La cultura che (non) ti aspetti

Arte buona e buona arte

in ARTE by

“Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?”.

Così scrive Franz Kafka ad Oskar Pollak, nel 1903. E da qui, a nostro avviso, dovremmo ripartire per ripensare la letteratura, la poesia, l’arte in generale. Sì, perché viviamo nell’epoca del politicamente corretto, il momento nel quale l’arte, ahinoi, sembra essere lo specchio di una società depensante, nella quale dobbiamo essere tutti educati, contro i cattivi, a favore di questo e di quell’altro.

Secondo noi no. È questo che ci rende l’arte di oggi intollerabile, che la mostra come uno stagno puzzolente, alla maniera nella quale Hegel, nei suoi “Lineamenti di filosofia del diritto” vede la società nella kantiana pace perpetua. Ovviamente, a differenza di quello che sostiene il filosofo di Stoccarda, non vogliamo la guerra militare, ma quella delle idee: Eraclito, nei suoi “Frammenti”, ci spiega che solo dal fuoco, da ciò che arde e muta costantemente può scaturire la realtà.

Noi vorremmo una letteratura capace di leggere nel profondo la cattiveria e le paranoie dell’animo umano, come fa Dostoevskij, fra le altre opere, in “Memorie dal sottosuolo”; vorremmo chi, come Dante, ci mostrasse sì la bellezza del Paradiso, ma non prima di averci fatto entrare tra le fiamme dell’Inferno, tra le quali bisogna lasciare ogni speranza. O, in alternativa, chi, come Beckett, non ci mostri alcuna redenzione affatto, ma solo il nonsenso della vita ai giorni d’oggi.

Non vogliamo un’opera da leggere o da guardare, che possiamo poi rimettere sullo scaffale della libreria, e che ci tornerà utile solo per ampliare la collezione da ostendere alle nostre spalle durante la prossima chiamata Skype: abbiamo bisogno di chi, come il controllore della “Colonia penale” di Kafka lasci, figuratamente, la vita per la scrittura, o di chi, (sempre metaforicamente, sia mai) perda la vita sul set, come Brandon Lee.

E invece no. Perché il liberalismo ha contagiato, oltre al lavoro, anche l’arte, separando la stessa dalla vita, e rendendola innocua: non andiamo al Museo per entrare nel processo creativo dell’artista; non guardiamo un film al cinema per vivere a 360 gradi l’esperienza dei protagonisti; non assistiamo ad una mostra per ampliare la nostra prospettiva sul mondo: facciamo tutto ciò per evadere dalla realtà, e, qualche volta, per farci una foto da aggiungere ai nostri profili social.

Peccato che le opere (posto che siano di livello, e non le ultime vincitrici del premio strega o del festival di Cannes), spesso, ci mettano di fronte a quelle stesse contraddizioni dalle quali cerchiamo di scappare, mostrandoci proprio quei sentimenti negativi che vogliamo rifuggire nel nostro pomeriggio culturale.

Allora tenetevi l’arte di oggi, i romanzi nei quali i più sfortunati vincono, le opere che celebrano il trionfo dei reietti; tenetevi gli artisti di oggi, così tronfi, pieni di loro stessi, il cui petto è così gonfio che non riuscirebbero a guardarsi la punta delle scarpe. Sono inconfondibili: ore 18 diretta social nella quale leggono un passo di un’opera novecentesca o medievale, estrapolandola dal contesto e non provando alcuna passione per le parole in questione, ma solo un amore smodato verso la loro persona.

Lo Zarathustra nietzscheano ci avverte però: dopo il passo sulla stella danzante (che potete tranquillamente reperire sui profili dei suddetti “artisti”) egli scrive:

“Ahimè! Viene il tempo in cui l’uomo non potrà più generare alcuna stella. Ahimè! giunge il tempo del più spregevole tra gli uomini che non sa più disprezzare sé stesso”.

Gettiamoci alle spalle l’autostima, la volontà di apparire a tutti i costi: l’arte ci precede e ci sopravviverà, noi possiamo solo lottare con essa e per essa, contro il deserto culturale che ci circonda.

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