Migrazioni, quanto siamo disposti a sacrificare per accogliere tutti?

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La storia dell’essere umano ha sempre annoverato spostamenti di individui o di interi popoli da un territorio all’altro. Sembra che tutto sia cominciato già agli albori dell’umanità e i paleo-antropologi ci parlano di numerosi tipi di umanoidi che, in periodi differenti, lasciarono l’Africa per disperdersi poi nell’intero mondo. Avevano caratteristiche morfologiche e somatiche così diverse tra loro da non essere considerati un unico genere bensì specie e sottospecie. Noi siamo i diretti discendenti di uno di quei ceppi, apparentemente l’unico sopravvissuto: l’homo sapiens sapiens, a sua volta successivo all’homo sapiens.

Non abbiamo notizie sufficienti per capire i motivi dell’estinzione di alcuni di quei “tipi” ma si immagina che si sia trattato, come in altre specie, dei meccanismi dell’evoluzione. Anche quanto tempo ci sia voluto e come gli umani si siano diffusi su tutti i continenti non ci è dato sapere. Ciò che sappiamo è che migrazioni importanti sono sempre avvenute anche successivamente, in tempi storici, e nella maggior parte dei casi non si è trattato di spostamenti pacifici. Non sapremo mai come siano andate le cose tra i “sapiens” che arrivavano da oriente e i neandertaliani già stanziati in Europa. Ciò che sappiamo è che, a un certo punto, i secondi si sono estinti e i primi si son sparpagliati su tutto il continente diventando i nostri antenati. Anche in tempi molto piu’ recenti gli spostamenti sono continuati e, come sempre è stato, gli incontri tra popoli diversi sono stati ogni volta conflittuali. Noi ricordiamo quelle che chiamiamo “invasioni barbariche” ai tempi dei romani, l’espansione araba, Gengis Khan e i mongoli, i turchi e tante altre migrazioni. Non dovremmo, tuttavia, dimenticare ciò che noi europei abbiamo fatto degli abitanti autoctoni nelle Americhe e la sorte degli aborigeni in Australia.

Questi sono solo alcuni degli esempi di movimenti numericamente importanti ma ciò che tutti li accomuna è la disgraziata sorte di chi questi spostamenti li ha subiti. Non è mai stato importante l’atteggiamento ospitale o, al contrario, di rifiuto di chi si vedeva arrivare quei “diversi”: qualunque fosse stato l’approccio, gli abitanti originari di quelle zone hanno subito sconvolgimenti drammatici, fino, in qualche caso, a scomparire del tutto, come è successo ad alcune popolazioni sudamericane.

Se ragioniamo in termini storici possiamo constatare che, prima o poi, i nuovi arrivati e gli autoctoni si sono mischiati tra loro e han dato vita a nuove culture e, addirittura, a nuove etnie così come le conosciamo ora. Se ci limitiamo ad osservare gli avvenimenti sull’arco di un solo secolo, però, l’impressione che ne ricaviamo è molto diversa: scontri, instabilità, violenze di ogni genere, a volte vere e proprie guerre.

Ci sono, è vero, esempi di “invasioni” pacifiche assorbite nell’arco di pochi decenni e ciò che è successo negli Stati Uniti d’America dopo che “l’uomo bianco” aveva soppiantato gli indiani sta a dimostrarlo. Decine di migliaia di italiani, irlandesi, tedeschi e altri ancora sono arrivati sottostando ad una severa selezione nei porti di arrivo e, nell’arco di una o due generazioni, sono diventati cittadini americani a tutti gli effetti. Di loro possiamo dire che si sono perfettamente integrati con chi li aveva preceduti. Non si può dire la stessa cosa per gli arrivi piu’ recenti di “ispanici” che arrivano dal centro e dal sud America. Tra loro solo una ridotta percentuale si integra e molti rifiutano persino di imparare l’inglese frequentando unicamente altri “ispanici”. Pochi sono i matrimoni misti e finiscono con il restare un corpo estraneo al Paese in cui erano giunti con la speranza di migliorare le proprie condizioni di vita. In Stati come il Brasile, la situazione è, sotto certi punti di vista, ancora peggiore. La pace sociale, d’altronde instabile causa l’enorme divario di benessere tra le varie classi sociali, è possibile solo attraverso una marcata gerarchia entica e razziale: I bianchi di discendenza europea sono il gruppo dominante, i “mezzosangue” stanno a metà e gli autoctoni, quelli precedenti la “civilizzazione”, sono il gradino piu’ basso e non contano quasi nulla.

Di là delle diversità culturali, che possono essere un ostacolo al mischiarsi delle popolazioni, anche i tratti somatici molto marcati possono fare la differenza. Lo si vede proprio negli Stati Uniti ove, indipendentemente da leggi anti razziali e spinte culturali all’integrazione, il divario tra bianchi e neri continua a marcare da secoli la vita quotidiana. I matrimoni misti sono sempre una rarità (alla pace del film “Indovina chi viene a cena”) e sul mercato immobiliare i quartieri e gli edifici abitati prevalentemente da neri valgono meno degli altri.

La possibilità di integrazione tra autoctoni e gli ultimi arrivati sta sempre in un equilibrio tra tre fattori: il numero di quanti arrivano, i tempi su cui si distribuiscono gli avvenimenti migratori e la densità di popolazione in relazione alla dimensione del territorio di chi accoglie. Non è possibile affidarsi a una formula matematica precisa che dia la soluzione perfetta. Molto dipende dalla profondità delle differenze culturali e dall’omogeneità interna ai gruppi in arrivo. Quel che è certo è che, ovunque e ogni volta che questi tre fattori non sono stati ben bilanciati tra loro, la pace sociale è stata messa a rischio e l’integrazione si è dimostrata vieppiù impossibile. Un altro fattore è molto importante e va considerato: la volontà di integrazione dei nuovi arrivati. Certamente essa dipende anche dall’atteggiamento di chi riceve, ma soprattutto dalla compatibilità potenziale tra le culture e dalle affinità intrinseche ai gruppi in arrivo. Se, ad esempio, su mille “stranieri” entrano in un gruppo di diecimila autoctoni e ottocento appartengono alla stessa etnia, razza o radice culturale, è molto probabile che nasca tra i “nuovi” una spontanea solidarietà che li porti a sentirsi come un “noi” contrapposti a un “loro”. In mancanza di una forte volontà di integrarsi o in presenza di forti radici culturali originarie, il numero sufficiente per creare un “noi” alternativo va proporzionalmente riducendosi e non basteranno pochi decenni per superare le differenze. È il caso delle popolazioni di origine cinese emigrate in tanti Paesi del mondo. Ovunque si trovino, solo pochissimi tra loro si miscelano veramente con le genti locali. Tendono, piuttosto, a frequentarsi tra loro, a creare Chinatown, a evitare matrimoni misti e non avere rapporti con i locali, salvo che per motivi di affari. Tendenzialmente i cinesi non creano motivi di conflittualità con la società che li circonda me ne restano comunque estranei. Ci sarebbe da domandarsi cosa farebbero se, per un qualunque motivo, dovesse nascere un qualche conflitto tra il Paese in cui vivono e quello originario a cui si sentono sempre legati.

Tutti coloro che ai nostri giorni predicano una” accoglienza” indiscriminata e criticano chi vuole porre un freno ai flussi migratori sottovalutano l’importanza della percezione identitaria che ogni individuo ha bisogno di ricevere dal gruppo sociale cui appartiene o vuole appartenere. Quando tale percezione si sente a rischio non importa che la “diversità’” sia realmente aggressiva o soltanto sentita come tale: nasce istintivamente la paura del “diverso”, visto come “altro da sé” e quindi nemico. Se l’”altro”, con il suo comportamento (volontario o anch’esso istintivo), darà l’impressione di voler continuare ad essere altra cosa, nascerà il rigetto e i due atteggiamenti contrapposti si alimenteranno l’un l’altro nella diffidenza reciproca. Il rifiuto diventerà a man a mano ostilità e prima o poi lascerà spazio alla violenza. È quanto abbiamo visto succedere nelle banlieue francesi e negli slum inglesi. Quando il numero dei “diversi” è percepito come irrisorio, se l’atteggiamento di un nuovo arrivato mostrerà volontà di integrazione con l’ambiente che l’ha accolto, se non nasceranno ghetti abitativi che riuniscono importanti gruppi di estranei, allora la “diversità’” potrà perfino apparire virtuosa e la società autoctona assorbirà, poco per volta, non solo la diversa fisicità ma anche nuove abitudini di vita che saranno percepite come “arricchenti”. Perché’ ciò possa avvenire, però, occorre che si realizzi la concomitanza di tutti i fattori sopra esposti.

È scontato, e ce lo insegna la storia, che nello scorrere del tempo qualunque tipo di diversità viene assimilata e ogni società muta, trova nuovi equilibri e perfino nuove identità, ma perché’ ciò avvenga è necessario molto tempo e, a volte, secoli. Piu’ la “diversità”’ è marcata, piu’ il tempo necessario diventa lungo. Naturalmente, salvo che i nuovi arrivati sottomettano, o addirittura eliminino, gli autoctoni.

Filosofi, storici, scrittori possono permettersi di guardare ai fenomeni migratori immaginandone le conseguenze ineluttabili, spesso positive, su questi tempi lunghi senza considerare gli effetti sul breve termine. Non è però così per chi vive sulla propria pelle le incertezze e le paure che derivano da spostamenti di grandi masse di genti. Tantomeno è facile per chi ha responsabilità politiche e il compito di garantire pace e benessere ai cittadini da cui è stato eletto accettare, senza nulla fare, la conflittualità sociale che si manifesterà.

I flussi migratori di milioni di persone sono andati aumentando negli ultimi decenni anche a seguito della crescente globalizzazione. I motivi che spingono molti a lasciare le terre in cui sono nati sono i piu’ svariati e vanno dai conflitti locali ai fattori climatici a persecuzioni di vario genere. Tutti cercano, nell’andarsene, di garantirsi la sopravvivenza o, semplicemente, di migliorare le condizioni di vita proprie o dei propri figli. Il costante aumento della popolazione mondiale certo vi contribuisce e non c’è segno che la tendenza possa cambiare negli anni a venire. La popolazione dell’Africa sub sahariana sembra destinata a raddoppiare in un secolo e la sola Nigeria, entro cinquanta anni, sarà il terzo Paese piu’ popoloso al mondo dopo Cina e India. Stiamo parlando di centinaia di milioni di persone che sulla Terra, verosimilmente, si troveranno a lottare per garantirsi una degna sussistenza di fronte al diminuire delle risorse disponibili. L’aumento del benessere individuale nel mondo sviluppato ha portato al calo delle nascite e a una diminuzione tendenziale degli abitanti ma prima che lo stesso fenomeno possa avvenire nei Paesi non ancora sviluppati passerà qualche secolo. Pensare, come propongono alcuni, di sopperire alla nostra scarsa natalità con l’”importazione” di altri popoli non tiene conto né dei numeri coinvolti né dell’impatto sociale negativo che ciò potrebbe causare. Aggiungiamo pure che la nostra densità di popolazione è già eccessiva e il consumo del suolo, in corso in tutta Europa, lo dimostra. Viviamo su di un pianeta che ha contorni fisici ben definiti. Quanti esseri umani potranno abitare la Terra senza autodistruggersi totalmente attraverso guerre per il possesso delle risorse sempre piu’ scarse? Un forte controllo delle nascite in tutto il mondo sarebbe auspicabile, ma i cinesi ci hanno provato e hanno dovuto rinunciarvi anche senza aver dovuto subire pressioni oscurantiste di stampo religioso.

Per tornare, comunque, alle conseguenze sociali dei fenomeni migratori occorre avere il coraggio di guardare con occhi imparziali a cosa succede nei luoghi ove forti comunità straniere sono arrivate, nel corso di pochi anni, in territori abitati da altri.  Pochi sembrano volerlo ammettere ma in nessun Paese del mondo (salvo, forse, l’isola Mauritius per motivi particolari che ci riserviamo di esplicitare in altro scritto) esiste una pacifica convivenza, sul breve termine, tra etnie diverse. Ancora peggio va dove anche le razze di appartenenza sono diverse.

Può apparire assurdo agli apostoli dell’”amore universale” ma perfino in ciò che, da lontano, potremmo considerare come un paradiso terrestre, le isole Fiji, negli ultimi decenni ci sono stati colpi di stato e scontri violenti tra gli originali abitanti e una comunità di immigrati provenienti da altre isole dello stesso Oceano Pacifico. Nella stessa Africa nera assistiamo ogni giorno a scontri tribali e non si è ancora spenta l’eco della carneficina avvenuta in Ruanda tra le etnie Tutsi e Hutu. Un esempio di convivenza instabile è la Malesia, ove gli autoctoni sono oramai solo il 55 percento della popolazione del Paese. Quelli di origine cinese sono il 35 percento circa e il resto è costituito da genti venute dall’India. I gruppi tendono a non mischiarsi tra loro e coltivare ciascuno le proprie abitudini culturali. Ebbene, le attività economiche locali sono gestite quasi totalmente dai cinesi, le libere professioni dagli indiani e gli autoctoni sono i dipendenti di entrambi. Fortunatamente, esiste un partito che si dichiara interetnico e un suo leader, Mahatir, quando fu Primo Ministro fece approvare per qualche anno una legge “discriminatoria” che consentiva ai malesi che volevano aprire una qualche attivita’ in proprio di godere di tassi bancari piu’ agevolati di quelli disponibili alle altre etnie. Il carisma di Mahatir riuscì a far digerire tale situazione senza causare traumi o proteste ma è difficile immaginare qualcosa di simile fatto da politici occidentali.

Chi a tutti i costi vuole continuare a predicare l’”obbligo morale” dell’accoglienza non affronta il problema delle difficoltà dell’integrazione, limitandosi a dire che è necessaria. Evidentemente costoro sono animati da buone intenzioni e si appellano ai sentimenti di solidarietà tra esseri umani. Dimenticano però di considerare l’impatto reale del fenomeno e nessuno di loro si pone il problema dei numeri potenzialmente coinvolti. Si fa un gran parlare della diminuzione degli arrivi sulle coste italiane ma non si dice che, contemporaneamente, sono in forte aumento quelli verso le coste spagnole incoraggiati da una apparente disponibilità (quanto durera’?) del nuovo Governo locale. Non contano nemmeno, in aggiunta a quelli arrivati nell’ultimo anno, tutti quelli che già erano arrivati negli anni passati (e non solo via mare) e si trattengono nel nostro Paese anche quando non si è riconosciuto loro alcun diritto a restare. Tutti noi sappiamo che, trattenendosi illegalmente, non possono trovare alcun lavoro ufficiale nel nostro Paese e sono quindi destinati al lavoro illegale o a diventare delinquenti, piu’ o meno organizzati in bande. Senza contare che, trattandosi in maggioranza di soggetti giovani con le pulsioni sessuali di ogni persona normale ma nella difficoltà a soddisfare naturalmente i propri istinti, sono frequentemente attori di violenze ai danni di altri “profughi” o di nostre/i connazionali.

Chi pensa che una loro regolarizzazione di massa (cosa che comunque sta avvenendo nei fatti senza che sia dichiarata) sarebbe auspicabile, chiude gli occhi davanti al fatto che ciò invoglierebbe sicuramente un ancora maggiore numero di aspiranti profughi a cercare di arrivare tra di noi.  Lo dimostra il numero di donne incinte e di minori che aumenta percentualmente ad ogni sbarco. Chi vuole entrare illegalmente nel nostro Paese sa già che le nostri leggi impediscono di espellere donne in stato di gravidanza e minorenni e sanno che per loro basta toccare un qualunque angolo di territorio italiano, magari anche solamente il ponte di una nostra nave, per essere certi di poter rimanere da noi indefinitamente.

A questo punto occorre domandarci che prezzo siamo disposti a pagare per assecondare i nostri naturali sentimenti umanitari. Siamo pronti ad accettare anni di instabilità sociale? Di vedere aumentare le nostre insicurezze quotidiane? Di perdere i nostri riferimenti culturali per almeno un secolo, in attesa di conquistarne di nuovi? E poi, quanti dell’attuale miliardo e trecento milioni di africani (senza contare gli asiatici o i sud americani) riteniamo di poter “accogliere” continuando a mantenere il nostro presente tenore di vita? Chi, da privato cittadino, può permettersi il lusso morale di essere “ospitale” e “internazionalista” (una volta si diceva “terzo-mondista”) può anche rinunciare a rispondere a queste domande ed evitare persino di porsi il problema. Chi, invece, riveste un qualunque incarico pubblico o ha responsabilità intellettuali non può sottrarvisi e deve prendere posizione. A rischio di passare per “cattivo” o, come qualche “buono” ha scritto, addirittura per un nuovo “Satana”.

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