Un grande fratello alla rovescia

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Avete mai pensato che un genitore potrebbe dire al proprio figlio: “Se vuoi avere successo nella vita, gioca alla playstation!”  Oppure la versione femminile: “Non sprecare tempo a studiare. Fai un corso di trucco e poi impara a fare un video.” Con buona pace di passate generazioni di genitori che ancora credevano che studiare e avere un titolo di studio (o anche solo un pezzo di carta), potesse rappresentare la svolta della vita per i figli. Sono stati clamorosamente smentiti da YouTube e da giovanissimi che, parlando di trucchi e moda, oppure semplicemente giocando ad un videogioco attraggono milioni di follower che visitano le loro pagine, cliccano, mettono like, condividono e portano a questi ero dei giorni nostri celebrità e ricchezza.

Sicuramente molti di loro sono prodotti frutto di attività di marketing e ricerca per capire quali siano gli interessi e gli umori del potenziale pubblico, ma esistono non pochi casi di chi semplicemente commentando calcio o dando consigli riesce a richiamare l’attenzione di sponsor e della stessa Google e guadagnare, anche non poco, divertendosi. Quella che una volta era una punizione orribile, oggi può essere la chiave del successo: “stai chiuso in camera tua.” Non esistono più cantanti che non abbiano il loro canale Youtube e la musica passa ormai quasi solo per la rete.  Così cambiano le cose, ed è naturale che sia così, ma alcune osservazioni si pongono e inducono a riflettere.

Nei sistemi dittatoriali, uno dei più grandi terrori era quello del controllo da parte del potere che giungeva a entrare nelle case e nelle vite private altrui. Durante il ventennio fascista l’OVRA era la potente e temuta polizia segreta incaricata della vigilanza e repressione di organizzazioni sovversive. Era la versione italiana della famigerata Ceka sovietica, antenato del non meno terribile KGB che in pochi anni, dal 1919 al 1922, distrusse fisicamente tutti i gruppi di oppositori al regime. Essere spiati da una polizia segreta, che entrava nell’intimo delle abitazioni, nelle scuole, nei luoghi di lavoro era qualcosa che chiunque avrebbe voluto evitare.

Nel suo 1984 George Orwell dipinge una società in cui il controllo da parte del governo si estende ad ogni forma di pensiero e il Grande Fratello impone anche il sentimento dell’odio. L’esatto contrario dello Stato di diritto che rispetta le libertà dei cittadini e se ne erge a protettore. I termini si sono invertiti e il Grande Fratello non è più il controllore, ma si fa di tutto per essere i controllati. Chiunque vuole essere sotto l’occhio del resto dell’umanità. Vietato rivendicare la Privacy da parte di chi vive una vita in vetrina. Non importa che lo faccia per insegnare a ballare, giocare ad un videogame o a truccarsi; dire le proprie opinioni o far vedere a tutto il mondo i momenti che erano una volta i più riservati e personali quali, ad esempio, la nascita di un figlio o un matrimonio. Qualcuno sente addirittura il bisogno di far sapere a tutti i suoi contatti che cosa ha mangiato a pranzo.

Inutile negarlo: il primo gesto di molti al mattino, appena svegliati, è controllare quante mail o messaggi sono giunti durante la notte e, più che altro, quante reazioni, like, condivisioni, sono giunti sui propri social o visite sul blog. Ogni volta che si pubblica un post o un’immagine è una richiesta di essere visto, apprezzato, condiviso; un messaggio in bottiglia che si lancia dalla propria isola personale che ci si costruisce in internet, nella speranza che venga raccolto e addirittura apprezzato e condiviso da tutti i possibili destinatari. Possiamo dire che l’utente medio di internet, che vive su Facebook, si mostra su Instagram o Pinterest, lancia i suoi messaggi di poche righe su Twitter o Pinterest, lo fa per essere individuato e avere il numero più alto possibile di amici, contatti, ammiratori, fans, follower. E chi ha follower, non dimentichiamolo, è un leader; un opinion maker, un capo carismatico che può spostare l’opinione dei consumatori e le intenzioni di voto dell’elettorato. Lo hanno capito i leader politici che, da Grillo in poi, lanciano i loro messaggi sui social e usano la rete. Rete che permette, tra l’altro di evitare il dibattito o ogni forma di contestazione bloccando i messaggi e le persone sgradite. A meno che non si voglia affrontare lo scontro selvaggio come in un talk show o negli attuali dibattiti politici. Mi si consenta.  Volutamente ho usato il termine scontro, non confronto: invero un confronto imporrebbe trovarsi di fronte al proprio avversario portando argomenti validi e contestazioni sui programmi e le idee altrui. Ciò che accadeva ai tempi delle tribune politiche e elettorali, dove non volavano insulti e, anche, ricordiamolo, si parlava in lingua italiana. Adesso invece, che si tratti di un politico o di uno Youtuber, non è previsto il dialogo, ma il monologo. E il pubblico, annoiato dai concetti e distratto dall’offerta della rete, vuole solo concetti semplici e di facile comprensione che non implichino per l’utente pensare più di tanto.

Tutto ciò porta a decretare il successo di chi più facilmente riesce a prendere il proprio pubblico alla pancia e non per i contenuti. I messaggi devono essere semplici e di immediato impatto per raggiungere il loro obiettivo: sia che si parli di moda, di calcio o delle politiche di bilancio europee. Difficilmente l’utente medio, target, può recepire un messaggio che vada oltre i 140 caratteri di Twitter o un’immagine su Facebook. E lo stesso utente medio, a sua volta, è allo stesso modo protagonista o aspirante tale in questo continuum di Grande Fratello dove vince chi più degli altri è osservato e spiato dagli altri. Non importa come arrivi in cima ai motori di ricerca o avere il maggior numero di followers: basta arrivarci.

 

 

2 Comments

  1. Purtroppo sono d’accordo con l’avv. Dell’Aiuto, ormai per quanto ci siano le leggI, non abbiamo o meglio non vogliamo più avere una privasy e ciò è sconvolgente

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