GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Francesco Danzi - page 3

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La “linea promessa” della politica estera russa ed il nuovo hub finanziario targato BRICS. Certe mode non passano mai.

AMERICHE/Asia/ECONOMIA/Energia di

Dal viaggio in America Latina al nuovo accordo dei Brics: la Russia tra una più consolidata politica estera e la creazione di un nuovo hub finanziario.

Il vecchio mondo bipolare sembra aver voltato pagina ma lo strascico di rivalità è tutt’altro che passato di moda: solo si sono modificate le modalità di confronto. Il viaggio di Putin effettuato in America Latina aveva come obiettivo nuove e più proficue relazioni politico commerciali con i Paesi oggetto di visita. Il messaggio ufficiale era quello di stabilire una linea promessa di alleanze. Quello indiretto poteva leggersi in due maniere: da un lato Putin arrivava oltreoceano per andare a stringere le mani ai vicini di casa degli statunitensi; dall’altro si trattava di un invito di più larga portata, per stimolare altri possibili partner ad entrare in un nuovo e diverso sistema di coalizioni politiche ed economiche tese a creare un sistema alternativo di preferenze e scambi commerciali.

Siamo onesti: il problema ucraino è qualcosa di politicamente molto fastidioso e la portata di questa nuova crisi a cavallo tra Russia e Stati Uniti è ampia ed ha influenze in molti settori. La Russia, così come tutti gli altri attori coinvolti loro malgrado deve prenderne atto. Questo rallentamento che Putin ha subito ad occidente ha però i suoi risvolti dall’altra parte del mondo: la visita presso numerosi Paesi latinoamericani; il ritorno di un presidente Russo in Nicaragua; il taglio di una  fetta enorme del debito cubano (debito che con l’attuale trend Cuba non sarebbe comunque stata in grado di saldare) con la prospettiva di rinsaldare la vecchia alleanza; nuove intese con il governo argentino sul fronte dei prestiti e degli investimenti anche e soprattutto sul nucleare; una tappa brasiliana che ha rivelato possibili accordi futuri nel settore militare, della collaborazione per lo sfruttamento del petrolio e, cosa più importante un positivo atteggiamento di fiducia nell’inaugurazione di proficui rapporti con il Cremlino. Insomma, la nazionale russa non avrà giocato la finale dei mondiali di calcio ma il suo presidente è tornato a casa soddisfatto della sua trasferta. Soddisfatto poi di un’ulteriore ma altrettanto significativo appoggio politico. Si perchè la sua visita ha raccolto consenso, da parte di alcuni dei probabili futuri partner di questa ritrovata alleanza russa, per quanto riguarda la questione ucraina. In breve, Putin offre aiuto economico a nazioni che geograficamente o economicamente (vedi l’Argentina) sono stretti nell’abbraccio di un ingombrante vicino (gli Stati Uniti) che a torto o a ragione li considera suoi condomini, con tutto quello che ne consegue. In cambio (e questo è solo uno dei successi attualmente riscontrabili), alcuni di questi Paesi considerano l’opzione di appoggiare politicamente il presidente russo in quello che si prospetta un lungo autunno.

Ed è proprio nel cortile di casa degli Stati Uniti che Putin ha segnato un importante punto. A Fortaleza la sfida è stata delle più importanti: l’ufficializzazione della creazione di un fondo monetario alternativo (CRA, Accordo di Riserva Contingente) e di una nuova banca di sviluppo. L’obiettivo è scalzare l’egemonia del dollaro e promuovere progetti nel continente africano, dando allo stesso tempo un’alternativa alla Banca Mondiale ed al Fondo Monetario Internazionale e sviluppando i propri settori produttivi interni, che diverrebbero meno esposti alle turbolenze finanziarie internazionali. Data la proporzione rilevante della popolazione dei BRICS sul totale mondiale e del PIL realizzato dallo stesso gruppo sul totale del Prodotto mondale, la nuova forza di questo accordo sta non solo nella sottrazione di spazio geografico agli ormai già stabiliti hubs economici e finanziari “occidentali”, che si vedrebbero mancare di importanti mercati e spazi di espansione economica, ma alla preparazione di un nuovo blocco di alleanze che assumerà con ogni probabilità il ruolo di frangiflutti e di strategica alleanza al tempo stesso.

Il lungo scivolo e la sindrome del combattente. L’altro lato dell’utilizzo dei droni per missioni di targeted killing.

Difesa di

Quando la minaccia è il terrorismo asimmetrico, la risposta è altrettanto asimmetrica. La vittoria in uno scontro è basata sull’asimmetria, se così possiamo dire, dell’utilizzo delle risorse disponibili. I problemi sorgono quando, per debellare una minaccia, si finisce per causarne indirettamente un’altra, più pericolosa.

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L’utilizzo dei droni (arma tra le più controverse ma sicuramente tra le più utili) ha modificato ulteriormente i conflitti moderni, rendendola l’arma più asimmetrica tra le armi asimmetriche. Ma fin qui, se gli obiettivi fossero sicuri e mirati, non ci sarebbe nulla di scandaloso. Il cosiddetto “targeted killing” ha avuto un esponenziale crescendo in questi ultimi anni nelle operazioni militari. L’utilizzo, in questo caso, di droni da parte di Stati nei confronti di singoli individui al fine di eliminare il portatore di una minaccia o la minaccia stessa sembra essere la nuova frontiera delle operazioni militari. L’impiego massiccio di questo tipo di tecnologia non riesce però ad evitare che, all’interno delle statistiche, finiscano per essere riportati anche target che sono tutt’altro che sensibili. Le vittime civili legate all’utilizzo dei velivoli senza pilota come armi di precisione sono un aspetto ormai innegabile di questa nuova politica dei conflitti. Quello che dovrebbe preoccupare maggiormente è l’effetto che questi danni collaterali hanno sulla popolazione inerme che diventa protagonista del conflitto in atto. Sono cioè partecipi di attacchi (che spesso hanno tra le vittime bambini) che sebbene abbiano l’obiettivo di essere precisi, spesso non riescono ad esserlo.

Il risentimento che l’utilizzo di queste armi crea nelle popolazioni sta mettendo seriamente a rischio la strategia e la politica che ci auguriamo sia dietro queste operazioni militari, preparando un lungo e pericoloso scivolo su cui gli Stati Uniti ed i loro alleati in possesso di tale tecnologia faranno meglio a non incamminarsi. Il senso di onnipotenza che questi nuovi droni creano, rende gli eserciti che li posseggono destinatari di un odio ed uno sdegno ancora più profondo, viscerale, anche da parte di chi non ne ha mai visto uno. E’ quanto ammesso dal Generale McChrystal, ex comandante forze ISAF in Afghanistan. Lo stesso presidente Karzai si era pubblicamente esposto affermando di non accettare missioni statunitensi di questo tipo sul territorio afgano, in seguito alla conferma dell’uccisione di due bambini. Ciò che è sicuro, è che il numero delle nazioni che si stanno dotando di questa tecnologia sta aumentando. E ne è aumentato il loro impiego.

Al crescere di una tensione che sta creando sempre maggiori obiezioni interne e sempre maggior odio esterno verso governi che legittimano l’uso massiccio di queste armi, dovrebbe accompagnarsi un pubblico dibattito legale e sociale su questi temi. Sarebbe bene far uscire fuori da questa patina di mistero la nuova guerra dei droni, per evitare che in Pakistan, in Afghanistan, in Iraq e altrove si scateni quella che possiamo definire la “sindrome del combattente”. Non esistono zone neutrali, tutte le persone sul terreno sono considerate combattenti. In sintesi quello che esprimeva il Maggiore David Stockwell in merito ad un raid statunitense nella missione “Restoring Hope” in Somalia, dopo che erano state accertate sessanta vittime civili. L’ironia della sorte è che per mezzo dell’utilizzo spesso opinabile della tecnologia dei droni, la sindrome da combattente si sta diffondendo per inerzia in maniera massiccia proprio a causa dell’indiscriminato utilizzo di tali armi, facendo aumentare il numero di volontari che si arruolano in questa o quella milizia locale perchè esausti delle continue vessazioni, privazioni e perdite civili cui assistono e che non riescono a spiegarsi. Arab News riporta che, secondo Human Rights Watch, il fronte dell’ISIS in questi ultimi mesi ha reclutato giovani ragazzi (in alcuni casi bambini) come cecchini. I video li riprendono sfilare sui convogli insieme ai loro fratelli soldati, proprio come nelle migliori tradizioni delle guerre dell’ultimo mezzo secolo.

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Predator, l’occhio del drone

Difesa/INNOVAZIONE di

Conosciuto come Predator, il velivolo prodotto dalla Generale Atomics statunitense appartiene alla categoria degli aeromobili a pilotaggio remoto (APR). Si tratta di un drone, una macchina cioè in grado di operare attraverso un sistema di comandi a distanza, via radio, senza mettere in pericolo la vita dell’essere umano (alcune versioni sono in grado di impiegare missili, permettendone così l’utilizzo non solo come ricognitore ma anche con compiti di attacco). Il Predator, in realtà, costituisce solamente l’aspetto visibile di un intero sistema composto, oltre che dal velivolo stesso, da una stazione di controllo al suolo ed un satellite. Al suolo sono presenti il pilota, un operatore ed un ingegnere di volo, che coordinano e gestiscono i dati inviati in tempo reale dal velivolo. Il satellite rappresenta invece l’elemento che permette ai sensori a bordo di inviare informazioni a terra ed alla postazione a terra di comandare il velivolo. Grazie a questa triangolazione, i dati rilevati dal radar e dal sensore ottico posto sotto il muso del Predator garantiscono di operare ognitempo garantendo efficacia e versatilità.

Entrato in servizio negli Stati Uniti già negli anni novanta, è attualmente utilizzato anche dall’Aeronautica Militare Italiana, che gestisce le operazioni dal 28 gruppo Velivoli Teleguidati di Martina Franca e dal 32 stormo con sede ad Amendola.  L’Italia è infatti la prima nazione europea a dotarsi di questi velivoli.

Contrariamente a quanto potrebbe a prima vista sembrare, il Predator non è destinato ai soli impieghi in teatri di guerra, ma può assolvere a diversi compiti in altrettanti scenari operativi. Numerose e differenti sono state, infatti, le occasioni che lo hanno visto operare: da Antica Babilonia in Iraq all’Afghanistan, al supporto fornito durante il G8 svoltosi a L’Aquila. Inoltre, è attualmente operativo con compiti di ricerca e soccorso nella missione Mare Nostrum. Il Predator, infatti, diventa fondamentale ausilio in missioni di ricognizione, sorveglianza ed acquisizione di obiettivi, compiti che sono alla base dello sviluppo del suo progetto. La sua versatilità inoltre ne rendo l’impiego molteplice, in quanto si rivela indispensabile nel riconoscere pericoli e gestire eventi di grande importanza e situazioni di rischio, quali ad esempio cataclismi naturali, contaminazioni biologiche o nucleari, ecc. Il suo utilizzo si apre ad un’ampia gamma di operazioni, anche e soprattutto nel campo della prevenzione e protezione civile, grazie a caratteristiche e capacità operative che ne garantiscono l’impiego ad alte quote pur mantenendo ottime prestazioni in termini di qualità d’immagini e video trasmessi.

L’innovazione bellica raccoglie come sempre critiche e consensi. Numerose sono state le contestazioni mosse contro lo sviluppo e l’utilizzo di questo tipo di tecnologia. Se ne è criticato infatti l’eccessivo costo, ponendo l’attenzione sulle enormi risorse finanziarie che questo tipo di programma comporta, oppure sull’effettivo utilizzo di queste macchine a volte (non è il caso italiano) utilizzate per perseguire scopi politici o militari al di fuori delle missioni ufficiali in cui esse devono essere impiegate.

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L’ISIL rispolvera l’antico mito del califfato. Come e perchè il ritorno ad un califfato può rianimare gli spiriti arabi nella regione.

Difesa/Medio oriente – Africa di

Sarà un caso che il movimento per lo Stato Islamico per l’Iraq e il Levante (ISIL) abbia ritrovato tra la sabbia il life motiv che ha per secoli moderato e diretto le politiche estere nel quadrante medio orientale?

In realtà il califfato (in arabo “vicariato”) ha per secoli regnato in varie forme nel Medio Oriente ed in Africa spingendosi fino in Spagna: rispettivamente i califfati di Baghdad, Il Cairo e Cordoba. Il termine stesso richiama alla memoria nostalgica i racconti del grande impero islamico e del sogno di riunire sotto un unico califfato appunto, tutte le genti di fede islamica. L’ISIL ha ormai messo in atto una politica di vera e propria riconquista dei territori tra Iraq e Siria e sicuramente, se l’obiettivo resta quello dichiarato, ci si può attendere un ulteriore inasprimento dei conflitti.

Le parole del segretario di stato americano Kerry che invita a considerare la minaccia come pericolo imminente per tutta la regione sono senz’altro da prendere in seria considerazione, data la capacità che certi richiami hanno di far rivivere un grande spirito unitario nel mondo arabo. Di certo occorrerebbe indagare quali possibili legami potrebbero esserci tra questo gruppo ed i vari governi interessati direttamente o indirettamente alla questione. Quale che sia il retroterra culturale del gruppo dell’ISIL, che ormai conta numerosi membri provenienti anche dall’esterno dei confini iracheni ed arruola nel percorso anche giovani e giovanissimi, non vi è dubbio che il collante che rende tale appello di grande portata e che stimola un forte senso di appartenenza sia quello del richiamo alla comune fede islamica. Richiamo che è in grado di rappresentare un fortissimo elemento coagulante non solo per i fedeli iracheni o siriani ma per i musulmani di tutta l’area.

Il mondo islamico, da sempre intrappolato all’interno di confini stretti e scomodi, spesso risultato di divisioni straniere ed appannaggio di governi dittatoriali non è mai stato percepito, come invece accade per le altre religioni, come un mondo all’interno del quale convivessero diverse realtà statuali accomunate dalla fede. E’ piuttosto un’unione di fedeli che non riconoscono, a differenza degli occidentali barriere o confini. Senza esagerare, possiamo affermare che la prospettiva di un nuovo califfato sarebbe in grado di raccogliere consensi da una larga parte del mondo musulmano, parte del quale sicuramente avrebbe da ridire però sulle modalità terroristiche di conduzione di tale processo da parte del gruppo.

Il carattere intimamente e dichiaratamente universale della religione islamica è da sempre al centro di un duplice e contrastante antagonismo: la sua tendenza universale (che nella storia ha conosciuto illuminati periodi di convivenza con tutti gli altri credi) si frappone ad un forte sentimento nostalgico il cui riferimento risiede in un passato glorioso di cui ci si augura il ritorno. Il contrasto tra una pressione potremmo dire fisiologica  verso l’esterno tipica di una religione che si è spinta fino in Europa ed uno sguardo sempre puntato al passato rendono la fede islamica, soprattutto se collocata in un mondo globalizzato, estremamente instabile in alcune sue derivazioni e soggetta spesso alle più diverse manipolazioni.

La creazione di un nuovo ordine che l’ISIL riconosce nel fondamentalismo islamico, sebbene sia in grado di attirare l’attenzione di tutto il mondo musulmano poichè richiama la resistenza all’oppressione occidentale e la riunione del popolo musulmano, sembra però essere meno pervasiva di quanto sembra. Gli episodi di massacri e violenze perpetrati durante le continue avanzate e ritirate dei miliziani non sono di certo una buona pubblicità per le finalità del gruppo. Esso non ha al momento appoggio interno né esterno in grado di legittimare a livello popolare le operazioni di guerriglia. Sta ingaggiando conflitti perfino in Siria, dove anche le forze ribelli approntano sbarramenti e si oppongono. Bisogna però augurarsi che le azioni dell’ISIL non fungano da esempio per i vari gruppi fondamentalisti che sono sparsi al di fuori della regione, dal Corno d’Africa all’area sahelo-sahariana.

Francesco Danzi
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