano: “Turchia, Iran e Siria temono l’esodo dei tanti milioni di curdi presenti nei loro territori. L’Iraq, invece, non vuole perdere i giacimenti di gas e petrolio presenti nel Kurdistan iracheno”.

Per spiegare il successo dell’Isis, che mira alla restaurazione del Califfato, Gianluca Ansalone, docente di Geopolitica presso Sioi, ha analizzato quali sono le differenze rispetto al passato: “Questa organizzazione è post terroristica perché ha trasformato il presidio militare in presidio territoriale”. Il suo successo “è dovuto a tre fattori. Il primo è contingente, ovvero la guerra in Siria. Il secondo è storico: gli Usa hanno fatto l’errore di ritirare le truppe dall’Iraq e ora stanno pensando di ritornare. Il terzo, quello più importante, è strutturale. Le frontiere africane e mediorientali sono artifici non più in grado di resistere. Per contenere l’Isis – prosegue -, occorre fare leva su alcune circostanze: risolvere il conflitto siriano; portare a termine, in breve tempo, le operazioni militari contro l’Isis; tagliare i fondi da cui attinge; comprendere e guidare questo processo politico di ricomposizione. Per fare ciò, noi possiamo fare leva sui tre stati che non sono un’invenzione della storia: Turchia, Arabia Saudita e Iran”.

Le scelte degli Stati Uniti in Medio Oriente saranno dunque cruciali, come spiegato da Andrew Spannaus, analista internazione e Direttore di Transatlantico.info: “Obama sa che deve cambiare strategia rispetto alla politica di ‘regime change’ che ha contraddistinto gli Usa dal 2001, ma non riesce a farlo. Ritengo che ci sia bisogno di un ‘realignment’ con alcuni ex nemici come Siria e Iran”. L’attuale intervento aereo in Siria, d’altro canto, appare come un temporeggiare prima di decidere cosa fare: “Adesso, gli Stati Uniti non stanno davvero facendo la guerra contro l’Isis, dato che ci sono stati solo dai cinque ai sette attacchi al giorno. Nel 2003, in Iraq, erano invece 800”. Proprio questa situazione, sembra confermare la strategia dell’attuale Amministrazione democratica, ovvero quella del ‘no boots on the ground’: “Obama – spiega il giornalista statunitense – non ha alcuna intenzione di inviare soldati per iniziare un’offensiva via terra perché questo è ciò che il popolo americano non vuole. Il conflitto contro l’Isis, secondo Washington, non è l’occasione di rovesciare Assad. Questo sta facendo arrabbiare gran parte dell’establishment statunitense: i neocon e gli interventisti progressisti, come il consigliere per la Sicurezza Nazionale Susan Rice e l’ambasciatore dell’Onu Samantha Power”. Tuttavia, dato che “all’Isis conviene avere l’immagine degli Usa come nemico, occorrerebbe che l’Occidente collaborasse con gli altri stati della zona”.

Ma quali sono le ragioni che hanno portato l’Isis a prendere campo in Siria? A spiegarlo, è il reporter di guerra de “Il Giornale” Gian Micalessin: “Nel 2004 e 2005, con la connivenza dei servizi segreti siriani, dal confine con l’Iraq passavano tutti i gruppi jihadisti che andavano a farsi esplodere in Iraq. Adesso, stiamo assistendo esattamente allo stesso flusso, solamente invertito. Le cellule jihadiste, addestrate dalle spie siriane per contrastare gli americani, sono diventate il nemico degli stessi maestri siriani”. Secondo il cronista, la strategia di lotta al Califfato dovrebbe prendere spunto da quanto accaduto in Iraq dal 2007 al 2009: “Al Zarqawi fu sconfitto in due anni dal generale Petraeus con una politica molto semplice, che sarebbe opportuno applicare oggi contro l’Isis: semplicemente, reintegrò nel tessuto politico, sociale ed economico dell’Iraq quei sunniti che nel 2003 ne erano stati brutalmente estromessi. Petraeus arrivò nel 2007 e nel 2009 la questione era risolta”. Ma è qui che gli americani hanno commesso l’errore di rimuovere il Generale statunitense, dimenticandosi di fatto “ questa politica, con l’Iraq lasciato nelle mani di al Maliki, che faceva gli interessi di una parte della classe dirigente iraniana. Quando al Maliki è stato lasciato libero di arrestare, emarginare, condannare, mettere in carcere i capi delle tribù sunnite, è rinata al Qaeda ed è nato l’Isis”.

L’immobilismo e le scelte sbagliate con gli stati arabo-islamici non sono colpe da attribuire “solo agli Stati Uniti – spiega nel suo intervento Andrea Manciulli, Presidente della Delegazione Italiana presso l’Assemblea Parlamentare Nato -. Anche l’Europa stessa ha grandi responsabilità. In un quadro non facile di crisi economica che sta investendo questo continente, l’errore è stato il non essersi occupato abbastanza, a suo tempo, del post Primavere Arabe”. Questo ha consentito che non ci fosse il necessario interesse verso “la trasformazione in corso nel mondo qaedista. In seno al terrorismo islamico, si è aperto un dibattito interno. Due sono le scuole di pensiero emerse. Quella più tradizionale, che intende riservare una particolare attenzione al mondo africano e indiano. Quella che teorizza l’intervento tripartito, cioè la creazione di uno stato islamico, l’organizzazione in lupi solitarie e non in cellule, l’occupazione di zone di non-governo”.

In controtendenza, rispetto alla strategia di coinvolgimento dell’Iran da parte dell’Occidente, è stato il contributo dell’editorialista de “Il Foglio” Carlo Panella: “Io dico che non possiamo fare l’accordo con gli iraniani perché al potere c’è chi ha fatto la rivoluzione sciita e che tale rivoluzione vuole esportare. Essi hanno inventato una nuova strategia politica: la rivoluzione esportata attraverso la deterrenza. Gli iraniani hanno elaborato il piano della bomba atomica, che possiedono dal 2003, e lo usano per esportare la loro rivoluzione. Tale strategia politica, non contrastata da nessuno, funziona perché hanno esportato il loro confine d’influenza al Libano, alla Siria e si accingono ad essere determinanti anche nello Yemen”. A fronte di questa situazione, il giornalista indica una possibile soluzione: “Bisogna tornare a Condoleezza Rice, la quale aveva idealizzato la teoria del ‘containment’, ovvero costruire contro l’espansionismo rivoluzionario dell’Iran una trincea composta dagli altri paesi arabo-islamici. Questo va fatto non andando noi a combattere in Iraq e Siria, ma coinvolgendo gli unici due stati di cui possiamo fidarci in Medio Oriente: Israele e Kurdistan” conclude.

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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