Il fallimento dei colloqui di Anchorage del 2021 tra Stati Uniti e Russia ha rappresentato un passaggio emblematico dell’attuale crisi diplomatica globale: non soltanto perché ha segnato una brusca interruzione delle relazioni bilaterali, ma perché ha messo in luce la crescente distanza tra modelli di leadership profondamente diversi. Da un lato, l’approccio transazionale e pragmatico di Donald Trump, fondato sull’idea che ogni crisi possa essere risolta attraverso una trattativa bilaterale e una logica di reciproco vantaggio. Dall’altro, la strategia graduale e di lungo periodo di Vladimir Putin, che considera il negoziato come uno strumento subordinato alla posizione di forza ottenuta sul campo. A partire da quel fallimento, questo articolo propone un’analisi comparativa delle esperienze dei due presidenti nella gestione delle trattative per la fine della guerra in Ucraina, evidenziando i punti di forza e le criticità che derivano dai loro percorsi personali, istituzionali e geopolitici.
Nel complesso e prolungato conflitto in Ucraina, le personalità e le esperienze maturate da Donald Trump e Vladimir Putin determinano due approcci profondamente diversi alla gestione delle trattative per un possibile cessate il fuoco o per un accordo di pace. Il confronto tra i due leader non è solo politico, ma strutturalmente legato alle loro traiettorie personali e istituzionali.
Donald Trump: la logica del “deal” e della deterrenza economica
Trump affronta ogni negoziato con una logica transazionale. Da imprenditore passato alla politica, tende a disarticolare il problema nei suoi elementi essenziali e ad andare direttamente al punto. Nella guerra in Ucraina, questo si traduce nel tentativo di individuare rapidamente le leve di pressione (principalmente sanzioni economiche ed isolamento diplomatico) per forzare Mosca ad accettare un compromesso.
Il suo principale vantaggio è la flessibilità: non essendo legato a schemi ideologici o a modelli multilaterali, Trump sarebbe disposto anche a una soluzione bilaterale diretta Washington-Mosca, con Kiev come attore subordinato. Questo semplificherebbe la struttura della negoziazione, ma potrebbe essere percepito come un rischio per l’indipendenza ucraina e per la coesione dell’alleanza occidentale.
Tra i principali vantaggi dell’approccio di Donald Trump vi sono la sua capacità di esercitare una forte pressione economica internazionale, la propensione a cercare soluzioni rapide e dirette senza ricorrere a complessi iter diplomatici, e la volontà — in determinate circostanze — di proporre un “grande accordo” geopolitico capace di ridefinire in modo radicale i rapporti di forza. Tuttavia, questo metodo presenta anche alcuni limiti significativi, tra cui una tendenza a bypassare gli alleati e ignorare i meccanismi multilaterali, una conoscenza relativamente superficiale delle dinamiche strategico-militari e, di conseguenza, il rischio concreto di favorire compromessi poco equilibrati, potenzialmente sfavorevoli agli interessi dell’Ucraina.
Vladimir Putin: la negoziazione come prosecuzione della guerra con altri mezzi
Putin concepisce il processo negoziale come parte dello strumento militare. La trattativa non è un mezzo per fermare il conflitto, ma un momento di riorganizzazione delle forze o di consolidamento del vantaggio. Questa logica si basa su oltre vent’anni di gestione diretta di conflitti (Cecenia, Georgia, Siria, Donbass).
Da un lato, questa esperienza gli consente una visione estremamente realistica degli equilibri politico-militari. Dall’altro, rende quasi impossibile una vera apertura negoziale se non dopo il raggiungimento di un obiettivo tattico concreto. In altre parole, Putin entra in una trattativa solo da una posizione di forza.
Per quanto riguarda Vladimir Putin, i punti di forza del suo approccio risiedono innanzitutto in una profonda conoscenza delle dinamiche militari, maturata attraverso una lunga esperienza nei servizi di sicurezza e nella gestione diretta di conflitti. A ciò si aggiunge una notevole coerenza strategica, accompagnata da una visione di lungo periodo che gli consente di integrare la dimensione negoziale all’interno di un disegno più ampio. In questo senso, la trattativa viene utilizzata come parte integrante dell’offensiva, funzionale a consolidare sul tavolo diplomatico i risultati ottenuti sul campo.
D’altra parte, questo modello presenta anche limiti evidenti, come una scarsa flessibilità nelle fasi negoziali, una ridotta disponibilità al compromesso e una marcata tendenza a prolungare il conflitto nella convinzione che il tempo, più che le concessioni, possa garantire un vantaggio negoziale.
Due modelli inconciliabili?
Le differenze tra i due leader non sono solo stilistiche, ma strutturali. Trump costruisce la trattativa sulla base di un calcolo economico e reputazionale; Putin, su un equilibrio di deterrenza militare e interessi geopolitici di lungo periodo. Da questo dipende anche la loro diversa percezione della fine della guerra:
| Aspetto | Trump | Putin |
|---|---|---|
| Obiettivo negoziale | Raggiungere un accordo (anche imperfetto) | Consolidare un vantaggio strategico |
| Strumento principale | Pressione economica e diplomatica | Potenza militare e controllo territoriale |
| Disponibilità al compromesso | Elevata (se utile all’accordo) | Molto bassa |
| Modalità preferita | Negoziato bilaterale diretto | Negoziato solo da posizione di forza |
In definitiva, ciò che emerge dal confronto tra i due leader è un paradosso strategico: l’efficacia dei loro approcci è strettamente legata ai fattori che, allo stesso tempo, ne limitano il potenziale. Donald Trump, forte della sua esperienza negoziale e dell’abitudine a muoversi in un contesto dominato dalla logica dell’accordo, è in grado di introdurre nella dinamica internazionale elementi di discontinuità tali da spezzare le inerzie e rendere possibile un rapido avvicinamento delle parti. Tuttavia, proprio questa capacità di imprimere uno “shock negoziale” può trasformarsi in un punto debole quando comporta l’imposizione di condizioni che riducono l’autonomia degli attori direttamente coinvolti, minando la legittimità e la sostenibilità a lungo termine dell’intesa raggiunta.
Vladimir Putin, al contrario, dispone di una profonda conoscenza delle dinamiche del potere e della guerra, che gli consente di organizzare la trattativa come parte integrante di una strategia complessiva basata sulla resistenza e sul logoramento. Questo approccio gli permette di ottenere risultati progressivi, consolidando sul piano diplomatico i vantaggi conseguiti sul terreno. Tuttavia, la stessa rigidità strategica che garantisce coerenza nel lungo periodo rischia di impedire qualsiasi rapido mutamento di scenario, rendendo estremamente difficile la costruzione di un compromesso equilibrato in tempi brevi.
In altri termini, Trump privilegia la rapidità del risultato, anche a costo di sacrificare la stabilità dell’equilibrio politico, mentre Putin privilegia la stabilità dell’impianto strategico, anche a costo di prolungare il conflitto nel tempo. È per questo che, nella prospettiva di un reale accordo di pace, nessuno dei due approcci risulta completamente sufficiente da solo: il primo ha bisogno di essere moderato da processi multilaterali, il secondo necessita di un incentivo esterno che rompa il meccanismo di logoramento che lo sorregge.
