Non è bello ciò che piace

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Da alcuni anni a questa parte (con una particolare accelerazione negli ultimi mesi) stiamo assistendo ad una progressiva svalutazione dell’ideale di bellezza: lo slogan sempre più ricorrente è quello secondo il quale ogni corpo sarebbe bello, e che non si può universalizzare tale concetto.


Non spetta a noi ovviamente giudicare se possa essere vero o meno quanto sostenuto (ciò infatti implicherebbe valutare di volta in volta le fattezze del corpo, un esercizio sterile, oltre che volgare). Piuttosto vorremmo riflettere su uno dei tanti paradossali corti-circuito sui quali si imbatte il pensiero mainstream: l’assolutizzazione del concetto di “bello” legato al fisico.

La “discussione” a riguardo è divenuta infatti nauseante: ognuno, edonisticamente, tenta di “forzare” i limiti del concetto di bellezza, per potervi rientrare. Peccato che, come spesso accade, la discussione sia traviata in origine: già nel “Simposio” platonico Pausania distingue tra due tipi di amore, uno volgare, dedito all’attrazione corporea, e uno Celeste. Quest’ultimo, superiore al primo, guida le anime verso la bellezza immateriale: in greco “kalós” (“bello”), infatti, è ciò che chiama, ciò che attrae a sé.

“American Beauty”, film statunitense del ’99, è interamente giocato sui vari tipi di bellezza che esistono e che attraggono i personaggi a seconda delle diverse sensibilità: Lester, padre in crisi di mezz’età, si invaghisce di un’amica della figlia, ma a ben vedere tale attrazione non è spontanea, bensì dettata dal desiderio di ringiovanire, di piacersi dopo essersi reso conto del naufragio del suo matrimonio.

Se ridurre la bellezza come ideale alla semplice bellezza corporea sembra assurdo, non è altrettanto inconcepibile il motivo per cui, secondo noi, ciò accade: nella società dell’immagine, dell’apparire, in cui se si vuole esser belli bisogna comprare il vestito all’ultima moda o la scarpa pubblicizzata dal calciatore in voga, affermare una bellezza immateriale significherebbe, al contempo, dichiarare la propria indipendenza nei confronti dell’industria che, quotidianamente, ci offre trucchi, abiti, bracciali, orologi e quant’altro, solo per farci apparire sicuri agli occhi dei più.

Ma se questo “salto estetico” non può essere compiuto dall’alto, facciamolo noi: solo così potremo riabituarci alla bellezza di un fiume, di un monte, di un albero, o anche alla bellezza di un carattere, o di una semplice discussione con un amico.

Solo così potremo renderci conto della bellezza che ci circonda, come, in “American Beauty”, fa Ricky, vicino di casa di Lester e fidanzato della figlia, che, davanti ad un video di una busta sospinta dal vento, esclama:

“A volte c’è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla. Il mio cuore sta per franare”.

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