GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Francesca Scalpelli - page 17

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Al via l’ultima fase dei negoziati per la Brexit

EUROPA di

Mercoledì 19 settembre, durante un summit speciale nell’ambito del Consiglio europeo in corso a Salisburgo, la Prima Ministra britannica, Theresa May, ha tenuto un discorso con l’intento di aggiornare i leader europei sullo stato delle trattative per la Brexit, segnando, secondo alcuni, l’inizio dell’ultima fase dei negoziati con l’Unione europea.

Le due parti, nonostante i vari mesi di negoziati, non hanno ancora raggiunto un’intesa sulle due questioni cruciali: il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord e le future relazioni commerciali con l’Unione europea. Tuttavia, la Prima Ministra May ha affermato che il Regno Unito non ha intenzione di prorogare i negoziati e dunque l’avvio della Brexit, previsto per il 29 marzo del prossimo anno e ha dichiarato che l’onere di portare a termine l’accordo è di tutti. Per ragioni tecniche tale accordo dovrà essere concluso entro la metà di novembre, in quanto alla fine del mese avrà luogo un vertice straordinario per ufficializzare l’accordo. Pertanto, i negoziatori, hanno a disposizione meramente altri due mesi per decidere se vi sarà un accordo o una Brexit “no deal”. “Riconosciamo tutti che il tempo è breve, ma estendere o ritardare questi negoziati non è un’opzione” ha dichiarato la May.

Relativamente alla prima questione cruciale nell’ambito dei negoziati, vale a dire il confine tra Irlanda ed Irlanda del Nord, è importante evidenziare che la frontiera irlandese è lunga circa 400 km e le problematiche da risolvere riguardano le persone e le merci che quotidianamente passano dalla Repubblica dell’Irlanda – Stato membro dell’UE – all’Irlanda del Nord, parte del Regno Unito. Si stima che circa un milione di persone viva nelle comunità di confine. Il rischio è attuare misure troppo restrittive o poco efficienti che potrebbero alimentare vecchie tensioni. A tal proposito le posizioni dei negoziatori europei risultano essere molto distanti da quelle dei negoziatori britannici: i primi propongono che l’Irlanda del Nord rimanga sia nel mercato comune europeo che nell’unione doganale e ciò avrebbe come conseguenza l’istituzione di una sorta di dogana tra Irlanda del Nord e la restante parte del Regno Unito, tuttavia ciò eviterebbe la ricostruzione di una frontiera tra Irlanda e Irlanda del Nord; “L’idea che dovrei approvare la separazione legale del Regno Unito in due territori doganali non è credibile” ha affermato Theresa May; i negoziatori britannici, infatti, affermano che una situazione di questo tipo violerebbe l’integrità territoriale del Regno Unito, pertanto propongono una serie di misure volte a ridurre al minimo i disagi posti in essere dalla creazione di una nuova frontiera. Relativamente alla questione delle future relazioni commerciali tra Unione europea e Regno Unito, vige ancora molta incertezza, causata soprattutto dalla mancanza di precedenti: i negoziatori europei propongono già da tempo un accordo commerciale di libero scambio sulla base di quelli stipulati recentemente con il Canada ed il Giappone; tuttavia, i Paesi che intrattengono dei legami commerciali più stretti con il Regno Unito, come Svezia, Paesi Bassi e Danimarca propongono un accordo che preveda una maggiore collaborazione; anche il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, predilige tale opzione.

Nel corso del suo breve discorso, Theresa May, ha insistito sulle proposte britanniche contenute nella piattaforma negoziale, varata in estate nell’ambito della riunione di governo di Chequers, definendole “serie” e difendendole dalle proposte di modifiche ribadite dai leader dell’Unione europea.Tali proposte a suo avviso “consentono di mantenere un commercio senza frizioni “e si pongono come il solo “piano credibile e negoziabile sul tavolo che rispetta il voto del popolo britannico e al tempo stesso non crea una frontiera chiusa tra Irlanda del Nord e Irlanda”. Inoltre, non ha aperto spiragli relativi all’ipotesi di un secondo referendum sulla Brexit, smentendo gli auspici fatti in alcune interviste televisive dai premier di Malta e Repubblica Ceca.

Il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha dichiarato, in maniera poco ottimistica, che l’intesa risulta essere ancora lontana, mentre il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk ha affermato che le proposte britanniche devono essere “rielaborate ed ulteriormente negoziate” ed ha aggiunto che “vari scenari sono ancora possibili” a conferma del fatto che raggiungere un accordo non è ancora facile. La Cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha detto di sperare in una Brexit “che si svolga in una buona atmosfera, con grande rispetto tra le parti e con un accordo che renda possibile una cooperazione tra Ue e Regno Unito in settori come la sicurezza”.

In seguito al discorso della May, non si è aperto alcun dibattito, dato che la questione Brexit era l’ultimo tema inserito nell’agenda.

Relativamente ai prossimi sviluppi, al termine del Consiglio europeo ci si attende una dichiarazione congiunta di tutti gli Stati membri. I negoziati riapriranno il 3 ottobre, alla fine del congresso nazionale del Partito conservatore britannico, il partito della May. Entro il 18 ottobre, data in cui si riunirà nuovamente il Consiglio europeo, si auspica che i negoziatori abbiano trovato un accorto per tutte le questioni lasciate in sospeso. A fine novembre, nell’ambito della riunione straordinaria del Consiglio europeo vi sarà l’ufficializzazione degli accordi. Fino a novembre potrebbero mutare molte questioni ed il rischio è che, alla fine dei negoziati, non si raggiunga un accordo. Questo è considerato da tutti il peggior risultato possibile dei negoziati in quanto avrebbe delle conseguenze notevoli sull’economia e sulla burocrazia del Regno Unito nonché dei Paesi limitrofi. Tuttavia tale ipotesi, ad oggi, risulta essere ancora la meno probabile.

Il Parlamento europeo contro l’Ungheria di Orbán

EUROPA di

Mercoledì 12 settembre, il Parlamento europeo riunito a Strasburgo, ha approvato la mozione contenuta nella relazione Sargentini sullo Stato di diritto in Ungheria, votando a favore dell’attivazione delle procedure per l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona.

Quest’ultimo prevede che il Consiglio a maggioranza dei quattro quinti possa inviare un monito ad uno Stato membro che viola lo Stato di diritto; la proposta della Commissione europea, di un terzo degli Stati membri o del Parlamento possono far scattare la procedura. Si tratta della cosiddetta “opzione nucleare”, espressione utilizzata negli ambienti delle istituzioni europee, al fine di porre l’accento sulla rarità e sulla gravità delle sanzioni applicate nei confronti degli Stati membri che violano lo Stato di diritto e si pongono in contrasto con i valori fondanti dell’Unione europea.

Il Parlamento europeo, dunque, ha invitato gli Stati membri ad agire nei confronti dell’Ungheria al fine di prevenire una minaccia sistemica ai valori comunitari fondanti. Tali valori sono sanciti dall’Articolo 2 del Trattato UE e ripresi all’interno della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, tra i quali rilevano il rispetto per la democrazia, l’uguaglianza, lo Stato di diritto ed i diritti umani.

Gli eurodeputati chiedono, dunque, agli Stati membri di avviare la procedura prevista dall’articolo 7, paragrafo 1 del Trattato di Lisbona, affermando che nonostante le autorità ungheresi si siano sempre mostrate disponibili a discutere in merito alla legalità di qualsiasi misura specifica, “la situazione non è stata affrontata e permangono molte preoccupazioni, che hanno un impatto negativo sull’immagine dell’Unione, nonché sulla sua efficacia e credibilità nella difesa dei diritti fondamentali, dei diritti umani e della democrazia a livello mondiale, e rivelano la necessità di affrontarle mediante un’azione concertata dell’Unione”.

Il Parlamento europeo ha inoltre ricordato che l’adesione dell’Ungheria all’Unione europea è stato un atto volontario fondato su una decisione sovrana, dotata di un ampio consenso tra tutti gli schieramenti politici e ha sottolineato che ciascun governo ha il dovere di eliminare il rischio di una grave violazione dei valori dell’UE, anche se “tale rischio è una conseguenza duratura delle decisioni politiche suggerite o approvate dai governi precedenti”.

Negli ultimi anni i governi ungheresi sono stati spesso accusati di avere indebolito le proprie istituzioni democratiche nonché lo Stato di diritto, oltre che di aver favorito la discriminazione nei confronti delle minoranze etniche. L’eurodeputata della Sinistra Verde, Judith Sargentini, incaricata dal Parlamento di esaminare la situazione del Paese, ha pubblicato un lungo e dettagliato rapporto in cui sostiene che l’Ungheria sta violando le regole democratiche e lo Stato di diritto; tale rapporto è stato oggetto della discussione che avuto luogo martedì 11 settembre al Parlamento europeo, alla presenza dello stesso Viktor Orbán; quest’ultimo ha affermato “Il mio intervento non vi farà cambiare opinione, ma sono venuto lo stesso. Non condannerete un governo, ma l’Ungheria che da mille anni è membro della famiglia europea. Sono qui per difendere la mia patria” e ha aggiunto “L’Ungheria sarà condannata perché ha deciso che non sarà patria di immigrazione. Ma noi non accetteremo minacce e ricatti delle forze pro-immigrazione: difenderemo le nostre frontiere, fermeremo l’immigrazione clandestina anche contro di voi, se necessario.

Nel dettaglio, le preoccupazioni del Parlamento si riferiscono alle seguenti questioni: il funzionamento del sistema costituzionale e del sistema elettorale; l’ indipendenza della magistratura e di altre istituzioni; i diritti dei giudici; la corruzione ed i conflitti di interesse; la tutela della vita privata e la protezione dei dati; la libertà di espressione; la libertà accademica; la libertà di associazione; il diritto alla parità di trattamento; i diritti delle persone appartenenti a minoranze, compresi i rom e gli ebrei nonché la protezione dalle dichiarazioni di odio contro tali minoranze; i diritti fondamentali dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati; infine, i diritti economici e sociali.

La decisione è stata approvata con 448 voti favorevoli, 197 contrari e 48 astensioni. Era necessaria una maggioranza dei due terzi sui voti espressi e un minimo di 376 voti a favore. La maggioranza a favore dell’attivazione della procedura è stata più ampia del previsto, a otto mesi dalle elezioni europee molti eurodeputati hanno deciso di prendere le distanze dell’Ungheria. Fra i principali partiti italiani il Partito Democratico ed il Movimento 5 Stelle hanno votato a favore dell’attivazione dell’Articolo 7, mentre la Lega e Forza Italia avevano già annunciato il loro voto contrario. La maggioranza Lega – Movimento 5 Stelle che sostiene il governo italiano, si è dunque spaccata sulla questione, così come è successo per l’Austria ed il Belgio.

La relatrice Judith Sargentini ha dichiarato “Nella settimana in cui si discute lo Stato dell’Unione, il Parlamento europeo invia un messaggio importante: difendiamo i diritti di tutti gli europei, compresi i cittadini ungheresi, e difendiamo i nostri valori europei. I leader europei devono ora assumersi le proprie responsabilità e smettere di guardare dall’esterno, poiché lo Stato di diritto viene distrutto in Ungheria. Per un’Unione costruita su democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali, ciò è inaccettabile” e ha aggiunto “Non credo che questo o qualunque altro voto o discorso farà cambiare idea all’Ungheria, invertendo il corso delle sue politiche, altrimenti il Governo avrebbe già risposto alle infrazioni aperte dalla Commissione. Ma questo voto non era indirizzato all’Ungheria, bensì agli altri 27 Paesi dell’Ue”.

L’ “opzione nucleare”, al termine di un procedimento complesso, potrebbe condurre alla rimozione del diritto di voto dell’Ungheria in sede europea; tuttavia occorre il voto favorevole di tutti gli altri 27 Stati; a tal proposito la Polonia – contro cui la Commissione europea, lo scorso anno, ha avviato un procedimento dell’articolo 7, ma finora senza l’espressione del Consiglio – ha già lasciato intendere che si schiererà a favore dell’Ungheria.

Relativamente alle prossime tappe, ora spetterà agli Stati membri assumere una posizione: questi ultimi possono, deliberando a maggioranza di quattro quinti, determinare l’esistenza di un chiaro rischio di grave violazione dei valori dell’Unione europea da parte dell’Ungheria. Il Consiglio dovrebbe prima ascoltare le opinioni delle autorità ungheresi e ogni eventuale decisione dovrà ricevere il consenso del Parlamento. Rilevante è che gli Stati membri possono anche decidere di rivolgere delle raccomandazioni all’Ungheria, affinché venga affrontata la situazione di rischio di violazione.

In una fase successiva, il Consiglio europeo può determinare, all’unanimità e con l’approvazione finale del Parlamento, l’esistenza nello Stato membro in questione di una grave e persistente violazione (non più rischio) dello Stato di diritto, della democrazia e dei valori fondanti dell’Unione europea. Ciò potrebbe, in conclusione, condurre a delle sanzioni.

Dall’UE 300 milioni di euro per le PMI italiane dei settori culturali e creativi

EUROPA di

In arrivo dall’Unione europea l’erogazione di finanziamenti pari a 300 milioni di euro destinati alle Piccole e Medie Imprese italiane (PMI) attive nei settori culturali e creativi. Nel dettaglio, il 3 settembre, è stato sottoscritto un accordo di garanzia tra il Fondo Europeo per gli Investimenti (FEI) e l’Istituto Nazionale di Promozione Cassa Depositi e Prestiti (CDP), nell’ambito della Cultural and Creative Sectors (CSS) Guarantee Facility del Programma “Europa Creativa”.

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L’Unione europea aggiorna il regolamento di blocco a sostegno dell’accordo sul nucleare iraniano

EUROPA di

In seguito alla decisione unilaterale degli Stati Uniti d’America di imporre sanzioni extraterritoriali contro l’Iran e di ritirarsi dal Joint Comprehensive Plan of Action(JCPOA) – l’ accordo sul nucleare iraniano firmato nel 201- il 7 agosto, è entrato in vigore il regolamento delegato UE 2018/ 1100 della Commissione europea, il quale ha modificato l’allegato del regolamento CE 2271/96 del Consiglio, risalente al 1996, relativo alla protezione dagli effetti extraterritoriali derivanti dall’applicazione di una normativa adottata da un paese terzo e dalle azioni su di essa basate o da essa derivanti.

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Crisi Ucraina: il Consiglio dell’UE aggiunge alla black list sei entità coinvolte nella progettazione e nella costruzione del ponte di Kerch

EUROPA di

Il 31 luglio, il Consiglio dell’Unione europea, operando ai sensi del regolamento UE n. 269/2014 del 17 marzo 2014, ha aggiunto sei entità alla “black list” relativa alle persone, alle entità ed agli organismi oggetto di misure sanzionatorie a causa di azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina.

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Migranti: l’Unione europea propone l’istituzione di centri controllati di accoglienza e la conclusione di accordi regionali di sbarco

EUROPA di

Negli ultimi anni e significativamente dal 2015 – anno in cui si è registrato un raddoppio del numero delle persone che hanno attraversato le frontiere esterne dell’Unione europea – la crisi dei migranti ha posto in evidenza i limiti del sistema europeo di asilo, spingendo l’UE all’azione.

Rispondendo all’invito effettuato nell’ambito delle conclusioni stilate dai leader dell’UE in seno al Consiglio europeo il 28 e 29 giugno, la Commissione europea, nell’ambito del tentativo di dar vita ad un progetto di condivisione della questione dei flussi migratori, ha approfondito il concetto di centri controllati di accoglienza e ha preso in analisi varie misure a breve termine, aventi l’obiettivo di delineare una possibile via da seguire per la stipulazione di accordi regionali di sbarco con paesi terzi, misure che potrebbero essere adottate per migliorare la gestione dei flussi migratori.

Nel dettaglio, al fine di migliorare l’elaborazione e la registrazione dei migranti che sbarcano nell’Unione europea, è stata proposta l’istituzione di centri controllati di accoglienza, su base volontaria, nel territorio dell’Unione, aventi l’obiettivo di agevolare ed accelerare il processo di distinzione tra individui bisognosi di protezione internazionale e migranti irregolari. Tali centri sarebbero gestiti dallo Stato membro ospitante, con il sostegno dell’Unione europea e delle varie agenzie UE, inoltre, avrebbero carattere temporaneo o ad hoc, a seconda della loro ubicazione territoriale.

Tali centri controllati di accoglienza sarebbero dotati di un pieno supporto operativo con squadre di sbarco delle guardie di frontiera europee, esperti in materia di asilo, esaminatori del livello di sicurezza, ufficiali di rimpatrio e tutte le spese coperte dal bilancio UE; essi garantirebbero l’elaborazione e la registrazione dei migranti rapida, sicura ed efficace, fronteggiando il rischio di movimenti secondari ed accelerando il processo per determinare lo status dell’individuo interessato; inoltre, vi sarebbe un pieno sostegno finanziario agli Stati membri volontari al fine di coprire i costi operativi e delle infrastrutture, nonché un sostegno finanziario fornito altresì agli Stati membri che accettano il trasferimento dei migranti, pari a 6.000 € a persona.

Per testarne l’efficacia, il prima possibile potrebbe essere avviato un progetto pilota dotato di un approccio flessibile.

In tale contesto la Commissione europea assumerebbe un ruolo di coordinamento tra gli Stati membri che volontariamente partecipano a tali azioni di solidarietà ed in particolare, avrebbe un ruolo chiave nel processo di redistribuzione dei migranti; ciò a titolo provvisorio, nell’attesa dell’istituzione di un meccanismo completo nell’ambito delle riforme del sistema comune europeo in materia di asilo.

Oltre al progetto di istituzione dei centri controllati di accoglienza, i leader dell’Unione europea hanno altresì chiesto alla Commissione di prendere in analisi il progetto di stipulazione di accordi regionali di sbarco, in stretta cooperazione con l’International Organization for Migration (IOM) e l’United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) ed in collaborazione con Stati terzi.

L’obiettivo di tali accordi sarebbe quello di fornire ai migranti soccorsi uno sbarco rapido e sicuro su tutte le sponde del Mediterraneo, ai sensi delle regole dettate dal diritto internazionale, tra le quali si profila il principio del non respingimento e di una procedura resppnsabile post-sbarco; inoltre, l’intenzione è quella di garantire la formazione di una responsabilità regionale realmente condivisa, nell’ottica per cui una sfida globale necessità di una risposta altrettanto congiunta.

Tali accordi regionali di sbarco dovrebbero essere dotati di norme chiare per tutti: in particolare, al fine di ridurre il numero delle persone decedute in mare e garantire uno sbarco il più possibile ordinato e prevedibile, tutti gli Stati costieri del Mediterraneo dovrebbero essere motivati e stimolati ad istituire zone di ricerca e soccorso, nonché Centri di coordinamento del salvataggio marittimo (MRCCs); inoltre, vi sarebbe il ruolo cruciale dell’UNHCR e dell’OIM, volti  a garantire protezione ed eventuali programmi di reinsediamento ai migranti; i partenariati si svolgerebbero su un piano di parità: in particolare il progetto con i paesi terzi interessati sarebbe condotto sulla base di partenariati già esistenti, inoltre, sarebbe offerto un adeguato sostegno alle loro specifiche situazioni politiche, socioeconomiche e di sicurezza; relativamente alle possibilità di reinsediamento, esse non sarebbero disponibili per tutti i migranti sbarcati che necessitano di protezioni internazionale, inoltre, i centri di accoglienza dovrebbero essere istituiti il più lontano possibile dai punti di partenza irregolari; rilevante è che non ci sarebbe nessun campo e nessun centro di detenzione, bensì centri operanti nel rispetto dei diritti umani; infine, il progetto sarebbe dotato del supporto finanziario e logistico dell’UE, per tutte le attività di sbarco e post-sbarco, nonché per la gestione delle frontiere.

Con riguardo agli sviluppi successivi, tale proposta sarà analizzata nell’ambito delle imminenti riunioni istituzionali dell’Unione europea, inoltre, sarà oggetto di un summit con l’OIM e l’UNHCR che si terrà a Ginevra il 30 luglio; solo dopo aver concordato un approccio comune, l’UE coinvolgerà gli Stati terzi interessati.

Il Commissario europeo per le migrazioni, Dīmītrīs Avramopoulos, ha dichiarato: “Ora più che mai abbiamo bisogno di soluzioni europee comuni in materia di migrazione, siamo pronti a sostenere gli Stati membri ed i paesi terzi nella cooperazione, ma per far funzionare tutto, dobbiamo essere uniti, non solo ora, ma anche a lungo termine, dobbiamo lavorare verso soluzioni sostenibili “.

 

L’Unione europea e la Cina intensificano la cooperazione

ECONOMIA di

Il 16 luglio, contemporaneamente al vertice di Helsinki tra Donald Trump e Vladimir Putin, a Pechino si è tenuto il 20° summit tra Unione europea e la Repubblica Popolare Cinese.

L’UE, rappresentata dal Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker e dal Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, si è dunque seduta per la ventesima occasione al tavolo delle negoziazioni con la Cina, rappresentata dal Primo Ministro Li Keqiang, firmando una dichiarazione congiunta.

Al summit hanno altresì partecipato il vicepresidente della Commissione europea per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e la competitività, Jyrki Katainen, la commissaria europea per il commercio, Cecilia Malmström, nonché il commissario per i trasporti, Violeta Bulc; inoltre Tusk e Juncker hanno avuto l’occasione di incontrare il Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping.

A partire dal 1998 il summit in questione si tiene regolarmente ogni anno, fatta eccezione del 2008 e del 2011, anni in cui esso venne sospeso a causa dell’inasprimento delle tensioni tra l’Unione europea e la leadership cinese.

Le relazioni diplomatiche tra UE e Cina sono state avviate solo nel 1975 ed è rilevante che la vocazione universale e giuridica propria dell’Unione europea si è spesso scontrata con la vocazione centralizzata e politica della Repubblica Popolare Cinese; tali relazioni sono state caratterizzate nel corso degli anni da avvenimenti come le forti restrizioni imposte dall’Unione in seguito al massacro di Tiananmen del 4 giugno 1989, l’avvicinamento avvenuto alla fine del secolo scorso dovuto al dibattito sull’entrata della Cina nel World Trade Organization (WTO) ed il successivo inasprimento delle relazioni diplomatiche causato dalle repressioni in Tibet del 2008.

La dichiarazione congiunta, frutto del 20° summit, costituita da quindici pagine, illustra l’impatto positivo che tale partenariato può avere, in particolare nel fronteggiare le sfide globali e regionali quali i cambiamenti climatici, le minacce alla sicurezza e la promozione di un commercio aperto ed equo. Il documento rimanda spesso alle regole dell’ordinamento internazionale ed ai pilastri del sistema dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, vale a dire pace e sicurezza, sviluppo e diritti umani, affermando che le due parti si impegnano a risolvere in maniera pacifica le controversie, ai sensi del diritto internazionale.

All’interno delJoint Statement appare evidente come le due parti abbiano tentato di rafforzare i punti di connessione, in virtù delle recenti tensioni nelle relazioni con gli USA.

In particolare, la denuclearizzazione della penisola coreana risulta essere una priorità per entrambe le parti, le quali concordano che l’organizzazione di vertici tra Stati Uniti e Corea del Nord nonché tra quest’ultima e la Corea del Sud, rappresentano la giusta via da intraprendere al fine di giungere ad una risoluzione della crisi coreana; inoltre, a tal proposito, le parti hanno affermato la fondamentale importanza per la non-proliferazione internazionale del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), il trattato sul nucleare iraniano. In tale settore, dunque, l’Unione europea e la Cina si schierano in modo unitario contro le recenti politiche intraprese da Donald Trump.

Le due parti condividono anche la speranza di un processo di pace in Medioriente, fondato sull’istituzione di due stati, in grado di vivere “l’uno vicino all’altro, in sicurezza, all’interno di un sistema internazionale in cui vengono riconosciuti i confini, con Gerusalemme loro capitale”; pertanto, anche in tale settore, la Cina e l’UE inviano un chiaro segnale alle politiche pro-israeliane intraprese dal presidente statunitense, a cui gran parte del mondo è avverso.

Inoltre, all’interno della dichiarazione, si afferma l’esigenza della risoluzione della crisi siriana, mediante maggiori aiuti umanitari e protezione della popolazione civile e si definisce come il processo di pacificazione in Afghanistan debba rimanere una questione interna, priva di interferenze di forze esterne.

E‘evidente che tutti i conflitti presi in considerazione dai due partner riguardano zone in cui sia Bruxelles che Pechino vantano interessi particolari, legati sia alla sicurezza che all’economia.

Relativamente all’economia ed al commercio, Cina ed Unione europea, alla luce delle tensioni tra USA e Cina nonché tra USA e UE, hanno rafforzato un dialogo precedentemente meno evidente,  al fine di promuovere “un’economia mondiale aperta, incrementando la liberalizzazione del commerci e  degli investimenti, resistendo al protezionismo e all’unilateralismo, rendendo possibile una globalizzazione ancora più aperta, bilanciata, inclusiva e beneficiaria per tutti”; inoltre i leader hanno affermato di impegnarsi a favore di una riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio;

“È un dovere comune dell’Europa e della Cina, dell’America e della Russia, non distruggere questo ordine, ma migliorarlo; non avviare guerre commerciali, che così spesso nella nostra storia si sono trasformate in accesi conflitti, ma riformare in modo coraggioso e responsabile l’ordine internazionale fondato su determinate regole” ha sostenuto il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk.

All’interno del Joint Statement si fa altresì riferimento alle possibilità di maggiore interconnessione marittima, aerea, su ferro e su gomma conferite dalla “Nuova Via della Seta”, nonché dal Piano di investimenti dell’UE e dal Network Trans-Europeo dei Trasporti.

In conclusione, rilevante è l’introduzione senza precedenti del Fondo di Co-investimento UE-Cina, il quale si configura come una valida alternativa all’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB).

Il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha affermato ” Sono sempre stato un forte sostenitore del potenziale del partenariato UE-Cina e nella realtà attuale tale partnership è più importante che mai”.

L’Unione europea e la Cina, dunque, hanno intenzione di intraprendere al meglio la via dello sviluppo delle relazioni diplomatiche, le quali avrebbero ripercussioni sull’intero sistema delle relazioni internazionali.

Cybersecurity: nuova certificazione e più forza all’Agenzia per la sicurezza informatica dell’Unione europea

SICUREZZA di

Alla luce dei mutamenti significativi che si sono verificati nel settore della sicurezza informatica negli ultimi anni e dei crescenti rischi derivati da un mondo connesso attraverso la rete internet, l’Unione europea, ha deciso di rafforzare la resilienza, la dissuasione e la risposta comunitaria agli attacchi informatici. Questi ultimi, infatti, risultano essere costanti e rileva che entro il 2020 sono previsti decine di miliardi di dispositivi digitali connessi nell’UE.

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La Turchia alle urne, Erdogan rieletto con l’52% delle preferenze

EUROPA di

“Una lezione di democrazia”, così Recep Tayyip Erdoğan ha definito il proprio trionfo al primo turno delle elezioni presidenziali e politiche turche, tenutesi il 24 giugno.

Circa l’87% dei 59 milioni di cittadini aventi diritto di voto si è recato alle urne, facendo registrare un’altissima affluenza. Erdoğan, a capo del Paese da 16 anni, ha ottenuto il 52% dei consensi, mentre il 30% dei votanti si è espresso a favore di Muharrem Ince, rivale del leader dell’AKP e principale candidato dell’opposizione nel voto presidenziale, il quale ha raggiunto un risultato insperato fino a pochi mesi fa che, tuttavia, non gli consente di arrivare al ballottaggio.

Si tratta dunque di un’amara sconfitta per l’opposizione turca. Le aspettative di rovesciare il sistema corrotto e totalitario del Sultano del Bosforo, nella convinzione che fosse sufficiente la vittoria di un candidato diverso per dare avvio ad un vero cambiamento, sono state deluse anche dal risultato delle elezioni politiche, le quali sono state anticipate dal Presidente Erdoğan lo scorso aprile.

Tali elezioni si sono svolte secondo le disposizioni della nuova legge elettorale, approvata a marzo e voluta dall’AKP: in particolare, il nuovo sistema elettorale favorisce le coalizioni e permette ai piccoli partiti che si alleano con forze politiche maggiori di entrare in Parlamento, senza dover superare l’alta soglia di sbarramento. In virtù di tale nuova legislazione, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi, AKP) ed il Partito del Movimento Nazionalista (Milliyetçi Hareket Partisi, MHP) hanno fondato la coalizione denominata Alleanza del popolo, inoltre quattro forze di opposizione, quali il Partito Popolare Repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP), il Partito Buono (iYi) di Meral Aksener, il Partito della felicità (Saadet Partisi, SP) dell’islamista Saadet ed il Partito democratico, si sono unite nella coalizione denominata Millet.

Nel dettaglio, la coalizione che sostiene il Presidente, ha ottenuto il 53% dei voti e dunque la maggioranza assoluta; decisivo per la vittoria è stato il risultato del Partito del Movimento Nazionalista, a cui si appoggerà il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo per governare; quest’ultimo ha ottenuto il 42% dei consensi, registrando un calo del 7% rispetto alla precedente legislatura.

Relativamente al cosiddetto “blocco d’opposizione”, esso rimane intorno al 34%; il Partito Popolare Repubblicano, il più antico partito politico della Turchia,ha ottenuto il 22%, registrando un calo del 23% circa, rispetto alle elezioni del 2015; tutti gli altri partiti d’opposizione alleati si trovano intorno alla soglia di sbarramento del 10%.

Risulta essere rilevante l’ingresso in parlamento di una settantina di deputati della formazione politica filo curda di Selahattin Demirtas e ciò consente un’attenuazione della questione del Kurdistan turco.

L’opposizione, ancora prima dell’apertura delle urne, ha denunciato dei brogli elettorali, contestando i dati ufficiali ed alludendo ad una manipolazione governativa; lo stesso Ince ha affermato: “La competizione non è stata equa ma accetto il risultato”. “Nessuno si azzardi a danneggiare la democrazia gettando ombre su questo risultato elettorale per nascondere il proprio fallimento” ha ammonito il leader dell’AKP con riferimento a tali contestazioni.

In alcuni seggi elettorali lo scrutinio si è rivelato complicato, come ad esempio nel sud-est dell’Anatolia e molti osservatori internazionali sono stati fermati dalle autorità; in particolare, una cittadina italiana, Christina Cartafesta, è stata bloccata a Batman, altri tre cittadini italiani sono stati fermati a Diyarbakir (Kurdistan), tre francesi ad Agri e tre tedeschi a Sirnak; essi sono stati prelevati dai vari seggi da parte degli agenti di polizia, condotti nei commissariati e sottoposti a delle indagini.

L’agenzia di stampa turca Anadolu ha riportato che essi si sono presentati come osservatori dell’OSCE, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, presenti sul territorio turco al fine di verificare la regolarità delle elezioni, ma hanno tentato di interferire nelle operazioni di voto.

Con la conferma di Erdoğan, si profila un nuovo mandato quinquennale caratterizzato da vastissimi poteri accentrati nella figura presidenziale: secondo la riforma costituzionale, approvata dal Parlamento turco nel gennaio del 2017 e confermata con un referendum del 16 aprile 2017, il Presidente è anche capo dell’esecutivo, incorporando le funzioni proprie del Primo Ministro, come il potere di nomina del governo, dei vicepresidenti, di alti funzionari dello Stato, di 12 dei 15 componenti della Corte Costituzionale, di 6 dei 13 membri del Csm, di diplomatici e di rettori universitari, senza la necessità di ricorrere alla fiducia del Parlamento.

Con tale risultato elettorale, dunque, Erdoğan ha formalizzato il processo di trasformazione della Turchia in una Repubblica presidenziale di stampo autoritario.

Il contesto in cui si inserisce il nuovo mandato di Erdoğan risulta essere molto complesso: soprattutto negli ultimi quattro anni le istituzioni statali, le amministrazioni locali, l’esercito, la diplomazia e la giustizia sono stati fortemente provati dalle misure politiche adottate dal Presidente.

In primis, il Sultano ha commesso vari errori economici. Ad oggi gli indici dell’inflazione, dei tassi d’interesse, del rapporto tra il PIL ed il debito pubblico e del disavanzo di bilancio continuano a salire ed al contempo la lira turca sta perdendo valore. La priorità del nuovo governo sarà, dunque, l’economia.

Inoltre, cruciale sarà la politica estera, caratterizzata negli ultimi anni dalle tensioni con l’Iraq, dall’occupazione della Siria, dalla questione del Kurdistan e dalle relazioni sempre più complesse con i Paesi limitrofi ed occidentali.

Rilevante è anche la presenza nel Paese dei profughi siriani ed il numero cospicuo di jihadisti bloccati nel territorio tra Siria e Turchia.

A ciò si aggiungono le tensioni interne, le quali rischiano di degenerare in un conflitto.

La situazione turca così descritta attira l’attenzione dell’Unione Europea ed in particolare, all’indomani di tali elezioni turche, il portavoce della Commissione europea, Margaritis Schinas, ha affermato: “La Commissione europea si augura che sotto la presidenza di Erdogan la Turchia rimanga impegnata con l’Unione europea sui principali temi comuni come le migrazioni, la sicurezza, la stabilità regionale e la lotta contro il terrorismo”.

 

 

 

 

Francesca Scalpelli
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